Capodieci Carlo - Siracusani

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
siracusani ieri oggi
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Capodieci Carlo

C



Carlo Capodieci nacque a Siracusa il 3 Novembre 1899 atto 707 da Giuseppe e da Aabatini Marta. Deceduto a Siracusa il 26 Febbraio 1973. Fu anche direttore della rivista "Giovinezza" dell'allora PNF a Siracusa ed a lui si deve il ripopolamento a verde dei Villini in Corso Umberto a Siracusa
I cento anni di Carlo Capodieci
Dal Teatro Greco di Siracusa al Campidoglio di Roma
Il Premio intestato a lui durò DIECI ANNI ed ebbe come presidenti di Giuria Pietro Beneventano del Bosco e Ruggero Orlando.
Fu l'assessore regionale Luciano Ordile a interrompere il tra­dizionale svolgimento al Teatro Greco di Siracusa, al fine di evitare il "calpestio" prodotto da oltre Trentamila spettatori sui millenari gradoni. Il Premio emigrò così a Roma, alla Protomoteca del Campidoglio, nel 1980. Era presidente onorario Ruggero Orlando, mentre presidente effettivo era Fernando Romeo, proprietario del "Corriere dello sport", nonché poeta. Era sindaco della capitale Luigi Petroselli e furono premiati, tra gli altri, Milena Milani, Piero Angela, Demetrio Volcic, Biagio Poidimani, Luigi Zampa, Pippo Franco, Renato Carosone, Edoardo Vianello, Felice Gimondi, Rosa Balistreri.
Ma l'elenco è molto più lungo e comprende anche i siracusani Salvo Benanti, "I Caliri", il "Gruppo folk Città di Siracusa". Nei suoi dieci anni di durata, il "Premio Capodieci" fu assegnato anche a Raymond Peynet, celebre disegnatore dei timidi fidanzatini (che creò un particolare manifesto dedicato alla coppia, sullo sfondo del parco archeologico di Siracusa), a Mario Pomilio, al giornalista Umberto Bassi, Vittorio Lucca, Antonio Ghirelli, Aligi Sassu, Massimo Grillandi, Garinei e Giovannini, Gustavo Selva, Mia Martini, Angelo Litrico, Enzo Majorca, Leo Gullotta, Giorgio Orefice, Domenico Purificato, Lino Puglisi, Giusto Monaco, Nino Manfredi,Gianni Granzotto, Francesco Rocca, Nino Lombardo.
Sarebbe molto più lungo ancora l'elenco, ma per motivi di spazio siamo costretti a sospendere gli scavi fra i nostri ricordi.
Corrado Cartia Armando Greco

Carlo Capodieci un sogno di luce

L'opera pittorica di Carlo Capodieci rappresenta, nella sua globalità, uno spaccato puntuale della società siracusana della metà del Novecento, società di cui l'artista si fa cantore sensibile e narratore iro­nico.
Nelle sue tele di paesaggi e di scugnizzi, di fiori e di innamorati, affio­ra quel bisogno di luce e di verità che la nostra città nel secondo dopo­guerra, negli anni degli americanismi più accesi, andava cercando per delineare il proprio futuro, per disegnare una prospettiva di rinascita. Carlo Capodieci stimola e asseconda questo risveglio sociale e lo fa decorando di colori felici le sue tele immediate, i suoi disegni veloci. L'artista dà ad ognuno la possibilità di attingere alla sua sorgente crea­tiva, contribuendo così a coltivare nei figli d'Aretusa la voglia di bello. Muovendosi al di fuori di ogni accademia, solitario e stravagante, polie­drico e instancabile, offriva sogni e speranze, poesie di colore libere da ogni regola imposta dalla storia o suggerita dai movimenti artistici. Ora quel sogno di luce, quel gesto di verità intimamente siracusano, trova l'attenzione dei più per far rivivere a tutti una delle pagine più autentiche della storia del Novecento.
Le opere in catalogo, degli anni 1951-'66, documentano, se mai ce ne fosse la necessità, come un artista libero da preconcetti e da tabù, da condizionamenti e da vincoli, dipingeva la vita oltre la sofferenza, la gioia di essere oltre il dolore della quotidianità.
Paolo Giansiracusa Presidente A.A.P.I.T. Siracusa

