Bonanno Salvatore - Siracusani

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
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Bonanno Salvatore

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SALVATORE BONANNO è nato a Canicattini Bagni nel 1933 e risiede a Siracusa. È laureato in Pedagogia. Giornalista pubblicista, ha collaborato a diversi quoti¬diani e settimanali. Studioso di storia contemporanea, ha pubblicato numerosi articoli e saggi sull'URSS e sui suoi principali dirigenti, sulle "purghe" staliniane degli anni Trenta, sul dissenso sovietico e sulla guerra fredda
ISBN 88-86209-08-8
Proprietà letteraria riservata
© 1993 FLACCAVENTO s.n.c. Tipografia-Editrice
Riva Porto Lachio, 5/6-9/10 96100 Siracusa Prima edizione: dicembre 1993
In copertina: La tortura nelle carceri borboniche, olio di ignoto - Palermo, Museo del Risorgimento.
Questa edizione è stata curata da Enzo Papa
Processo per sedizione
"Lì cominciammo ad imparare che non è né la bellezza, né la ricchezza naturale di un paese che fanno il benessere dei suoi abitanti".
A. de Tocqueville, Viaggio in Sicilia, 1826-27.
"È la Sicilia dei Borboni, la Sicilia del Reame di Napoli. L'isola è incredibilmente povera e incredibil¬mente arretrata. Non vi sono veicoli a ruote di nessuna specie, né calessi, né carrozze, fuori delle città. Tutto viene caricato sugli asini e sui muli. Gli uomi¬ni viaggiano in arcioni o a piedi, o, se malati, in una lettiga adattata sul dorso di un mulo. La terra è nelle mani dei grandi proprietari terrieri, i contadini sono quasi schiavi. Tutto è insomma altrettanto povero e selvaggio... ".
D.H. Lawrence, dalla prefazione alla traduzione inglese di Mastro don Gesualdo, 1937.
La Sicilia all'inizio dell' Ottocento

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La Sicilia all'inizio dell' Ottocento

Al sorgere del XIX secolo la Sicilia conserva ancora pressocché intatto l'assetto sociale, politico ed economico che nel '700 le era valsa la definizione di "roccaforte della feudalità"1. Estranea ai grandi conflit¬ti internazionali originati dalle lotte dinastiche che nei secoli precedenti avevano interessato buona parte dell'Europa, divenuta semplice oggetto di permuta tra case regnanti2, non toccata direttamente dalle armate napoleoniche che, diffondendo i princìpi della rivolu¬zione francese, hanno sconvolto le basi politico-istitu-zionali dell'Ancien Régime, l'isola è rimasta tagliata fuori dal processo di formazione dei moderni stati euro¬pei e, soprattutto, assente dai centri più attivi della vita economica e culturale del tempo3. Gli influssi illumini¬stici sono stati avvertiti debolmente e soltanto nel-l'ambito di ristretti circoli intellettuali, peraltro legati alle forze più conservatrici e privi di contatti con i ceti popolari4, di modo che non hanno provocato una diffu¬sa e consapevole presa di coscienza in senso antifeuda¬le.
Lo splendore culturale e l'efficientismo ammini- strativo che nei secoli XII e XIII avevano caratterizzato il regno normanno-svevo, sono solo un ricordo. Di quel periodo, cui molti siciliani guardano ancora come ad una sorta di "età dell'oro"5, resta l'insieme di tradizioni e istituti autonomistici, a beneficiare dei quali, però, è soprattutto l'aristocrazia, che può così conservare i suoi privilegi e mantenere il suo ruolo egemone6.
Quando già in Inghilterra, e poi in Francia, Germania, Paesi Bassi e, in parte, nell'Italia settentrio¬nale, comincia ad avviarsi la rivoluzione industriale e la borghesia si pone come protagonista dello sviluppo economico, la società siciliana continua a vegetare in condizioni di vita stagnanti, refrattaria ad ogni cambia¬mento nei rapporti sociali e al rinnovamento civile e politico.
Avvilita da secoli di decadenza e di sudditanza, immobilizzata dal peso della sua arcaica struttura agra- rio-feudale, sottomessa da un lato all'assolutismo buro¬cratico dei Borboni, e dall'altro allo strapotere del clero e della nobiltà baronale, la Sicilia si presenta agli albori dell'800 come un paese povero, arretrato, quasi un resi¬duo medievale, abitato soltanto da "gran signori e mise¬rabili"7, senza una classe borghese intermedia che con il suo peso potesse controbilanciare quello eccessivo dell'aristocrazia8.
Le riforme operate sul finire del Settecento dal Caracciolo prima e dal Caramanico poi9, pur ottenendo risultati importanti (soppressione del Sant'Uffizio, abo¬lizione delle servitù personali, riforma del catasto fon¬diario, soppressione dei diritti privativi e angarici arbi-trariamente posseduti dai feudatari, censuazione dei beni ecclesiastici), non hanno intaccato di molto la for¬za della nobiltà isolana, anche perché non sorrette da una più vasta e convinta azione riformatrice del gover¬no di Napoli.
