barchetta di carta - Siracusani

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
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barchetta di carta

R > Raciti Giovanni
Giovanni Raciti, la barchetta du carta, (in memoria del mio Papà).
 


Il nostro cervello è prodigioso. Ci vorranno forse mille anni prima che l'uomo riesca a costruire una memoria artificiale come la nostra.
Informazioni apparentemente dimenticate, tuttavia ben custodite nei meandri della mente, vengono improvvisamente fuori richiamate da "chiavi di ricerca" semplicissime, appena un accenno, ma sufficienti a sdoganare a loro volta dettagli e particolari infiniti, suoni, colori, odori. Tutta una messe di informazioni richiamate da una traccia impercettibile, quasi insignificante. Info, probabilmente archiviate 50, 80 anni prima e mai avuta occasione di riesumare, hanno dormito tutto questo tempo da qualche parte ma, intatte, inalterate, non corrotte, non invecchiate. Durante la vita alcuni ricordi affiorano periodicamente: gli insegnanti, i giochi, i giocattoli; ma alcune cose sono state archiviate e assolutamente mai riaffiorate. Eppure i meccanismi complessi della nostra mente , operano il miracolo.
Per esempio: di quest'uomo di spalle che tiene la cima della barca, cosa si può dire?
Ha un cappotto nero, un berretto da marinaio dove si intravede una visiera, i capelli bianchi, non è molto alto. Assolutamente nulla di più.
Eppure, appena mi è caduto l'occhio su questa immagine, ho ricordato perfettamente come in un lampo, il tipo, ed ho rivisto il suo volto: era il capo cooperativa dei barcaioli. Scorbutico e poco simpatico, credo zoppo. Aveva sempre da brontolare con tutti i barcaioli.

Chissà poi perchè...l'organizzazione di quel lavoro era di una semplicità assoluta:
non c'erano orari, la barca partiva solo, dopo aver aspettato per un ragionevole tempo che si riempisse, o quasi. Non c'erano regole fisse. Qualcuno gradiva scendere alla scaletta sotto la Posta per risparmiare 100 metri di cammino e così faceva storcere il naso al barcaiolo che doveva fare una fermata in più ma che mai si rifiutava o commentava, né prima nè dopo. Le monetine venivano raccolte facendo passare di mano in mano una ” buatta” vuota. All'arrivo o alla partenza il barcaiolo faceva velocemente la conta e tutto finiva li. I rematori erano calmi, nessuno si stressava, parlavano poco e remavano piano, quasi sempre seduti.
Eppure quell'ometto scorbutico era sempre arrabbiato, quando non a parole, nei tratti aspri del viso.
In estate si mettevano le tendine per il sole. La traversata di ritorno era più fresca perché verso l’una cominciava a sollevarsi una brezzolina da levante e appena scapolata la Posta arrivava il benefico fresco.
“ah chi rricriu…trasuta e sciuta jera…”
Ricordo bene, che a bordo, durante il tragitto, che si parlasse o si stesse in silenzio, regnava una gaia serenità. Sembrava che in quei pochi minuti di traversata tutti i problemi della gente si annullassero per un momento. Le persone erano amabili, modeste, buone.
Tutti erano tranquilli. Questo era in parte il frutto di quel fascino misterioso che ha il galleggiare su di una barca. Comodamente seduti, a pochi centimetri dal mare quieto che profumava di quell'alga lattuga, misto a quell'odore di catrame e di legno di sentìna che l'attività dei calafatari spargeva tutt'intorno. Si fermava il tempo, in quei dieci minuti, si godeva quel momento di pace da buoni e miti borgatari.
Così sembrava ai miei occhi di bambino, attento osservatore; tutti sereni di una rassegnazione accettata. Borgatari DOC.
C'era poi un’ atmosfera, quasi un'aura diversa, tra le due sponde. Tra l'essere alla borgata e l'essere giunti a Ortigia. Da una parte solo l'odore delle alghe che sfioravano la superficie di quel mezzo metro d’acqua, e che io contemplavo nell’attesa della partenza, dall'altra, l'odore del “Caffe della posta” e del carretto delle cozze coi mucchi di limoni, un pò di rumore di traffico, vociare ai chioschi dove si beveva acqua fresca e tamarindo o chinotto . Insomma due atmosfere così diverse tra due sponde così vicine che faceva sembrare si fosse fatto un lungo viaggio verso un lontano paese. I passeggeri scendevano salutandosi come fossero tutti parenti, il pescatore portava le sue “uope ra nassa” da vendere al margine del mercato, “u zu Natale” consegnava i soldini e l'ometto col basco, il capo rais che continuava a mugugnare (spesso proprio con lui), credo anche che non amasse i bambini. Mai un sorriso, mai uno sguardo benevolo.
Durante il tragitto il mio caro papà, mi incuriosiva e mi incantava costruendo su mia richiesta, tutte le volte, piano piano, sotto ai miei occhi attenti, una barchetta di carta con quelle pieghe misurate che io imparavo. A metà del percorso la barchetta era pronta per prendere il mare. Tutti i passeggeri osservavano curiosi e muti questa scenetta.
L’acqua era mite, calma, odorosa di mare chiuso, di calafato. Un odore per me conturbante. Il mare...uno specchio sul quale le gocce che scendevano dal remo sollevato ritmicamente, lasciavano sull’acqua una fila di cerchi concentrici equidistanti che si ingrandivano in progressione mentre la barca silenziosa, quasi senza scia continuava il suo cammino.
Proprio al traverso dei calafatari coincideva il punto del varo. La barchetta era pronta, Io la calavo in acqua tenendola per la punta, la guardavo ancora un attimo... e la lasciavo nella scia. La seguivo con lo sguardo sinchè potevo e intanto eravamo arrivati al molo.
Rumori di tazzine e bicchieri sui tavolini del bar, odore buonissimo di caffè. Camerieri in giacca bianca, roteare di vassoi con granite e classico bicchiere d'acqua. Eravamo “ scesi " “a sarausa". Una delle due traversate della giornata era fatta. Pregustavo il ritorno per "acchianari a buggata". Più mite, più dolce, meno rumorosa...
Piuttosto che inventare qualcosa che imiti il cervello vorrei tanto che inventassero una macchina per tornare, solo per qualche ora, indietro nel tempo. Nell’attesa scrivo per non dimenticare.



"u zu natali" di Armando Carrubba
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