Carlo Capodieci - l'artista del novecento aretuseo
Capodieci era un espressionista talentuoso che coglieva nei volti delle persone che ritraeva, comprese quelle di spettacolo e nei paesaggi caratteristici del siracusano, tutti quei particolari che hanno impreziosito tutti i suoi innumerevoli capolavori. Resistono all’usura del tempo, la pennellata e il verso del poeta-pittore più “menefreghista” della storia contemporanea siracusana. Questo artista, messosi in mostra particolarmente intorno al 1960, ha operato principalmente in Ortigia, dove attraverso il suo labirinto di strade tortuose presentava agli abitanti più curiosi la sua pura visione della città di Archimede. Molte opere di questo artista sono oggi ospitate nelle pareti auliche delle famiglie siracusane. Una serie di opere realizzate a Siracusa tra il 1950 e il 1970, il ventennio più creativo di Capodieci, dove grandi tematiche e generi artistici vengono studiati dal pennello del maestro.


La documentazione è tratta dall'archivio di Corrado Cartia che me ne ha consentito l'uso al solo scopo di rendere omaggio a Carlo Capodieci e dalla pubblicazione curata dallo stesso Corrado Cartia I CENTO ANNI DI CARLO CAPODIECI
Coordinamento artistico: Giuseppe Aloisio
Impaginazione: Erica Mediaworld
Stampa: Arti Grafiche Pannuzzo
Edizione: ID Impronta Digitale Siracusa

CARLO CAPODIECI CON GLI AMICI RACITI E LA RIZZA
-foto di proprietà di Giovanni Raciti-





L'UOMO IL POETA IL PITTORE
autoritratto


POESIE



SINCERITA'
Bella signora statemi a sentire:
l'amore non e' mai troppo sincero;
che quando lo diventa per davvero
quello e' il principio del suo scolorire.

L'amore nasce e muore menzognero
- e' il gran bisogno umano del mentire-
e se mi permettete, voglio dire
ch'esso e' piu' brutto quand'e' piu' sincero.

No, non ridete bella forestiera:
quella che canto non e' follia
ma e' la piu' pura poesia

nata dall'ombra d'ogni gioia vera.
Cosi' e' bello l'amore, amica mia:
velato...come il cielo di stasera.

Autoritratto
Gli altri t'han detto: -Evitalo,
è pazzo, uno sbandato:
è pur stato in galera, ed è un pregiudicato.
Altri t'han detto: è un debole,
malato di follia:
nel cuore ha un sogno assurdo
d'assurda poesia.
Ama due cose inutili: la bomba e il pugnale.
Di sovente si sdoppia in uomo e in animale.
Vive di fole barbare, di nuvole, di vento, ed ha cattivo gusto, pessimo sentimento.
Con quel suo riso stupido, d'eterno vagabondo, sembra che sfotta gli uomini, prendendo in giro il mondo.
Ma è la folla che parla; da pecora incosciente:
il galantuomo ladro, l'onesto delinquente.
Il nemico più frivolo e la vita dorata, mentalità buffissima, sconfitta e superata.
Io non amo che un'anima
vagabonda e inquieta,
dal bel timbro di bronzo,
dal respiro di seta.
Io non sono che un lirico della luce
che abbaglia
la bellezza sinfonica
della lama che taglia...
Son la vampa ardentissima d'una Fede
che incide,
l'umilissimo Fante che cadendo sorride.
Sono il buio e la lampada, sono l'acqua e l'acciaio, lo smorzarsi e il rilucere, la corazza e il saio.
Porto un teschio bianchissimo sopra un labaro nero:
l'uno è il Bello in menzogna, l'altro è brutto nel vero.
Sotto al teschio bianchissimo vi son dieci parole:
me ne frego dell'ombra... me ne frego del sole...

Il Folle
Io conobbi al tempo disperato della mia prima Fiamma disperata nel sacrificio della prima ondata,
con il pugno teso e il cuore arroventato.
Eri in quei giorni il "folle avventurato" raccoglitore di zavorra arlata.
La bella ti nutriva la giornata e il popolo rideva con lo Stato.
Ombra e rovina.
Ma audacemente fu la tua sorte.
Fosti il non mai visto. Roma ne ammutolì: Cesare e Cristo
tornavan - nuovi - per la nostra gente.
La Lupa, dopo il fango e la vergogna, t'offriva il sole della sua carogna...