L'approvazione, nel 1812, di una costituzione libe¬rale, avvenuta per le pressioni della Gran Bretagna (sotto la cui protezione si è posto Ferdinando IV, rifu¬giatosi per la seconda volta a Palermo10 con la sua corte in seguito all'occupazione di Napoli da parte delle trup¬pe francesi), sancisce anche la fine legale del feudalesi¬mo in Sicilia. Ma il sistema feudale di gerarchie, di rap¬porti giuridici ed economici, di costume e di mentalità, che ha permeato per secoli la vita siciliana, sopravvi¬verà di fatto ancora per molti anni, specie nelle campa-gne, perpetuando le condizioni di miseria e di asservi¬mento delle masse popolari11.
Nel 1816, tuttavia, cessato il pericolo napoleonico ed in pieno clima di Restaurazione, anche la nuova costituzione, con le annesse prerogative autonomisti¬che e parlamentari, viene in pratica esautorata per effetto della fusione dei due regni nell'unico Regno del¬le Due Sicilie12, evento questo che, trasferendo il centro del potere a Napoli, scaverà un solco profondo di incomprensione e di risentimento tra la Sicilia e il go¬verno napoletano, tra la nobiltà isolana e la monarchia borbonica, aprendo la strada ad aspirazioni separatiste che si faranno sentire di lì a poco, nella rivoluzione del 1820-21.
Questo risentimento si tramuterà ben presto in vero e proprio odio anche da parte degli strati popolari, rimasti fino ad allora sostanzialmente indifferenti al conflitto costituzionale tra la nobiltà siciliana e la Corona, allorquando tra il 1817 e il 1820, il governo bor¬bonico approverà una serie di decreti riguardanti la riorganizzazione dell'amministrazione civile, la riforma del sistema giudiziario, l'introduzione di nuovi codici (che erano poi quelli napoleonici già adottati a Napoli dal Murat), la coscrizione obbligatoria, l'aumento di alcune tasse e l'istituzione di nuovi dazi sui consumi. In verità, alcune di queste leggi hanno una portata rifor¬matrice radicale perché, mirando ad ammodernare l'apparato statale, a conferire uguaglianza civile e giuri¬dica a tutti i cittadini, ad eliminare le ultime vestigia feu-dali e ad abbattere i residui privilegi della classe barona¬le, riaffermando nel contempo il potere centrale della monarchia, sono destinate ad incidere profondamente nel tessuto sociale e politico dell'Isola, talché — come è stato giustamente rilevato — "giungeva adesso in Sicilia quella Rivoluzione francese che finora ne era rimasta esclusa"14. Questi provvedimenti, però, cadono nel momento in cui più acuti sono gli effetti della crisi eco-nomica in corso, per cui le masse popolari, anche perché fuorviate e sobillate dai baroni, ne fanno risalire le cau¬se all'inasprimento fiscale deciso dal governo napoleta¬no, ciò che contribuisce ad aumentare il malcontento generale.
Particolarmente odiose riescono ai siciliani la coscrizione coatta (che infatti sarà abolita nel 1821), le imposte di registro e di bollo, e soprattutto i dazi sui consumi alimentari, che colpiscono in maniera pesante i ceti più poveri, vale a dire la maggior parte della popo-lazione. Pur di evitare il servizio militare di leva, che "suscitava una ripugnanza vivissima", molti giovani siciliani preferiscono automutilarsi, oppure si danno alla macchia, incrementando così il fenomeno del bri¬gantaggio15.
Fra tutte le tasse, la più aborrita è il famigerato dazio sul macinato, considerato come una vera e pro¬pria vessazione, non solo perchè si tratta di un tributo intrinsecamente iniquo in quanto applicato sul princi¬pale genere di sostentamento della povera gente, ma anche perchè la sua esazione dà luogo ad abusi, reclami e imbrogli di ogni tipo, spesso accompagnati da atti di ribellione e violenza16.
Questo malcontento sfocerà poi nei moti separa¬tisti del 1820-21, durante i quali, in un clima di incertez¬ze, inganni e discordie municipalistiche, la rabbia popo¬lare si rivolge in particolare contro le intendenze e gli uffici del registro, della carta bollata, del catasto, della polizia e degli archivi criminali, con violenze e saccheg¬gi anche a danno di nobili e benestanti17.
