Archimede Antonio D'Este - Siracusani

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
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Archimede Antonio D'Este

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statua di Archimede opera di Antonio D'este

Il simulacro di Archimede opera in plastica del cavaliere Antonio D'Este
Legato dall'artista alla città di Siractua.
Opera gentile di altissima mente e d'animo nobilissimo offresi al pubblico il simulacro d'Archimede nella sala municipale di Siracusa. Di esso lo scultore cav. Antonio d'Este primogenito della scuola di Canova, degno d'eseguire il disegno della deposizione della Croce lasciato dal suo immortale maestro, facea dono al Siracusano municipio. Era suo intendimento condurre in marmo questo capolavoro, ma la morte, che alla gloria delle arti lo rapì, non gli fece compire il disegno generoso.
Correva il novembre del 1840, quando giungea in Siracusa alle autorità municipali da Roma una lettera dei 20 settembre a nome del cav. Giuseppe d'Este, in cui manifestandosi egli interprete ed esecutore dell'ultima volontà paterna, offeriva a questo Siracusano municipio il Simulacro d'Archimede. Ottenuto con real rescritto del 17 marzo 1841 il sovrano consentimento per l'accettazione del dono, il 2 aprile deliberava la Decuria sui mezzi di trasporto, e in maggio un legno nostro solcava le acque del Tevere per accogliere e condurre in Siracusa il simulacro desiderato. A dì 8 giugno, compiuto l'imbarco, la nave scioglieva le vele, e con propizio vento, in 5 giorni giungeva nel porto di Siracusa, ove, nel palazzo dell'unversità, aprivasi la cassa, ed esponevasi agli sguardi de Siracusani la statua stupenda. Di grandezza maggiore dèli'ordinaria ergesi la figura sul plinto. Il gran Siracusano mostrasi in età matura si, ma tuttora vigorosa e nel l'apogeo delle forze fisiche ed intellettuali.
Breve la barba e la capellatura: il suo vestito consiste in una lunga tunica zonata, e un manto, che cadendo dall'omero destro vien dalla destra mano raccolto sul femore; e il manco braccio fuori uscendo libero dal colobio va a posarsi sopra un torso di colonna, in cui l'artista indicò le geometriche figure che furono scolpite su la tomba del divino matematico, e che due sècoli dì por furòn segno al grande Arpinate per discoprire l'avello su cui posavano le ossa di colui che avea creato la geometria dei sòlidi regolari. Largo e spazioso rileva innanzi il petto, ed ampie sono le spalle; con la destra mano sporgente dai viluppi del manto sostiene il compasso e lo stile; la faccia piegasi alquanto a destra, e su la destra gàmba riposa la persona ; calzati di leggiero sandalo sporgono i piedi dalla tunica.
"Nel modellare questa statua, il valoroso artista ebbe in mente Archimede nel momento, che animato dal sentimento del proprio genio per la difesa nazionale osserva i movimenti dall'armata nemica, e inedita que'divini trovati che valsero a tenere in sospeso tre anni la gloria della potenza e della strategia romana. Vediamo come questo sublime concetto siasi espresso nelle singole parti e nell'insieme dell'opera che esaminiamo.
Nella faccia si riflette più che altrove l'anima dell'artista. Essa come tutte le greche fisonomie è più ovata che rotonda: sensibilmente risentilo è il profilo nasale dell'angolo facciale di Camper ; e la vena temporale ri­gonfia per la postura in isbieco del colio. Il lavorio intanto è tale che quel volto ti presenta a prima visla un ingegno e un cuore in cui gli altissimi pensieri ed affetti sono l'ordinaria condizione del genio.
 
Vi fu chi avvisossi voler trovare in Archimede la sola espressione della mente senza quella del cuore; dal perchè i pensieri del calcolo non sono sociabili co'moti del sentimento, ma ignoravano costoro, che la scienza nei genj è ima febbre ardente, e quella ma­niera di frenesia, che invasò il nostro Archimede quando, secondo Vetruvio, sciolse il problema della Corona ne! bagno, correndo ignudo e gridando, inveni, inveni, appalesa di qual potente passione era infiammata quell'a­nima. Che se il grande Urbinate, rappresentando il som­mo Siracusano nel famoso affresco della scuola d'Alene nel Vaticano, nel momento che spiegava su l'arena gl'ingegnosi suoi trovati, sottrasse nello scorcio della faccia i più bei trovati visuali, presentandoci invéce un cranio spazioso e ben conformalo, ciò fece perchè volle presentarci nelle matematiche la potenza della dimo­strazione, lo sviluppo del trovato, non il ritrovamento stesso ch'è il concetto dell'egregio nostro scultore.
 