L'audace
Tu non le porgi un cuore, nè la preghi la barbara bellezza della vita.
Tu la depredi alla maniera ardita e della sua vendetta te ne freghi.
Non la disprezzi, nè la tieni cara;
chè il tuo cammino è solco di follia chè il tuo braciere è inferno di malìa e la tua legge è di bellezza rara.
La vivi solamente perchè vivi.
E tela formi a gusto.
La riplasmi.
Per fascino le doni i tuoi fantasmi e per morale i colpi decisivi.
O se la pensi, son dei rari istanti nati da soste brevi di sconforto,
da fole che lasciasti in qualche porto, da stelle che donasti alle tue amanti.
Sicuro di te stesso la trascuri, come se tu ne avessi di più vasta.
Il tuo respiro largo non ti basta, nè l'opera degli altri morituri.
Sai che ti vincerà, ch'è la più forte.
Ma la tua sfida è pari al tuo potere: c'è nella poesia del tuo volere qualcosa che strasupera la morte.
Qualcosa, come incisa ed eternata - nel plastico d'un bronzo che non fonde -
de genti primitive, vagabonde, sospinte da una fede disperata.
C'è nella verità del tuo linguaggio la vampa che distrugge, che rinnova,
la lama più tagliente della prova che tu - tra tanti pazzi - sei il più saggio.


Io non ti chiedo.
Io non ti chiedo quello che t'han chiesto i traditori, i vili, i camuffati.
Io ti domando solamente questo: la stima per i vecchi camerati.
Col cuore aperto come un manifesto, con fede da testardi affascinanti;
soldato fra i più validi soldati, io t'obbedisco, con amore onesto.
Ma non ti chiedo quello che detesto.
Ma non mi piego a certo dispotismo.
Tollero malamente l'arrivismo ed il Gerarca frivomo e indigesto.
Io vivo per un giorno d'eroismo, pericolosamente, il bello è questo!



Specchio
Sul vecchio legno della scrivania la luce ha una raggiera di pallorere,
come lo specchio dell'anima mia quando riflette un pò del suo dolore.

'Innamorati" anno 1960 (acquerello su cartone cm. 80x60)
Sui libri pieni d'ogni stramberia, s'alza - silente - l'ombra delle ore, mentre i roveti della fantasia barbaramente bruciano d'amore.
Ed è la penna un bel pugnale vero - a due tagli, così com'è la vita, com'è la beffa della mia canzone.
Ed io scrivo: follia del mio pensiero, arma sottile della mia ragione, menzogna sacra da cui nasce il vero..

Primavera
Rosa non tócca, cuore del mattino. La primavera odora di malia, vestita di speranza, di follia, con fiori di promessa e di cammino.
Anima che sconosci il tuo destino, vienimi a fianco, sulla stessa via: tu vivi del sorriso più divino, io ingemmo ad arte la tristezza mia.
Più fresca che luce del mattino, più pura della rosa ancor non tócca, io t'offro in dono la bellezza mia

per musicarla un pò sulla tua bocca. Forse mi scalderesti nel cammino, anima accesa, luce del mattino.


Sincerità
Bella signora, statemi a sentire: l'amore non è mai troppo sincero; chè quando lo diviene per davvero, quello è il principio del suo scolorire.
L'amore nasce e muore menzognero - è il gran bisogno umano del mentire - e se mi permettere, voglio dire ch'esso è più brutto quand'è più sincero.
No non ridete bella forestiera: questa che canto non è una follia, è invece la più vera poesia

nata dall'ombra d'ogni gioia vera. Così è bello l'amore, amica mia: velati... come il celo di stasera.



Scherzo
Io dico che il peota è cosa vuota se non 'sa dare un'anima al motore, alla velocità senso e colore ed un pensiero ai giri d'ogni ruota.
E penso che una fetta di carota possiede, come l'uomo, un po' d'amore e che l'essenza stessa del dolore soffre d'un male di tristezza ignota.
L'asino, l'acqua, il vento ed il macigno vivono anch'essi questa nostra vita, la gloria nostra, il nostro logorio.
E portano pur essi un volto arcigno, o un riso di bontà infinita, sotto la volontà d'un solo Dio.
Anima grande, piena di cammino, la strada che ti porta è tutta sole, nemica d'ogni gioco di parole come la volontà del tuo destino.