Nonostante il loro fallimento, questi moti rivesto¬no tuttavia una certa importanza perchè vi partecipano anche elementi della Carboneria, provenienti per lo più dalla piccola borghesia provinciale (impiegati, ex militari, ecclesiastici), che si muovono sulla spinta di istanze democratiche e progressiste mutuate dal radi¬calismo giacobino e dall'incipiente romanticismo. Di contro, negli stessi moti, ad esempio a Palermo, un ruo¬lo retrivo lo svolgono le "maestranze", cioè le medie¬vali corporazioni artigiane, che, in equivoca alleanza con alcuni settori dell'aristocrazia, puntano invece alla restaurazione dell'ordinamento feudale per riacquista¬re i vecchi privilegi soppressi dalle riforme borboniche degli ultimi anni18. E mentre in alcune zone i contadini, affamati di terra, procedono ad occupazioni ed espro¬pri, i centri più importanti della Sicilia orientale (Mes-sina, Catania, Siracusa) si schierano a favore del gover¬no napoletano e contro Palermo. Come si vede, il clima politico e sociale nella Sicilia degli anni Venti dell'800 è pervaso di aspettative, fermenti, risentimenti e interes¬si diversi e contrapposti, che ostacolano la formazione di un ampio movimento unitario in grado di raccoglie¬re le forze autenticamente progressiste, che pur sono presenti nella società isolana. Tuttavia, anche in un quadro così complesso e contraddittorio, è possibile individuare una tendenza di fondo univoca, e cioè l'ansia di cambiamento, la ricerca del nuovo, la volontà di modificare le vetuste strutture sociali ed economi¬che. Liberali, democratici e moderati sono accomunati, al di là dei contrasti ideologici e pur nei limiti di una prospettiva ancora regionalistica, dal desiderio di rom¬pere col vecchio mondo isolano, di mutare lo stato del¬le cose, di stabilire nuovi equilibri politici, di liberare la Sicilia dal torpore culturale e dall'immobilismo sociale ed economico. Portatori di queste aspirazioni non sono solo i giovani e gli intellettuali più sensibili ai tempi nuovi, ma anche i ceti borghesi emergenti (gabelloti, commercianti, mediatori, ecc.) i quali, consapevoli del¬la forza economica e del peso sociale che sono venuti acquistando, ma anche perchè danneggiati dalla con¬giuntura economica negativa, vogliono contare di più e possibilmente influire sulle scelte politiche della classe dirigente19.
Si tratta di istanze e di aspirazioni che si fanno tanto più pressanti quanto più evidente appare il decli¬no economico della nobiltà, la cui situazione finanzia¬ria e patrimoniale, già precaria a causa delle soggioga- zioni accumulate sui feudi e dei debiti contratti per mantenere un alto tenore di vita, è ora peggiorata an¬che per effetto della riforma delle leggi sulla successio¬ne che, abolendo il maggiorascato e il fidecommesso, ha portato alla suddivisione di grandi proprietà fondia¬rie, parti delle quali diventano così accessibili alla bor¬ghesia terriera e mercantile. A questo processo di fra¬zionamento dei grandi feudi (che già la Costituzione del 1812 aveva trasformati in allodi, cioè in proprietà libere da qualsiasi vincolo, e quindi alienabili) contri¬buisce altresì lo scioglimento dei diritti promiscui che gravavano su molte terre feudali ed il cui esercizio ne aveva fino ad allora impedito la libera commerciabi¬lità20.
È anche evidente, però, che queste istanze non possono trovare possibilità di libera manifestazione in un clima di soffocante censura, di sorveglianza polizie¬sca e di oscurantismo culturale quale è quello espresso dal regime borbonico, che pure, con l'azione riforma¬trice di cui s'è detto prima, ha posto le premesse perchè esse prendessero consistenza e vigore. Da qui il proli¬ferare delle società segrete e il ricorso alle congiure21, fenomeno diffusissimo nell'Europa della Restau¬razione in quanto sbocco obbligato per chi intendeva lottare contro il dispotismo dei governi reazionari, pro¬tesi a ristabilire i principi di autorità, della tradizione e del legittimismo dinastico.
Eppure, se il governo borbonico è riuscito a ridur¬re il predominio dell'aristocrazia siciliana, nulla, o ben poco, ha potuto o voluto fare per risolvere quello che è il problema sociale preminente in Sicilia, cioè di alle¬viare lo stato di miseria e di sottocultura in cui versano i contadini e i braccianti, e con esso quello delle condi¬zioni di arretratezza dell'agricoltura, fonte primaria di tutta l'economia isolana. I metodi di coltivazione anti¬quati, l'uso di strumenti primitivi, l'atavica diffidenza dei contadini verso ogni forma di sperimentazione, la predilezione per le colture estensive (favorita dal la¬tifondo), la mancanza di istruzione tecnica e di incenti¬vi ad apportare migliorie, il disinteresse dei feudatari e dei grossi gabelloti a fare investimenti produttivi nelle campagne, sono tutti ostacoli pressocchè insormonta¬bili per lo sviluppo dell'agricoltura in Sicilia, e rappre¬sentano anzi i fattori che determinano uno stato di depressione permanente, in cui il problema vitale per le masse contadine, e più in generale per gli strati popola¬ri, è rappresentato dal soddisfacimento dei bisogni pri¬mari, quello alimentare anzitutto. Il commercio, stret¬tamente dipendente dalla produzione agricola, è forte¬mente penalizzato dalla difficoltà nelle comunicazioni, dovuta al pessimo sistema viario e ai primitivi mezzi di trasporto.
