Giaracà Emanuele
G
AL SUO
EMANUELE GIARACÁ
CHE
POETA CITTADINO CREDENTE
IN TEMPI DI CONFUSIONI DISSIDII
SEPPE
NELLO SPLENDORE DEL VERSO
NELL'INTEGRITÁ DELLA VITA
NELLA PUREZZA DE' PRINCIPII
DANTESCAMENTE
DISTINGUERE ED UNIFICARE
LA VERITÁ E LA BELLEZZA
LA LIBERTÁ E LA LEGGE
LA RAGIONE E LA FEDE
SIRACUSA
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N.IL 22 AGOSTO 1825 IN QUESTA CASA
M.IL 5 GENNAIO 1881
di lui scrisse Arturo Messina
La nascita di Emanuele Giaracà e la parentela spirituale col Chindemi
Emanuele Giaracà ebbe con il Chindemi , come abbiamo già detto, una stretta parentela e un’intima corrispondenza di poetici sensi
Infatti Emanuele Giaracà , nato nel 1826, era figlio di una sorella di Salvatore Chindemi, Carmela, andata in sposa in seconde nozze con Salvatore Giaracà, figlio di Angelo Giaracà.
Non solo, ma essendo Emanuele rimasto orfano da ragazzo, Salvatore Chindemi si può dire che gli fece anche da padre, da maestro, da consigliere.
E il Giaracà fu sempre riconoscente all’illustre zio e tra le sue opere , alcune sono di notevole importanza proprio per dimostrare la grande devozione che il nipote aveva per lo zio Salvatore Chindemi.
Appena finita vittoriosamente la II Guerra d’Indipendenza, scoppiata la rivolta a Palermo il 4/41860, sbarcati Garibaldi e i Mille a Marsala l’11/5(1860, lasciato il Piemonte, con numerosi altri compagni esuli, per ritornare in Sicilia , giunto il Chindemi a Palermo, dove il Comitato Siracusano, di cui egli era considerato sempre il capo, decise di inviargli un messaggio di congratulazioni.
Fu proprio il nipote Giaracà, che, oltre a stendere il messaggio ufficiale di congratulazioni, volle comporre per lo zio una lirica di ben 215 endecasillabi, che tra l’altro diceva:
“…A te sacro
sacro è il mio verso. Alla natìa
stanza tu riedi, o venerando capo
del mio Chindemi, o guida a’ miei primi’anni,
caro ornamento della patria, e somma
riverenza e desio di nostra gente…
… Vieni, adunque, tra noi, l’amor, la calda
brama de’ tuoi concittadini consola,
onorato Chindemi. In te s’allegri
questa Ortigia diletta…”
Altra testimonianza di grande devozione per il grande zio Emanuele Giaracà l’abbiamo ovviamente nell’opera storica che egli scrisse sulla vita dello zio: “ Il prof. Chindemi e le memorie storiche di Emilio Bufardeci ” edito con i tipi della Tipografia Pulejo, Siracusa 1869
Giudiizio lusinghiero espresso su Giaracà dal Chindemi
La stima che Emanuele Giaracà nutriva per l’illustre zio, di cui emulava sia lo spirito di libertà e di correttezza, sia il grande amore per la cultura e per la poesia, sia ancora l’attaccamento alla propria terra e alla patria, era contraccambiato da Salvatore Chindemi, che amava il nipote
come un figlio e gioiva vedendo che egli era il perfetto continuatore del suo pensiero, del suo comportamento, della sua vasta cultura e della sua arte.
Tra i tanti documenti che lo attestano, c’è soprattutto una lettera che il Chindemi gli scrisse l’11 ottobre del 1859, in cui, fra l’altro, riferendosi alle poesie dal Giaracà pubblicate all’indirizzo dei giovani delle città siciliane, per esortarli all’amore della patria, espone il suo lusinghiero giudizio sul valore artistico del giovane poeta:“ … Riguardo, poi, ai giudizi letterari, ti lodo ancor di più per la bellezza della forma, stile facile, disinvolto, benchè fatigato, ch’è gran pregio, limpida frase, lingua pura ed elegante, e per quella difficile facilità che è virtù grandissima, e sì rara ai dì nostri.
