Francicanava Giovanni
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FRANCICA NAVA, Giovanni. - Nacque a Siracusa il 10 febbr. 1847, primogenito di Luigi e di Raffaella Bonanno Beneventano.
Il nonno paterno era Giovanni Francica Nava e Montalto barone di Bondifè (che possedeva in Val di Noto parecchi altri feudi e rispettive baronie: Cavadonna, Belliscala, Carrubba, Conte), quello materno Michele Bonanno barone del Maeggio. Il padre del F. era cadetto.
Alla morte del padre (3 marzo 1868) il F. fu dichiarato erede universale e nella divisione dell'asse ereditario, come da testamento, gli spettarono sette dodicesimi dell'intero patrimonio paterno, per un valore totale netto di lire 698.476,78.
Il patrimonio si componeva dell'ex feudo Carrubba, a seminativo e pascolo, di circa 800 ettari nel territorio di Melilli, di un podere irriguo con agrumi e vigne a Siracusa, in contrada Tremilia, di circa 50 ettari acquistato dal padre Luigi, di una grande dimora nobiliare nel pieno centro cittadino, di diversi canoni, soggiogazioni e capitali. Dall'analisi dei dati della Conservatoria dei registri immobiliari di Siracusa si nota un forte incremento del patrimonio immobiliare del F. (fondi agricoli e case) tra il 1871 e il 1900 (36 trascrizioni a favore in rapporto alle 8 registrate tra il 1900 e il 1932). Nel 1907 si evidenzia poi l'accettazione della cospicua eredità del fratello celibe Orazio, il quale era stato a sua volta erede universale dell'omonimo zio paterno. Attraverso questo passaggio una parte del patrimonio della famiglia si ricongiungeva nelle mani del Francica. A partire dal 1913 iniziò un intenso processo di vendite, caratterizzato dalla quotizzazione, nel periodo bellico e postbellico, degli ex feudi e dalla dismissione di case e terreni, con alcuni precetti che evidenziano situazioni di insolvenza. Questa fase, al contrario di quella precedente (caratterizzata da un normale giro di affari), sembra legata a una strategia di monetizzazione del patrimonio fondiario. Emerge inoltre una certa litigiosità familiare, legata ai contenziosi ereditari, di cui per altro si trova una traccia anche nel testamento. Complessivamente il patrimonio sembra avere seguito una parabola ascendente fino circa alla prima guerra mondiale, discendente nella fase successiva.
Il F. passò l'infanzia in vari collegi napoletani, affidato alle cure degli zii Bonanno insieme con le sorelle Anna e Margherita. Intorno al 1870 assunse la gestione del patrimonio paterno e iniziò la carriera politica a Siracusa, ove fu consigliere comunale dal 1873 al 1878 e dal 1888 al 1893.
In quel periodo il notabilato locale era diviso in due fazioni: i "tamburini" (dal nome del giornale Il Tamburo, loro portavoce) e i "provinciali". I primi si erano posti sotto il tutoraggio politico di A. di Rudinì, i secondi sotto quello di F. Crispi. Lo scontro fazionale si protrasse a lungo: il F. in breve tempo divenne prima uno fra i leader locali della fazione del Tamburo e poi il rappresentante parlamentare. Il suo primo importante incarico istituzionale fu la presidenza del Consiglio provinciale di Siracusa (1895), durante la quale fu varata una delle opere pubbliche che determinò il nuovo assetto urbanistico della città: il rettifilo.
Nel 1900 il F. si presentò come candidato del Tamburo al Parlamento e nel collegio di Siracusa batté agevolmente il radicale L. De Caprio. A livello nazionale le elezioni, come è noto, determinarono la sconfitta di L. Pelloux, ma il F., seguendo le sorti di A. di San Giuliano e della maggioranza della deputazione siciliana, passò immediatamente tra le fila dei giolittiani, dove sarebbe rimasto fino al 1913.
Durante il suo mandato il F. non sorresse col suo voto il ministero Pelloux, votò contro il ministero Saracco per la questione dello scioglimento della Camera del lavoro di Genova, non accordò mai né voto né fiducia ai due ministeri Sonnino, votò contro il ministero Fortis in occasione della clausola per i vini della Spagna, si schierò a favore del divorzio e dell'estensione del suffragio.