Fermo e determinato è lo sguardo, leggiermente ar­cuate le sopraciglia, e un po ingrottali gli occhi i quali sembran fissi sull'armata Romana. Tramandano essi un lampo di quel pensiero, che manifesta un ritrovato, che nelle sue mani eguaglierà la potenza delle armate e delle macchine, e vedesi alla sicurezza di vincere la formidata nazioue che aspira al conquisto del mondo associata la luce eterea della virtù cittadina, e il senti­mento che ci fà amare Iddio nella creatura. Ecco il con­cetto che viene mirabilmente espresso da quegli occhi.
 
Tutto questo è sostenuto dall'arte con franchezza e disinvoltura, senza grottesco ed esagerato, senza tanto scendere a quella servilità di natura che inaridisce il ge­nio, e senza sformarla per non perdersi nel falso e nel bizzarro. In somma è la verità che l'arte sublima e rende più amabile, dando quel grado di dignità onde le cose acquistino più grazia e novità. Le pinne nasali un pò aperte e risentite esprimono l'ira generosa, quell'ira, che la speranza d'una reparazione rende mite, sublime nel magnanimo scopo; quindi si manifesta con franchi colpi senza convellere il profilo nasale, imbruschire la pacatezza delle gote e il riposo della persona. Un tratto ancora, una linea di più a quell'e­spressione, e lanista sarebbe fuorviato dal concetto ico­nico e dalle regole dell'arie: tant'è che la perfetta espressione di alti concetti dipende spesso da cagioni mi­nutissime, alle quali non giunge il calcolo, ma la po­tenza sola del genio.
 Se dal volto scendiamo al collo vediamo la vena jugolare e il muscolo sterno-masloideo espressi con quell'arte onde il Canova diceva « Doversi sapere l'anotomia ma non farla troppo conoscere; perchè la natura, di cui l'arte è imitatrice, la ricuopre d'un ingegnoso velo di polpe, e pelle, non presentando agli occhi che una dolce superfi­cie, la quale soavemente si modula, si abbassa, s'incurva, senza risalto"
Nella nostra statua noi troviamo un collo abbondante, un petto ampio e ben larghe spalle ma non quelle dell'Ercole taurino che son espressione della forza materiale, sibbene quelle che fan fede della sede dun'anima grande e potentissima, che natura per ordi­nario racchiude in un corpo ben conformato. Con ciò l'artista ci fa vedere quella corripondenza tra l' idea e la natura senza trascorrere a voli troppo arditi, che se ammiransi nei sommi artisti, son perigliosi ne mediocri, i quali mancando di lena cadono nell'ammanierato e nel ridevole.
Gli abiti consistono come dicemmo in una tunica e un manto, i quali al pregio della libertà, in cui lasciano le membra, uniscono l'altro di non nascondere le naturali proporzioni. È noto che il magistero delle pieghe è il martello degli artisti; quindi ammirerole è il modo come il caliere d'Este, senta perdersi in pomposi svolazzi, panneggiò gli abiti del suo Archimede con la maggior semplicità; mentre quelle vesti sono ad un tempo ampie, disciolte, cadenti, quelle insomma onde il Cicognara levava a cielo il Ganganelli del Canova. La maestà e la franchezza onde Archimede le sostiene ben concorda al concettodel genio immerso in una contemplazione grande e sublime. Ad alcuni parve in certe parti aderir troppo la tunica alla persona. Ma l'aderenza dei panni vuole attribuirsi non a difetto, bensì a squisitezza d'arte: la camicia della Niobe aderisca alla persona come fosse bagnata, ed è tanto lodala dagli artisti; quella dell'Aristide Ércolanese che poco cela le membra, non è meno meravigliosa e lodata.
In somma la movenza della-persona, l'espressione del viso, la nobiltà delle forme, la franchezza dell'esecuzione, la facilità e l'unità del concetto sono i pregi dell'opera che ammiriamo; nella quale se i schifiltosi vorranno notare alcune mende, facciamo loro osservare che molta perfezione avrebbero aggiunta al lavoro la raspa e la lima, se fosse stato tradotto in marmo.
Or rammentate Archimede che per tre anni col solo suo genio resistette alla potenza di Roma, che tanto fè progredire le matematiche e le meccaniche scienze, che gratificò la patria e l'umanità con le opere del suo genio; aggiungete che moriva quando l'aquila di Roma conculcava la potenza Greco-sicula, e una potentissima nazione tramutavasi in Provincia romana; che ammirato e compianto dallo stesso nemico era onorato di splendida tomba, ed eccovi nel concettodel cav. d'Esle il pensiero più sublime dun'epopea. A queste memorie altissime aggiungete come il generoso artista fe' dono spontaneo del suo lavoro alla patria del Sofo glorioso, e voi direte essere nella Sala dell'Università Siracusana un monumento che attesta alle età future come nel secolo XIX palpitò un affetto magnanimo e benefico.
S. Chindemi
Archimede statua opere di Villa
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