Cappuccio Carmelo - Siracusani

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
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Cappuccio Carmelo

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Tratto da “I SIRACUSANI” ANNO II N.7 MAGGIO GIUGNO 1997

CARMELO CAPPUCCIO IL RAIS DELLA TONNARA DI SANTA PANAGIA
Di Arturo Messina
documentazione pdf
vedi anche:http://www.antoniorandazzo.it/palazzidipregio/tonnara-santa-panagia.html




Infatti, tra i personaggi che la città aretusea d'una volta poteva vantare, prescindendo da quelli politici, coinè Bartolomeo Cannizzo ed Eduardo Di Giovanni — tanto per citare i leaders dei due partiti opposti, il liberale e il comunista — o quelli culturali, come Giuseppe Agnello, chi era più conosciuto di Carmelo Cappuccio? Siracusano verace, era riuscito a diventare l'armatore numero uno, mettendo a frutto l'esperienza e i mezzi non indifferenti che aveva ereditato.
Figura fisicamente imponente (uno di quelli che non avevano bisogno di metter su pancia o di farsi crescere i baffoni all'Umberto, come si usavano allora, per ostentare superiorità: portava semplicemente e vezzosamente la "mosca itleriana") non faceva mai pesare su nessuno, nemmeno sul più umile dei suoi mozzi, il peso della sua straordinaria grandezza morale, più che somatica. Quanto più possedeva autorità e mezzi, tanto più, del resto, si dimostrava comprensivo e generoso con tutti quelli che, per un motivo o per un altro, avevano da fare con lui. La madre era Giuseppina Pupillo, donna di straordinaria dolcezza. Tutti i vecchi ancora ricordano la sua tragedia, che purtroppo la condusse alla tomba nella più amara solitudine, malgrado la fortuna economica del marito, Emanuele Cappuccio: durante la guerra del "15/' 18 un suo figlio morì in combattimento, ma nessuno osò annunziarlo alla madre, che, finché visse, continuò ad attenderlo!
Nel timore che egli, ritornando, potesse non trovarla in casa, non uscì più: quando sentiva passare sotto il balcone della sua abitazione, le carrozze che giungevano dalla stazione conducendo qualcuno proveniente dal Nord - ne aveva imparato ormai fin troppo bene gli orari! - si affacciava verso piazza Pancali in lunga, speranzosa attesa...
La sua bontà, secondo l'opinione comune, la ereditò totalmente Carmelo.
Essa aveva una sorella, Lucia, che andò sposa a Giulio Scariolo, morto nel 1925 e nonno dell'ultimo rais: Tatai Fontana. Nunzio Cappuccio, figlio di un altro fratello di Emanuele, era cresciuto sempre assieme a Carmelo, più come fratello che come cugino.
Tanto che Carmelo lo aveva scelto "sua spalla", nello svolgimento della sua complessa e multiforme attività, forse alla pari con il proprio fratello Sebastiano, se non anche di più...



Senz'altro più del secondo fratello, Turiddu, una persona "sui generis" che poco aveva preso della capacità, della dinamicità, del senso degli affari e soprattutto della serenità di spirito che contraddistingueva la famiglia Cappuccio. Turiddu aveva anzi il vezzo di attaccar bottone e briga un po' con tutti, anche e soprattutto con coloro che avevano a che fare con Carmelo, anche nella tonnara, con vivo disappunto del fratello, che ne rimaneva mortificato.Tuttavia Carmelo, per la sua bontà d'animo e per il grande senso d'altruismo, non ammetteva che qualcuno usasse poco riguardo nei confronti di Turiddu. Suppliva lui a tutte le carenze che il fratello dimostrava; ripagava largamente coloro che per qualsiasi motivo avevano da dire, da pretendere, da essere ripagati nei confronti di Turiddu.
A Carmelo si rivolgevano tutti coloro che avevano a che fare con l'attività dei Cappuccio: era il "factotum" in senso assoluto. Del resto, non era solo la tonnara di Santa Panagia che egli gestiva in nome della società familiare: c'era anche quella di capo Passero, di proprietà dei principi di Belmonte, che "parava" ben due attrezzature, quella di Fontane Bianche, quella di Marzamemi... Fu Carmelo che acquistò, per la famiglia, la tonnara di Santa Panagia, allora di proprietà dei Gargallo e dei Bonanno.
Intorno al 1925/30 acquistò la quota dei marchesi Gargallo, il 50% dei carati. Questa era stata, prima, dei conti Paterno del Toscano, di Catania, dove possedevano ricchissimi palazzi, tra cui quello lussuosissimo di piazza Stesicoro.
Non pago di questo, aveva intenzione di divenire padrone unico di quella che veniva considerata la tonnara più bella della Sicilia sud orientale. Per questo convinse i Bonanno a vendere la loro quota. Il giorno in cui, però, doveva andare a fare l'atto per acquistare l'altro 50% dai Bonanno, lo avvertirono che nella tonnara vi era stato un avvenimento eccezionale: erano stati "mattati" ben 45 tonni giganti, tanto che si dovettero trasportare con lo "scieri". A proposito di pesca grossa alla tonnara, pare che Carmelo possedesse un intuito particolare che gli faceva prevedere il momento più opportuno per la pesca del tonno: i tonni e i palamiti si avvicinavano con maggiore probabilità quando spirava il grecale. Carmelo lo capiva subito quando stava per spirare quel vento: e correva alla tonnara ad aspettare il tonno! Quella volta, senza che nessuno se lo aspettasse — non è vero che fossero venuti ad avvertirlo! - si fece trovare puntuale; ma non dal notaio, bensì dai tonni!
Così il contratto non si fece.