Insomma sono contento di te, dei tuoi progressi letterari”
Dalla critica letteraria passava quindi alla considerazione sulle condizioni economiche e di lavoro in cui versava il nipote, esortandolo tuttavia a perseverare nell’arte e nell’abnegazione per il bene della gioventù: “ Ma…ma… che puoi fare se t’incoraggio? Devi pensare a vivere, a sostenere una famiglia, e la professione improba, difficile, faticosissima che oppila, emunge, prosciuga i più profondi intelletti non ti rende che scarsi e meschini guadagni, senza le altre difficoltà che in questo stato la vita letteraria. T’applaudo di sterili plausi”
Gà nel 1851 Emanuele Giaracà, appena venticinquenne, si era conquistata una così profonda stima nel mondo culturale della città per il suo acuto ingegno, per la bontà d’animo, per l’amore che dimostrava per le lettere e la poesia, ma anche per l’educazione dei giovani, che in lui non trovavano soltanto un maestro di stile ,e soprattutto di vita, che gli furono affidati dei delicati incarichi, quali quello di redigere una coraggiosa circolare segreta da distribuire come programma politico tra i patrioti .
Come lo zio, cominciò da giovanissimo a dare lezioni private. E la sua non fu solo lezione scolastica, ma palestra di vita, lezione di spirito libero e solidale, tanto che ben presto la sua casa cominciò ad essere frequentata dai giovani più notabili per intelletto e per moralità.
Se è vero quel che disse Biagio Pascal che il metodo, lo stile, è l’uomo, quello di Giaracà era ritenuto il più valido e seguito anche da chi veniva da fuori perché il professore aveva una carica umana che affascinava chiunque; ognuno sentiva di trovarsi a proprio agio con lui, che non faceva alcuna differenza di ceto e tutti trattava con la stessa cordialità, con la stessa disponibilità, per cui l’imparare da lui era un vero piacere.
L’insegnamento non era mai per lui fine a se stesso
L’insegnamento , la cultura, l’arte, per Emanuele Giaracà non erano fini a se stessi.
Dallo zio Salvatore Chindemi aveva perfettamente imparato che non si fa arte per arte, né serve a niente la cultura se non riesce a formare l’uomo.
Tante volte aveva sentito dire dall’illustre parente che a nulla vale saper disquisire con eleganza, sciorinare conoscenze da enciclopedia , esplodere giochi pirotecnici di parole fatte di vento se poi manca l’uomo, se poi non si è persone che abbiano non solo ricchezza di mente ma anche e soprattutto di cuore e di azione.
Era tutta una didattica nuova, che anticipava quella di tanti pedagogisti contemporanei, perché prima d’ogni cosa c’era la persona, alla cui formazione umana, sociale politica, globale egli mirava, facendo leva sull’ascendente di cui godeva su tutti, grandi e piccoli, persone notabili e semplici lavoratori.
Dobbiamo anche dire che oltre ad avere ricevuto tale lezione dallo zio, egli aveva conosciuto un altro insigne docente innovatore: il prof. Giuseppe Xibilia, un uomo che aveva reso ai tantissimi suoi allievi amabile l’applicazione allo studio e all’impegno con il suo modo di fare, di esporre, di vivere.
Egli stesso, dopo che lo Xibilia ebbe a mancare, colpito dal colera nel 1854, volle scriverne una monografia, in cui appunto poneva in rilievo le rare qualità di animo che sublimavano quelle della mente e gli rendevano un prezioso servizio alla delicata missione educativa.
Egli stesso gli riconobbe il merito di avere indicato la nuova via per arrivare al cuore dei giovani e istillare loro i veri ideali, che sono quelli religiosi e quelli della libertà.