Scarsissimi furono gli interventi politici in Parlamento. I suoi avversari lo accusarono durante tutto l'arco del suo mandato di ministerialismo cronico e di ascarismo congenito, di immobilismo, superficialità e disimpegno politico. Egli si difese esaltando la propria coerenza politica nei confronti dell'indirizzo liberale incarnato da G. Giolitti. Alla verifica delle fonti emerge che egli svolse un tipico ruolo di raccordo politico tra centro e periferia. Fu presente in tutti i momenti di rivendicazione degli interessi locali, senza però mostrare particolare capacità strategica e incisività politica.
In ambito locale dovette sostenere due diversi tipi di opposizione. In primo luogo quella del composito movimento socialriformista che mise radici fra la piccola borghesia impiegatizia e delle professioni e che trovò il suo leader nella figura dell'avvocato E. Di Giovanni. Ma soprattutto egli dovette affrontare le lotte personali e fazionali che agitavano il notabilato locale. In questo caso erano l'andamento degli affari della borghesia del porto e gli umori più o meno soddisfatti per la distribuzione del potere locale a determinare fronde, cooptazioni, trasformismi che si ripercuotevano immediatamente sul consenso verso la sua azione parlamentare. Egli si legò stabilmente fin dall'inizio alla fazione maggioritaria del partito del Tamburo rappresentata da L. Vinci, grande proprietario terriero e sindaco per molti anni di Siracusa, nonché suo grande elettore.
Nelle elezioni del 1904 ebbe come avversario l'avvocato E. Giaracà, espressione dei circoli radicali e riformisti. Una candidatura debole. Il F. venne rieletto grazie all'appoggio esplicito del prefetto P. Veyrat. Nelle elezioni del 1909 non ebbe avversari. Ma a partire da quella data iniziò la fase discendente della sua carriera politica.
La cartina di tornasole fu rappresentata dalle elezioni per il rinnovo del Consiglio provinciale. In quell'occasione ebbe come avversario F. Di Natale, espressione di ambienti cattolici ma in grado di fare convergere su di sé il consenso di radicali e riformisti.
L'elezione era stata preceduta da una violenta polemica, montata ad arte dall'opposizione, per la chiusura della sezione siracusana della corte d'appello di Catania, tale da oscurare i suoi rapporti con la potente corporazione degli avvocati. Il F. fu costretto a intervenire personalmente presso il ministro di Grazia e Giustizia per ottenere la sollecita riapertura della sezione, ma la vicenda intaccò in modo sostanziale la sua credibilità, tanto che nelle elezioni provinciali subì la prima sconfitta, sia pure per soli 50 voti. Il F. rispose con un ricorso di invalidità delle elezioni per motivi formali, mentre un vasto fronte avversario, ricompattato intorno alla figura del Di Natale, chiedeva le sue dimissioni da deputato, non ritenendolo più legittimato a rappresentare gli interessi locali in Parlamento.
Tre eventi contribuirono a ridefinire gli equilibri politici locali: la crisi del Consiglio comunale del gennaio del 1911, la discussione parlamentare sulle convenzioni marittime, l'esito del ricorso di annullamento.
Riguardo al primo caso i tamburini s'impegnarono a recuperare la sconfitta in provincia con una affermazione nel capoluogo. Essi ricorsero alla tattica già più volte sperimentata di aprire la crisi amministrativa e di fare gestire la fase di transizione a un commissario straordinario. Grazie alla mediazione del prefetto e del F., il commissario si mostrò sensibile alle richieste del Tamburo. Egli si fece carico dell'approvazione del bilancio e inoltre, come già avvenuto in altre occasioni, determinò un sostanziale miglioramento, economico e di qualifiche, ai 214 impiegati comunali, precostituendo una base di consenso per l'amministrazione tamburina. Nel frattempo il F. e il Vinci avevano lavorato alla cooptazione di parte della fazione avversaria. Ciò permise al Tamburo di vincere le elezioni del gennaio 1911, riportando alla carica di sindaco, dopo una lunga parentesi, il Vinci. Si intreccia con questa vicenda l'altra relativa alle convenzioni marittime, tutta giocata sulla centralità della linea Napoli-Siracusa-Alessandria d'Egitto. La linea, prevista nel primo progetto Schanzer, era stata ridimensionata in quello Bettolo. Successivamente il F. ebbe promessa formale in Parlamento da parte di L. Luzzatti che la linea, oltre a entrare nel progetto definitivo delle convenzioni, sarebbe stata anche potenziata. La promessa fu mantenuta e salutata come una grande vittoria degli interessi locali. Ma nel clima avvelenato delle elezioni amministrative le fazioni si contesero il merito del risultato e, mentre Il Tamburo lo attribuiva totalmente al F., gli avversari lo rivendicavano all'azione svolta dalla commissione della Camera di commercio e del sindacato per i servizi marittimi, che aveva trattato direttamente e autonomamente la questione con gli uffici della capitale. Infine, nel luglio 1911, la sentenza del Consiglio di Stato, favorevole al ricorso, alleggerì di molto la posizione del Francica. A questo punto un quarto evento contribuì a riaprire definitivamente tutti i giochi politici locali: la morte all'inizio del 1912 del Di Natale, che costrinse l'opposizione a cercare un altro leader.