Nel 1825 lo sviluppo delle strade in Sicilia rag¬giunge appena i 350 chilometri22. Nel 1834 solo un'ot¬tantina dei 359 comuni sono raggiungibili con strade carrozzabili23. Il trasporto delle merci e dei prodotti agricoli avviene per lo più a dorso di muli24. Per anda¬re da Palermo a Messina ci vogliono dai 4 ai 7 giorni, sempre che il tempo sia buono 25. Come ha scritto il Mack Smith, "muoversi da una città all'altra continuò ad essere un fatto più o meno eccezionale"26. Un intralcio non lieve al commercio è costituito anche dal¬la grande varietà di pesi e misure, che cambiano da zo¬na a zona, e talvolta persino tra comuni distanti poche miglia27. La pastorizia e l'allevamento di bestiame sono si praticati, ma risentono delle condizioni generali di arretratezza e di sottosviluppo del mondo rurale. Ovini, bovini ed equini, inoltre, sono spesso falcidiati da malattie contagiose, contro le quali non si conosco¬no rimedi efficaci, tranne quello dell'isolamento.
Il traffico commerciale marittimo e l'attività pe¬schereccia sono scarsamente sviluppati, sia perchè l'im¬portazione (e fino al 1824 anche l'esportazione) di mer¬ci e manufatti è gravata di pesanti dazi doganali (il che, tra l'altro, dà luogo ad un esteso contrabbando), sia perchè i porti siciliani, per la mancata costruzione o la insufficiente manutenzione delle opere di difesa dal mare, sono tutt'altro che sicuri. Non va poi trascurata, in questo settore, la paura della pirateria barbaresca, attiva fino ai primi anni dell'80028.
L'industria è quasi inesistente, fatta eccezione per la fascia orientale, in particolare Messina e Catania e le rispettive province, dove vi sono filande, cotonifici e fabbriche per la lavorazione della seta che danno lavo¬ro ad alcune migliaia di persone ed i cui prodotti ven-gono anche esportati. Manca la manodopera specializ¬zata29 per far funzionare i macchinari, mancano i capi¬tali e le materie prime di base (ferro, carbone, ecc.), ma manca anche lo spirito d'iniziativa e il gusto del rischio imprenditoriale30. Non è un caso, infatti, che le società per azioni sono praticamente sconosciute, come lo so¬no del resto anche le banche e le compagnie d'assicura¬zione31. Oltretutto, il denaro viene dato in prestito solo ad interesse molto alto, e questo non incoraggia certa¬mente la nascita e lo sviluppo di imprese a capitale pri¬vato. E' significativo, d'altra parte, il fatto che tra i pro¬motori di iniziative industriali e commerciali nella Si¬cilia del primo Ottocento troviamo numerosi stranieri, come lo svizzero Albrecht a Palermo (manifattura di cotone), gli inglesi Hallam e Coop a Messina (filanda e tessitura di cotone), i tedeschi Jaeger e Synder pure a Messina (filanda e cotonificio), l'inglese Francis Leckie vicino a Siracusa (agricoltura), il calabrese Florio e gli inglesi Woodhouse e Ingham a Marsala (industria eno¬logica)32.
Tra le poche voci attive delle esportazioni trovia¬mo, accanto all'olio d'oliva, al vino e agli agrumi, quel¬la dello zolfo, di cui la Sicilia, grazie agli enormi giaci¬menti che possiede, detiene per un lungo periodo il monopolio mondiale. Ma anche questo settore, dove ci si limita alla sola estrazione del minerale, conoscerà poi un lento ma inesorabile declino non appena si affaccerà all'orizzonte la concorrenza di altri Paesi e l'introdu¬zione di nuovi metodi di lavorazione.
Ma i mali della Sicilia non sono soltanto di natura economica e produttiva. Abbiamo già accennato alla mancanza di strade rotabili, alla lentezza e alla diffi¬coltà delle comunicazioni, tutte cause che portano al¬l'isolamento economico e culturale dei piccoli centri interni e montani, dove il limitato potere d'acquisto delle popolazioni costringe all'autosufficienza per tutto ciò che serve alla misera vita quotidiana33. Il ricorso al baratto come mezzo di scambio e il pagamento in natu¬ra delle prestazioni di lavoro artigianale e domestico34, sono chiari indici di una economia povera, autarchica, che non va e non può andare oltre i confini del comune o del villaggio. In questo mondo chiuso, patriarcale, dove l'eco degli avvenimenti esterni arriva con mesi o anni di ritardo35, quando non arriva affatto, i rapporti sociali sono improntati ad una rigida distinzione di clas¬se e alla subalternità dei ceti contadini e popolari dai ricchi e dai "signori", ai quali, in segno di sottomissio¬ne, ci si rivolge col "voscenza" e col "baciamolemani".