Avvenire
Il mio avvenire non l'ho mai pensato, ma lo conosco come il mio dolore: sarà un miraggio barbaro d'amore, in un deserto ardente, sconfinato.
Sarà il dono rimasto non donato. La sete d'un dolcissimo dolore. Il dramma vasto che dà vita al cuore. Le pagine ingiallite del passato.
Sotto al martello, all'ultima battuta, il ferro sarà ancora incandescente, che l'ora del congedo, fatalmente,
mi prenderà sull'opera incompiuta. Cuore che sai fiorire in un deserto, il tuo avvenire è quello che hai sofferto.


Così è la sfinge, o l'armonia del bello: averti a fianco e non baciarti mai, aprirti a sera un cuore di monello
e chiederti la vita che non dài... Solo, col mio stranissimo fardello d'inutili menzogne che cantai.
Male
Questo il mio dolce male, il male bello; scrivere sempre, vivere d'amore, sfogliare il sogno, musicare il cuore, con baci d'arpa e canti di martello.
Questo il gran male, o forse il fine bello: crescere d'ansia, ridere al dolore crearsi un mondo - a vampe di cervello - nel calmo stillicidio delle ore.



Stammi ad ascoltare
Hai scritto tanti libri ed hai parlato dell'atomo, del moto, del creare: hai vilipeso Dio nel dimostrare quello che resterà non dimostrato.
Vecchio barbuto, stammi ad ascoltare: tu, forse, non avrai del tutto errato, però, pensando, non hai mai pensato al gran bisogno umano del lottare.
Tu, nel tuo vuoto, non hai contemplato quella ch'é la dinamica del fare... Nei tuoi.volumi tratti pur lo Stato, il Popolo, i Partiti, il governare. Ma il "vero " ché rimane non trattato è la necessità del conquistare...



Artista
Artista, puro nome di follia nato da un vano inferno di bellezza. Artista, paradiso di tristezza, sublime inganno della fantasia.
Vicolo cieco d'ogni cieca ebbrezza. Parola d'inguaribile malia. Luce, tormento, fede, poesia, trasumanato rogo di carezza.
Ma dall'alta menzogna che innamora, l'anima spreme il succo della vita; abbevera la lirica infinita.
Dei sogni suoi. Ascende. S'insapora. Questo è l'artista: un folle che si adora nella follia di vincere la vita.


Lupo
Pallido, coi grandi occhi stralucenti, veniva ogni tramonto a canticchiare: cantava delle fole del suo mare, cantava di suoi più strani incantamenti-
Lupo, cos'è che piangi?... Che ti senti? Forse la Dala non ti sa più amare?... Cos'è quest'accorato musicare... nel riso rosso dei camminamenti?
Lupo cantava: -Fiore d'alba ignara, tu sei profumo d'ogni primavera, tu sei dolcezza d'ogni cosa amara...
Lupo cantava: - Giglio della sera, t'ho ricamato una camicia rara, e ho messo fil di sogno e di chimera...
Lupo cantava... Come d'ombre assorte la voce già si empiva sino al cuore: pareva il male grande dell'Amore, pareva il nascimento della Morte.
-Lupo, sei brutto! Ed hai le labbra storte. Che vuoi col tuo romantico dolore? Càntaci meglio l'inno del Signore o il valzer che fa ridere la Morte.
Lupo arpeggiava: - Gioia d'ogni fiamma, la tua carezza io non la seppi mai, invece tu la baci la tua mamma.
Stelle di cuore, spine di rosai, Dala sei luce di quest'occhi miei, la madre che non ebbi e non trovai.
E trasognava. Ma poiché la sera scendeva con velari di tristezza, Lupo taceva della sua bellezza, Lupo taceva della sua preghiera.
Muto; chè in fondo alla pupilla nera, gli s'accendeva un'improvvisa ebbrezza, forse più calda della sua bellezza, più nuda e viva della sua preghiera.
E, appena notte, dileguava via: ch'era malato di combattimento, ch'era l'ardito della Compagnia.
Poi, dalla Sella al Picco della pia, s'udiva la mitraglia, sopra il vento, cantare a Lupo della sua follia.
Ma in un tramonto venne più sbiancato
gli occhi più chiusi, una tristezza amara. Pianse, su sette corde di chitarra,
la storia del suo amore tormentato.
-Lupo, tu muori... Guarda: sei cangiato... Che non f'accorgi? O forse vuoi la bara? Lascia andare la cosa cara... Spegni il braciere ardente del passato-
Lupo si tacque. Ma, con buio riso, riprese, poi, della sua fede vana, riprese d'un perduto paradiso,
nel sole della terra sua lontana.
Smettila, Lupo, con la tua follia... qui non si canta la malinconia...