- Ma forse vi era un altro motivo, ben più valido - afferma con franchezza il figlio Emanuele — ed è quello che il Barone non voleva che nella proprietà subentrasse un... plebeo! Ma il plebeo seppe dimostrare che negli affari, nelle tonnare, valeva più di tutti lui: egli era il vero principe delle tonnare! Quel giorno stesso, tuttavia, il contratto si fece ugualmente; ma con un altro acquirente. Lo fece il primo dei Quadarella, di quelli che avevano la tonnara a Terrauzza: 'Nzino.
Egli, assieme ai fratelli Nino e Pippo, l'acquistò per qualche decina di migliaia di lire in più. Non si sa da chi costui si fosse fatto anticipare i soldi: forse dai Gentile, che li guadagnavano in America. Il padre, infatti, aveva mandato oltre Oceano i figli ed egli si occupava di pesce all'ingrosso come i fratelli Scariolo. Che ci fosse stato un intervento dei Gentile in quell'acquisto qualcuno intende spiegarlo con il fatto che dopo qualche tempo i Quadarella vendettero la tonnara di Terrauzza proprio ai Gentile. Ci fu un tentativo di costituire una società tra gli Scariolo e i Gentile; questa, però, non durò che un paio d'anni, perché ognuno voleva amministrare sopra l'altra parte, per cui si separarono fin dalle prime battute. Ma i Quadarella non ne godettero a lungo. Per diversi anni, infatti, la pesca andò male.
Carmelo Cappuccio anche in nome dei suoi — del resto faceva sempre tutto lui! — sosteneva da solo le considerevoli spese della gestione, che andavano sempre più sensibilmente crescendo, senza che ci fosse un benché minimo guadagno. Ad un certo momento Quadarella si dovette decidere: o pagare la sua parte di spese oppure vendere la propria quota, per onorare la sua parte di disavanzo.
E fu così che la tonnara passò ai Cappuccio.
I Quadarella, dunque, furono quelli che accusarono per primi il cambiamento della situazione ittica locale e, intorno al 1935, abbandonarono la tonnara.
La crisi doveva penalizzare e sacrificare tutte le tonnare, per l'avvento dell'industrializzazione e dell'istituzione delle tonnare volanti. Carmelo Cappuccio, invece, dotato di grandi qualità imprenditoriali e di spirito d'iniziativa, ma anche favorito dalla buona sorte, con la sua attività divenne veramente il "principe delle tonnare".
In ciò ebbe la valida collaborazione del grande rais Pippo Fontana, di cui era cugino per parte della madre, e la cui famiglia si tramandava il titolo da padre in figlio. Egli gestiva direttamente la tonnara, ispezionandola spesso in ogni suo pur piccolo aspetto. "Esaminava personalmente le reti - racconta infatti il figlio Emanuele - e controllava il fondo del mare con lo specchio, con cui proprio a Santa Panagia, si poteva avere una visibilità che poteva superare benissimo i dieci metri". Capo Passero, ad esempio, aveva un fondale la cui visibilità era la più perfetta. E forse era quella in cui si prendeva una maggiore quantità di tonni. Lì infatti Carmelo Cappuccio soleva parare due tonnare: una più piccola, da aprile fino ad ottobre, e una più grande, dai primi di giugno fino al 30 luglio. Con quella grande era capace di pescare dieci volte di più di quanto pescasse con la piccola. A Capo Passero, poi, finiva la passa delle varie categorie.
"Le categorie - ci spiega ancora l'ing. Emanuele
sono degli incroci con il tonno, che è quella principale. Ci sono ilpalamito, Valalunga, il cavarito. Il palamito è a strisce; è un pesce furbissimo, che non si fa facilmente catturare. Il cavarito arriva a 15-20 chili e ha la pelle con dei semicerchi sfumati. L'alalunga è più grossa del palamito ed è detta così perché ha le pinne laterali più lunghe rispetto a quelle del tonno. Carmelo Cappuccio esaminava con lo specchio la "camera", che era fatta di tante reti a came¬re, che erano vuote di sotto, mentre quella della morte era a rete piena, come una grande culla, da cui il pesce, una volta entrato, non poteva più uscire.
Eventuali strappi nelle reti dovevano essere rattoppati sul posto: si calavano delle "pezze", cioè dei tratti di rete che facevano gli stessi tonnaroti nel periodo in cui la mattanza non si svolgeva. La "cucitura" non era veramente tale: erano i pesi che si impigliavano nella rete già parata.
Le reti erano collegate tra di loro mediante delle cordonature, chiamate "libàni" (forse dal termine "liane"). Queste cordonature consentivano il recupero e quindi l'eventuale riallaccio delle reti. Tutta la "libanatura" era semicurva; la rete, del resto, sott'acqua si stendeva come una vela, trascinata dalle correnti. I tonnaroti temevano le correnti troppo forti, perché potevano arrivare a sfondarle; il materiale con cui si facevano allora le reti, infatti, non era quello dei nostri giorni, il naylon, ma era molto economico e il suo uso risaliva addirittura al periodo arabo.
Se avessero dovuto usare una rete speciale, ci sarebbe voluto un capitale e il gioco forse non sarebbe valso la candela, trattandosi di migliaia di metri quadrati di rete.
Le parti di rete importanti, fatte con materiale diverso, erano quelle della camera della morte, perché erano fatte da più reti e di maggiorespessore.