Lo stato di cronica depressione in cui versa la Sicilia nella prima metà dell'800 e il disinteresse del governo e delle classi dirigenti per i problemi dell'edu¬cazione, si riflettono in maniera speculare nel campo dell'istruzione pubblica. Se ancora nel 1861 il tasso di analfabetismo nella popolazione siciliana è dell'89% (contro una media nazionale del 75%)36, verosimil¬mente uguale, se non peggiore, deve essere stata la situazione nei primi decenni dello stesso secolo. Secon¬do un ammiraglio inglese, nel 1810 in Sicilia vi erano non più di 1500 persone che sapessero leggere e scrive¬re!37 Si può anche ritenere quest'asserzione esagerata, e probabilmente lo è, ma, come spesso succede con i paradossi, essa mette a fuoco sostanzialmente la vastità paurosa di un fenomeno, quale appunto quello dell'a¬nalfabetismo, e più in generale del bassissimo livello dell'istruzione popolare, che non manca di colpire ne¬gativamente i visitatori stranieri e persino i funzionari borbonici napoletani mandati a prestare servizio nel¬l'isola. Ancora nel 1877 il Sonnino poteva constatare come tra i contadini siciliani l'analfabetismo raggiun¬gesse quasi il 100% !38 Un indice significativo, e della scarsità di contatti con altre regioni d'Italia e del ridot¬tissimo numero di persone capaci di leggere e scrivere, è dato dalle cifre sul movimento postale: nel 1864 in Si¬cilia si hanno 1,36 lettere e 0,31 stampe spedite per abi¬tante, contro 6,09 e 5,28 rispettivamente in Piemonte39.
Nel 1815 vi sono in tutta la Sicilia appena 35 scuo¬le pubbliche normali, di cui soltanto 25 regolarmente funzionanti40. In una statistica del 1836 si legge che nell'isola "l'istruzione elementare è intieramente ne¬gletta; finora non richiamò dessa mai l'attenzione della pubblica autorità; pochissimi individui fra il popolo rin- vengosi che sappiano leggere e scrivere, e se delle scuo¬le maschili esistono nelle città principali, i comuni rura¬li ne mancano pressocchè tutti. Per rispetto all'istru¬zione popolare delle femmine vi è dessa ignota, e forse credersi ancora superflua"41. Per quanto riguarda la qualità dell'insegnamento, affidato interamente ad ecclesiastici, esso è di fatto limitato al solo leggere, scrivere e alle più semplici ope¬razioni aritmetiche42.
Inoltre, sia per gli scarsi stipendi che per il disin¬teresse delle amministrazioni comunali (sulle quali per legge grava l'onere dell'istruzione primaria), gli inse¬gnanti raramente dedicano all'istruzione degli scolari l'assiduità e l'impegno necessari. Manca, insomma, a tutti i livelli, la consapevolezza della funzione strumen¬tale che una più diffusa istruzione pubblica può svolge¬re ai fini di una crescita sociale e civile delle masse popolari, nonché delle ripercussioni positive che essa potrebbe avere per risollevare le sorti dell'agricoltura, con benefici effetti su tutta l'economia isolana43.
Altre piaghe della Sicilia sono la corruzione, lar¬gamente diffusa negli uffici pubblici, il sistema medie¬vale di amministrare la giustizia (la tortura era stata abolita solo nel 1810), la venalità di giudici e magistra¬ti, troppo spesso esposti all'intimidazione dei signorot¬ti locali, gli abusi e le prepotenze della polizia, l'elevata criminalità e la diffusa omertà.
La riluttanza di molti siciliani, specie tra i nobili ed i membri della borghesia agiata, ad impegnarsi nel commercio, pare fosse dovuta, oltre che ad una sorta di pregiudizio verso una attività ritenuta poco dignitosa, anche alla necessità di dover corrompere tutti, "dal ministro più importante fin giù ai funzionari doganali e agli uscieri"44 per avere permessi, licenze e altre auto¬rizzazioni. Intorno al 1822 il Palmeri scriveva che "i magistrati, resi indipendenti dal potere esecutivo ed emancipati dalla sferza ministeriale, divennero più despoti, più corrotti, più venali di prima. In guisa che, mentre la nazione aveva acquistati grandi diritti politi¬ci, i diritti civili del cittadino, la sua proprietà, la sua libertà stessa restarono esposti ai raggiri, agli abusi, alla versalità ed all'ingiustizia dé magistrati"45.
Un viaggiatore inglese che visitò la Sicilia tra il 1808 e il 1809, notava che "quando un povero cita in giudizio un altro povero, ci sono buone possibilità di una decisione equa e le spese sono contenute, ma un povero ha ben poche probabilità di successo contro un ricco, e se sono due signori ad entrare in lite, l'avrà vin¬ta il più generoso e potente"46.
Ancora nel 1846, Michele Amari trovava che l'ar¬bitrio della polizia fosse "illimitato, superiore a qualun¬que legge, a qualunque magistrato; il quale scende inte¬ro e indiviso dal re al ministro, da questi infino al gen¬darme e al più vile sbirro; arbitrio faccendiere e procac¬ciante che entra spesso non chiamato nell'amministra¬zione della giustizia penale e civile; che s'ingerisce negli affari domestici; che esercita una censura tormentosa e ignorante nella stampa; che vuol financo dettare il me¬tro ai plausi dé teatri!"47.
Le condizioni in cui sono tenuti i condannati negli stabilimenti penali e gli arrestati in attesa di giudizio nelle prigioni dei capoluoghi costituiscono un affronto alla coscienza morale e civile non solo del nostro tem¬po, ma anche a quella dei contemporanei. Fu appunto dopo aver visitato le carceri napoletane che il Glad- stone bollò il regime borbonico con l'accusa di essere "la negazione di Dio eretta a sistema!"48.