E fu la sera calma. Imbrillantata. Ma il sardo non rifece il suo guanciale: disse che il sonno gli faceva male, che nel cervello aveva una vampata.
Ed andò fuori. Giù nella vallata, tra i Monticelli e il passo del Tonale, s'udì più tardi un crepitio infernale. Poi, nuova calma, qualche fucilata.
Ma nelle tenda, a notte - avvoltolata nella coperta - cinica, risolta, la verità del sardo fu trovata.
La lettera diceva: - ... è affaturata; te l'han cambiata tutta in una volta. Lupo, la Dala s'è maritata.
E fu l'ultima notte. Allo schiarire, trovammo Lupo sul reticolato: pareva che si fosse un pò adagiato, come stanco del nuovo suo soffrire.
Guardalo là... che l'hanno addormentato. - disse una voce. In quello strano dire, parve, d'un tratto, miracolizzato
l'oscuro sacrificio del morire.
Lupo non s'alzò più; ch'era finita la sua canzone di cuore e di stelle, la musica divina della vita.
Lupo non venne più con strofe belle. E scrissero gli Arditi alla sua tenda:
La morte t'han portato l'acqua santa;
qui la canzone tua sempre si canta, e Dala t'amerà, nella leggenda...


Rosso e nero
Ce l'hanno scritto sopra alcune mura, che siamo un'accozzaglia di dementi, gente da forca, pazzi, delinquenti, famelici soldati di ventura.
Bravi! gli oscuri eroi della paura. Certo che sono tipi intelligenti. Però saremmo stati più contenti se ci avessero atteso in quelle mura.
Ma gli ordini son ordini: è peccato sporcare il rosso vino con del nero, e un nero, poi, che pute di... soldato.
Meglio evitare d'essere accoppato - sagezza antica d'ogni buon gerriero.
Che se poi il rosso è proprio sfortunato
si può trovar fortuna sotto al nero.


Ricchezza
Perchè non parlo?... È chiaro, troppo chiaro. E poi, ve l'ho già detto tante sere: io non son nato figlio di banchiere, nè afogo in mari fondi di denaro.
La mia ricchezza è un cuore di corsaro, chiusa in un vasto scrigno di chimere. E son prore azzurre, vele nere, sirene ad ogni porto, ad ogni faro.
Questo posseggo, un cuore di corsaro. Se volete, ha fascini ed incanti. Se volete, ha musiche avvampanti

e sa vestirsi d'un sorriso raro. Questo posseggo, un cuore di corsaro, signora che vivete di brillanti...


Tardi
Sera di nebbia. Sera di Milano. L'attesa m'ha bruciato un po' di cuore: forse, nel nascimento dell'amore, t'avrei donato quanto ho di più umano.
Sera di nebbia. T'avrei dato il sole del mio destino, in un braciere ardente: l'anima aperta, disperatamente, e tripudii azzurri di parole...
T'avrei tenuta nel motivo ignaro della mia sete, della mia tristezza. Nell'ansia avvinta della mia carezza avrei ucciso il mio sorriso amaro.

Ma il cuore s'è fermato sulla soglia: non sei venuta: musica finita, romanzo breve, pagina fiorita tra il gioco d'un sorriso ed una voglia.



Senza titolo VI
Ma carezzo la mia vita
e la vivo d'amore:
ogni febbre ha un giardino
ed un lembo di cuore...
Ogni piaga è feconda è ha lo stesso mio viso,
ogni gioia ha il suo riso.
Voci e musiche e pianti e preghiere e bestemmie hanno un simbolo unico ed un'unica gènesi. Sulla porta dei secoli,
all'ingresso di Dio, c'è un cartello che spiega: ogni cosa con Io.
Ogni cosa..., o nemica
che m'ascolti stupita:
sembra strano, e fa ridere,
ma è tutta la vita...
Ma è tutta la sete
della nostra tristezza,
la miseria e la gloria d'un eterna bellezza.
L'ebbro canto dei giovani, il rimpianto dei vecchi:

mazzi accesi di stelle e frantumi di specchi...




opere e poesie


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