Del resto, già gli Arabi avevano notato che l'occhio (lei tonni vede gli oggetti sensibilmente ingranditi, per cui la rete grossa un dito a loro appare come una "grata" sterminata dalle grosse sbarre: — "n filu ci pari 'na travi!" — usano ancora dire a tal proposito i vecchi pescatori ortigiani.
D'inverno i tonnaroti continuavano generalmente a lavorare alla tonnara, per eseguire tutti, quei lavori che erano necessari a terra: conservare, restaurare le attrezzature, preparare le reti, le màzzare...
Le màzzare si facevano con grossi blocchi di pietra, che i "pirriaturi" squadravano a dovere. Arrivavano dalla Sardegna interi vagoni di sughero che veniva lavorato per la realizzazione dei galleggianti per le reti.
Carmelo Cappuccio, con la sua attività, riuscì ad acquistare tre feudi, che intestò: uno a sua moglie, uno alla moglie di Nunzio e uno alla moglie di Jano.
Acquistò inoltre un motoveliero, il "Carmelo Padre" che utilizzò per la spedizione delle olive. Possedeva, infatti, dei magazzini per la lavorazione del "salato" (pesce conservato sotto sale) e delle olive. Rilevanti quantitativi di questi prodotti venivano spediti a Malta.
La stessa attività veniva svolta da altre famiglie, come i Reale, gli Olivieri. La merce non si spediva già venduta: arrivava nei magazzini di Malta e lì i rappresentanti gradualmente la smaltivano, vendendola anche al minuto. Il saldo della merce spedita avveniva dopo uno o due anni. Prima dello scoppio della guerra erano rimaste in deposito parecchie tonnellate di olive invendute. I maltesi furono così onesti da saldare i conti dopo i lunghi anni della guerra. Inviarono così 3 mila sterline.
Le sorelle di Carmelo ebbero una educazione degna delle più nobili famiglie, in uno dei migliori collegi per la "noblesse" a Roma. Una andò sposa ad un ufficiale dell'esercito; un'altra ad un ufficiale dei bersaglieri che poi divenne contabile dell'azienda Cappuccio. La terza sposò un commerciante catanese. La loro dote in contanti, quando presero marito, intorno agli anni '30, fu di ben cento mila lire ciascuna: un grosso capitale! Al figlio Emanuele, Carmelo Cappuccio non fece in tempo ad intestare nulla pur avendo già progettato di comprargli una grossa proprietà, la più grande, ma la morte lo colse. Emanuele pare che non avesse potuto godere nemmeno di una sola delle tantissime sterline d'oro che il padre custodiva in cassaforte. Qualcuno era riuscito ad avere la chiave e a far suo quello che tutti sapevano costituire un vero e proprio patrimonio, un tesoro! Assieme alle sterline furono fatti sparire i registri dei conti, per non fare apparire quanto ognuno aveva ricevuto; ma non convenne fare sparire anche i contratti: tanto erano registrati al pubblico ufficio.
Ma, malgrado questo increscioso episodio, mai si è trovata una famiglia così unita come i Cappuccio: lo dimostra il fatto che essi abitava¬no in tre palazzi uno vicino all'altro, tra piazza Pancali, via Trento e via Lanza; che alla morte di Carmelo Cappuccio, il figlio Emanuele ebbe la stessa parte di eredità spettante agli altri. Infatti i cugini si accordarono che era giusto che ciascuno rinunciasse a una parte dei propri beni. Il nome di Carmelo Cappuccio è legato non solo alla tonnara più storica del nostro territorio, ma anche a quello di uno dei più rinomati alberghi di Ortigia, il Grand Hotel ceduto dagli eredi nel 1991.






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