Il Mack Smith riporta il caso di un giudice di Sira¬cusa che nel 1823 tenne alcuni imputati di omicidio nel¬le carceri di Caltanissetta con i ferri ai piedi per quattro mesi di seguito, per poi rimetterli in libertà perchè rico¬nosciuti innocenti49. Chi scrive, nel corso delle ricerche condotte presso l'Archivio di Stato di Siracusa per la stesura del presente lavoro, ha trovato un manifesto a stampa col quale, nel gennaio 1836, la Direzione Generale di Polizia di Palermo, richiamandosi al rescritto reale del 9 dicembre 1835, ordina che sia pro¬rogata a tutto quell'anno la misura punitiva che con¬sentiva di infliggere un certo numero di legnate, "da non eccedere le cento", a quei detenuti che si fossero resi colpevoli di risse, detenzione di armi, insubordina¬zione, ecc., e dispone altresì che tale punizione "dovrà eseguirsi nell'atrio delle prigioni o in altro luogo da dare esempio agli altri detenuti"50.
I quali detenuti, e questo è un altro dato significa¬tivo, sparsi nelle prigioni e negli stabilimenti penali del¬la Sicilia e delle isole adiacenti, ammontavano nel 1827 a ben 24.00051! Sarà stato probabilmente per liberarsi di una parte di questa massa di condannati che il gover¬no borbonico, qualche anno prima, era arrivato ad of¬frire a quello del Portogallo duemila galeotti per la colonizzazione del Brasile!52
Vi è poi il sistema di tassazione, basato principal¬mente sulle imposte indirette. Una voce importante delle entrate dell'erario borbonico è costituita dai pro¬venti dei dazi sui generi di più largo consumo, che col¬piscono in primo luogo quelli alimentari e quindi sono pesantemente avvertiti dai ceti contadini e popolari, anche perchè sono di duplice natura: governativa e comunale. Farina, formaggio, olio, vino, carne e pesce pagano il dazio alle porte di ogni città o comune, e il pagamento, almeno in teoria, deve essere ripetuto tan¬te volte quanti sono i centri attraversati. "La necessità di evadere i dazi alimentari — scrive Mack Smith — fu il più forte e più diffuso movente delle successive ribel- lioni"53
Abbiamo già detto della profonda avversione che suscita la tassa sul macinato. Essa comprendeva due tipi di dazio: quello civico, sul consumo nei comuni, e quello rurale, per le campagne. La gente fa di tutto, ricorre a qualsiasi mezzo per sfuggirlo, compresi la ribellione e la violenza. A renderlo particolarmente odioso sta il fatto che esso viene dato in appalto a pri¬vati "arrendatari" i quali, per ricavarne il maggior utile possibile, praticano, attraverso gli agenti daziari (i cosiddetti "custodi del macino"), metodi di riscossione estremamente esosi nei confronti della massa dei con¬sumatori, costituita per la maggior parte dagli strati più bisognosi della popolazione54. Un esempio delle violente reazioni provocate da tali metodi ci viene fornito da alcuni episodi accaduti a Canicattini Bagni (delle cui vicende insurrezionali nell'estate del '37 si occupa in modo specifico questo lavoro), episodi sui quali ci soffermeremo più avanti. Qualche parola, infine, sulle strutture sanitarie pubbli¬che e sull'assistenza medica in generale. Nel 1837 vi sono in Sicilia 113 ospedali, distribuiti in 99 dei 359 comuni esistenti, con una capacità ricettiva di 1.960 posti letto55. Essendo in quell'anno la popolazione dell'isola di 1.960.951 abitanti, il rapporto è di un posto letto ogni mille abitanti. Questi ospedali, però, sono ubicati in genere in locali sporchi e fatiscenti, che spes¬so divengono focolai di infezioni56. In molti casi, poi, la loro funzione non è tanto quella di curare i malati, quanto di offrire un ricovero a persone sole e prive di mezzi di sussistenza. In provincia di Siracusa, sempre nel '37, gli ospedali sono 14, distribuiti in 13 dei 32 comuni della valle, con una disponibilità di 40 posti let¬to5? per una popolazione di circa 239.000 abitanti (rap¬porto: 1 posto letto ogni 5.975 abitanti!). Il movimento degli ammalati è molto basso, appena 357 persone curate nell'arco di un anno58, fatto questo che confer¬ma anche — come vedremo meglio nel capitolo sul colera — la generale riluttanza a farsi ricoverare in ospedale, considerato come luogo di abbandono e di morte. Ugualmente indicativo il rapporto tra il numero dei medici (158) e popolazione (219.766) in provincia di Siracusa: 1 medico ogni 1.390 abitanti59.