Nella nuova congiuntura politica locale che si apriva nel 1912 non sfuggì al F. che la battaglia decisiva si sarebbe giocata sul rinnovo delle convenzioni marittime in relazione alle nuove prospettive commerciali aperte dalla guerra di Libia, con l'istituzione della linea diretta per la Tripolitania e per Bengasi, particolarmente agognata dai Siracusani. La pressione degli interessi catanesi, che spingevano affinché le due linee avessero capolinea nel porto etneo, misero in agitazione i commercianti del porto di Siracusa, che mobilitarono tutti gli organismi, dalla Camera di commercio alla deputazione nazionale, per evitare questa eventualità e ottenere il capolinea per la città.
Il F. fu direttamente investito dal Tamburo per affrontare e risolvere il problema. In breve tempo nella contesa per il capolinea entrarono anche Palermo e Porto Empedocle. Il partito del F. riconobbe che come porto commerciale Catania aveva meriti e interessi di gran lunga maggiori. Decise così di puntare sul capolinea delle linee postali, che difatti il 26 ottobre fu attribuito a Siracusa con cadenza bisettimanale. La soluzione, opera di lunghe mediazioni parlamentari del F., non soddisfece la borghesia commerciale cittadina. La situazione precipitò poi nel luglio 1912 quando Catania ottenne il prolungamento dello scalo postale di Siracusa, assumendo di fatto la funzione di capolinea. L'opposizione scatenò un violento attacco contro il F.: soprattutto i radicali e socialriformisti comparavano i risultati ottenuti da G. De Felice Giuffrida a Catania con quelli del F. a Siracusa. In realtà tutta la deputazione parlamentare siciliana, in accordo col Sindacato marittimi siciliani, aveva spinto per estendere il privilegio di capolinea da Siracusa ai grandi porti di Messina, Catania e Palermo. La lunga vicenda delle convenzioni si concludeva per la città con il passaggio da 5 a 10 linee e da 229 a 540 approdi.
Ottimo risultato per IlTamburo, pessimo per le opposizioni che si fecero espressione delle lamentele delle grandi famiglie commerciali. Il riflesso sul piano politico fu quello di fare riaprire le grandi manovre per la successione al F. in vista delle elezioni del 1913. L'opposizione radicale e socialriformista si assestò sulla candidatura del Di Giovanni. Ma pericoli maggiori venivano ancora una volta dalla fronda interna e dal mondo notabile e mercantile che aveva deciso di abbandonare il F. perché insoddisfatto di come egli aveva gestito gli interessi locali in sede parlamentare. Così, nell'ottobre 1912, usciva LaVoce del popolo, a sostegno di un nuovo gruppo fazionale, favorevole alla candidatura del Giaracà, già avversario del F. nel 1904, che ora si spostava su posizioni moderate, sostenuto da gran parte del notabilato locale e perfino dal Vinci. Il F. in extremis cercò l'appoggio del leader dei radicali De Caprio; poi, abbandonato dagli alleati più fidati, decise che non si sarebbe presentato alle elezioni. Frattanto, il 16 ottobre aveva ricevuto la nomina a senatore, ripercorrendo un percorso garantito dalla prassi politica giolittiana.
L'attività senatoriale del F. fu marginale. Egli risiedette prevalentemente a Roma da dove curò gli affari familiari.
Morì a Roma l'8 luglio 1935.
Sposatosi in tarda età con Maria Verzaglia, figlia del conte Riccardo da Bologna, non ebbe figli e nominò erede della nuda proprietà dei suoi beni la locale Congregazione di Carità, con l'obbligo della costituzione di un'Opera pia volta a istituire legati di maritaggio per giovani orfane siracusane.