Per finire, riportiamo il "triste quadro" della Valle di Siracusa all'inizio degli anni Venti dell'800, quale emerge da una relazione dell'epoca:
Tutti i comuni sono in stato di fallimento, non esiste nessuna opera pubblica, non patrimoni civici, non pubbliche case, non stra¬de civiche o rurali, non ospedali, non luoghi di pubblica beneficen¬za; gli stati discussi comunali* senza dei quali non vi è pubblica amministrazione giacciono tuttora senza sfogo... I sindaci invischia¬ti nella carica si sono resi arbitrari e trascurati, tutti i conti non liqui¬dati in nessun ramo, l'esigenze** regie in mano a Prosegreti senza responsabilità che fanno dé favori a taluni e delle persecuzioni ad altri, gli agenti finanziari commettono abusi e ladronecci di ogni sorta. Il commercio perduto, l'agricoltura degradata...le popolazio¬ni dei Comuni disgustate e tiranneggiate...tutti si querelano e domandano giustizia, ma li reclami e le querele cadono in mano di coloro che lungi di ripararli, fanno seguirle...di personale vendet¬ta.
) I bilanci comunali. **) Riscossioni, esazioni.

NOTE
1)   R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari 1989, p. 17; S. AglianÒ, Questa Sicilia, Venezia 1982, p. 117.
2)  P. Alatri, L'Europa dopo Luigi XIV, Palermo 1986, p. 199.
3)   Cfr. la nota ma discussa tesi gentiliana della Sicilia "seque¬strata" a causa del suo isolamento geografico e storico, "onde essa rimase tutta chiusa in se medesima, come una nazione particolare, fin quasi alla vigilia del '60" (G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, Firenze 1985, pp. 4-5). V. in proposito L. Sciascia, La cor¬da pazza - Scrittori e cose della Sicilia, Torino 1970, pp. 15-17 e F. Brancato, Storiografia e politica nella Sicilia dell'Ottocento, Palermo 1973, pp. 13-14.
4)  R. Romeo, op. cit., pp. 36-37; R. Moscati, Il Mezzogiorno d'Italia nel Risorgimento, Messina-Firenze 1953, p. 77.
5)  R. Trevelyan, Principi sotto il vulcano, Milano 1977, p. 22; J. e P. Schneider, Classi sociali, economia e politica in Sicilia, Soveria Mannelli 1989, p. 40.
6)  R. Romeo, op. cit., p. 65.
7)   Così il marchese Domenico Caracciolo in una lettera a Ferdinando Galiani (Cfr. B. Croce, Il Marchese Caracciolo, in Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1943, p. 106). Molte le rea¬zioni sdegnate di viaggiatori stranieri che visitarono la Sicilia nei primi anni dell'800. Per tutte valga quella del tedesco J.G. Seume, che nel 1802 scrisse:
"Non ho mai veduto una così grande povertà, e mai potevo immaginare che la miseria fosse tanto spaventevole. L'isola veduta verso l'interno è orribile: solo qua e là si trova qualche pezzo di ter¬ra coltivata, ma il tutto fa l'impressione di un deserto. Io guardavo intorno la terra feconda, bestemmiando, e in quell'istante avrei voluto aver davanti i baroni e gli abbati della Sicilia coi ministri del re alla testa e senza esitazione avrei tirato a mitraglia. È una cosa scellerata". (Cit. in A. Italia, La Sicilia feudale, Genova-Roma- Napoli, 1940, p. 344).
8)  L. Tomeucci, Genesi del conflitto tra la Sicilia e i Borboni (1734-1816), Bologna 1964, p. 51.
9)   Sul riformismo dei viceré Caracciolo e Caramanico v. R. Romeo, op. cit., pp. 54-77; D. Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari 1970, pp. 409-434; M. Ganci, Il menabò di una ricerca, Palermo 1985, pp. 142-146, e, soprattutto, E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano, Firenze 1943, parte II. 10)  La prima volta era stata nel dicembre 1798, quando a Napoli venne proclamata la Repubblica Partenopea, poi abbattuta (giugno 1799) dall'armata sanfedista del cardinale Ruffo.
11)  R. Romeo, op. cit., p. 253.
12)  R. Romeo, cit., p. 152; D. Mack Smith, op. cit., p. 463.
13)  R. Romeo, cit. pp. 161-2.
14)  Ivi, p. 156.
15)   Ivi, pp. 162-3. Cfr. anche R. Moscati, op. cit., p. 85 e D. Mack Smith, op. cit., p. 477.
16)  S.F. Romano, Momenti del Risorgimento in Sicilia, Messina- Firenze 1952, pp. 111-123.
17)  R. Romeo, op. cit., pp. 163-167.
18)  Ivi, pp. 167-8; R. Moscati, op. cit., pp. 83-84.
19)  R. Romeo, op. cit., pp. 254-5.
20)  Ivi, pp. 190-3.
21)  ivi, pp. 173-4.
22)   D. Mack Smith, op. cit., p. 536. Quale fosse lo stato della Sicilia nei primi decenni dell'Ottocento, si ricava da una memoria presentata al Parlamento nel 1814: "Nei mesi d'inverno non potete inoltrare un passo senza pericolo d'essere inghiottiti dal fango e dal¬la marna, mentre camminate avvolti nella più densa nebbia; né mesi d'està non trovate una fonte, un abituro, un albero: monti sopra monti, sdruciti di marna d'argilla: passi di ladri; se arrivate sfiniti in alcune montuose città, non trovate acqua da bere che non sia impregnata d'argilla, e vi mancano i commodi più necessari alla vita: oltre poi nell'inverno son circondate da una vasta incolta cam¬pagna di paludi e di fiumi invalicabili inondata: nell'està la infezio¬ne dell'aere vi è generale, in guisa che nei libri dei parrochi, i morti in ogni anno sono più dei nati, e molti dei vivi sono malsani". (Cit. in A. Italia, op. cit., p. 483).
23)  R. Romeo, cit., p. 205.
24)  D. Mack Smith, cit. p. 536.
25)  Ivi, p. 536. Per via di terra il mezzo più usato dai viaggiatori su distanze considerevoli era la lettiga, una sorta di carrozza che al posto delle ruote aveva due robuste stanghe alle quali venivano attaccati due muli o due asini, uno davanti e l'altro dietro, guidati dal "lettighiere".
26)  Ivi, p. 538.
27)   C. Salvati, Misure e pesi nella documentazione storica dell'Italia del Mezzogiorno, Napoli 1970, p. 16; D. Mack Smith, cit., p. 529.
28)  D. Mack Smith, cit., p. 494 e segg.
29)  ivi, pp. 503 e 510.
30)  R. Romeo, cit., p. 229.
31)  MalK Smith, cit., pp. 494-5.
32)  R. Romeo, cit., pp. 239-247; Mack Smith, cit., pp. 505-8.
33)  R. Romeo, cit., p. 206.
34)  Mack Smith, cit., p. 531; R. Romeo, cit., p. 229.
35)  R. Romeo, cit., pp. 276-7.
36) G. Bonetta, Istruzione e società nella Sicilia dell'Ottocento, Palermo 1981, p. 58; T. De Mauro, Storia linguistica dell'Italia uni¬ta, Bari 1979, Voi. I, p. 95.
37)  Mack Smith, op. cit., p. 553.
38)  S. Sonnino, I contadini in Sicilia, Firenze 1877, p. 196.
39)  R. Romeo, op. cit., p. 254n.
40)  G. Bonetta, op. cit., p. 27.
41)  Ivi, p. 26.
42)  Ivi, pp. 33 e 35.
43)  Ivi, p. 34.
44)  Mack Smith, op. cit., p. 494.
45) N. Palmeri, Saggio storico e politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia, Palermo 1972 (ristampa), p. 139.
46) Cit. in M.C. Martino, Viaggiatori inglesi in Sicilia nella pri¬ma metà dell'Ottocento, Palermo 1977, p. 139.
47)  Nell'introduzione a N. Palmeri, op. cit., p. 65.
48)  Sulle condizioni igienico-sanitarie dei detenuti nelle carceri borboniche siciliane, e in particolare in quello palermitano della Vicaria, v. P. Catalanotto, Il carcere patogeno: malattie e repres¬sione nella Palermo di primo Ottocento, in AA.W. "Malattie tera¬pie e istituzioni sanitarie in Sicilia" (a cura dell'Istituto di Storia moderna della facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Palermo), Palermo 1985, pp. 215-231.
49) Mack Smith, Il Risorgimento italiano - Storia e testi, Bari 1973, Voi. I, p. 138.
50)  ASS-FIB, b. 3661, riportato in appendice, doc. I.
51)  N. Palmeri, op. cit., p. 298.
52)  M. Serra, Il secolo coi baffi, Bologna 1962, p. 28.
53) Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, cit., p. 531.
54) Notizie storiche sulle origini, metodi di riscossione e am¬montare nelle varie epoche dell'imposta conosciuta come "dazio sul macinato" in S.F. Romano, op. cit., pp. 111-132.
55) V. Amico, Dizionario Topografico della Sicilia (Traduz. e note di G. Di Marzo), Palermo 1859, Voi. II, appendice. I dati sugli
ospedali si riferiscono presumibilmente al 1855, ma essendo i noso¬comi siciliani tutti di vecchia fondazione, essi ritraggono una situa¬zione pressoché identica a quella del 1837.
56)  C. Vetro, Il colera del 1854-55 in Sicilia, in "Archivio stori¬co siciliano", s. IV, voi. V, p. 160, Palermo 1979, che riporta anche notizie e statistiche sul colera del 1837 in Sicilia.
57)  V. Amico, op. cit., voi. II, appendice.
58)   Cfr. Quadro dé pubblici spedali esistenti nella provincia di Noto per l'anno 1837, prospetto statistico datato 31 agosto 1838, in
ASS-FIB, b. 2889.
59)   C. Vetro, Società, medici e terapie nel colera del 1837 in Sicilia, in AA.W. "Malattie terapie e istituzioni sanitarie in Sicilia" (a cura dell'Istituto di Storia moderna della facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Palermo) Palermo, 1985, pagine 189- 213. Dati riferiti al 1835 e relativi a 28 comuni (su 32) della provin¬cia di Siracusa.
60)   Rapporto del maggiore Paolo Scandurra in data 20 novem¬bre 1821 (Archivio di Stato di Palermo), cit. in G. Fiume, Le bande armate in Sicilia (1819-1849), Palermo 1984, pp. 66-67.


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