Il giudizio che sul Giaracà espresse Raffaele Barbiera
Se Salvatore Chindemi espresse il suo giudizio entusiasta su suo nipote Emanuele Giaracà riguardo l’arte e la poesia, altrettanto entusiasta fu quello di Raffaele Barbiera, che del Giaracà tracciò un breve ma chiaro ed obiettivo ritratto morale mettendo in rilievo le qualità dell’uomo e dell’educatore:
“ Il Giaracà si diede all’insegnamento privato mentre correvano tempi oscuri. Egli non era designato come pericoloso ribelle al pari del Settembrini, ma nutriva sentimenti liberali ed eccitava ad amare il paese natio quando era delitto di morte volergli bene. Per lui, la Patria non era solo la sua Siracusa sparsa di rovine e di memorie antiche, non era la Sicilia, ma tutta l’Italia; e tale sentimento è notevole in un Siciliano e di allora, poiché le barriere erano alte fra regione e regione, e una men larga idea di nazionalità sedeva in non pochi cervelli… Il Giaracà esercitò nella sua città natia un’influenza patriottica e letteraria salutare. Noi non ne teniamo mai conto e forse il Ministro della Pubblica Istruzione non ha pensato nemmeno lui, quanto influenza un professore animoso, dotto, amato, può esercitare sulle generazioni. Ho detto generazioni e mantengo la parola. Vi sono professori che, fermi al loro posto, si son visti passare davanti due, tre generazioni e in ognuna di esse hanno lasciato la lucida loro impronta. Vi sono umili professori di liceo che hanno esercitato più influenza sulla pubblica istruzione e su qualche cosa di più importante e di più alto dell’istruzione pubblica che qualche mezza dozzina di rumorosi ministri. Nature semplici, cuori retti, che odiano i clamori e senza ambizioni si spesero e si spendono tuttavia per i giovani. Napoleone I ha detto che i grandi uomini sono come le meteore del cielo, le quali si consumano per illuminare la terra: si potrebbe dire, certi maestri, come Giaracà, sono lampade che si consumano per accenderne altre.”
Nel 1861 quando l’Accademia di Studi di Siracusa divenne Ginnasio, il Giaracà fu chiamato ad insegnarvi come incaricato; poi divenne reggente e nel 1865 titolare, Vi insegnò storia e italiano fino a quando il Ministero non lo nominò preside dello stesso Ginnasio Liceo nel 1877.
Egli fu eletto anche consigliere comunale e partecipò a tutte le più importanti decisioni prese in quel consesso fino al 1880. Si spense prematuramente, a soli 55 anni, tra il compianto di tutti il 5 gennaio 1881.
A lui fu dedicata anche la biblioteca del Liceo Scientifico “Orso Mario Corbino” e Paolo Rio, il più prestigioso preside che abbia avuto quella scuola, poeta, autore di numerose raccolte di liriche, giornalista forbito, ne volle scrivere anche una biografia.
Di grande attualità la lirica che scrisse nel 1850 su “ Le rovine di Siracusa”, in cui esortava i Siracusani a ricordare e a ritornare agli splendori di un tempo: è quello che potrebbe dirsi perfettamente dei Siracusani di oggi. Così concludeva:
…Oh, si svegli una volta
questo foco di gloria e del campo
schiuda a le redivive arti divine
la vergogna del vile ozio infecondo!
Spregia e calapesta il mondo
che si umilia da sé! Baleni un lampo
di vita eccitator, tra le rovine.
E il suol che un’efferata ira consuma
ver le altezze perdute il vol rassuma!”
GIARACÀ, Emanuele
Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 54 (2000)
di Francesca Maria Lo Faro
GIARACÀ, Emanuele. - Nacque a Siracusa il 22 ag. 1825 da Angelo e da Nunzia Chindemi. Il padre, capitano di marina, morì prematuramente lasciando la famiglia in condizioni finanziarie disastrate. Il giovane G. trovò però un punto di riferimento nello zio materno, Salvatore Chindemi (1808-74), che, oltre a comunicargli l'amore per le glorie e i monumenti antichi (e, probabilmente, a curarne gli studi, di cui non si ha notizia), lo coinvolse nell'attività politica dalla parte di quanti professavano principî liberali.
Nel 1837, durante l'epidemia di colera, a Siracusa scoppiò una rivolta antiborbonica, che fu soffocata nel sangue: punita con il declassamento, la città cessò di essere capoluogo. Questo cambiamento indusse il G. a trasferirsi a Noto, nuova sede del tribunale, per seguire un fratello, Salvatore, che era avvocato. A quest'epoca risalgono alcune composizioni - i sonetti A mia madre e Il giorno dei morti (1845) -, in cui i toni colmi di nostalgia per la casa natale si fondono con la mestizia per l'allontanamento da Siracusa, vissuto dal poeta come un esilio.
Il 1848 rappresentò per il G. un momento eroico. Durante l'insurrezione si esaltò nel vedere rinnovata nei concittadini l'antica fierezza. Partecipò con passione alle vicende politiche e il 6 genn. 1849 fu eletto segretario del Circolo patriottico, sorto a Siracusa per opera dello zio Chindemi. Intanto, su alcuni fogli politici pubblicava articoli e poesie che attestavano le sue posizioni moderate. Fallita la rivoluzione, perdette l'impiego che aveva nell'intendenza di Noto; i fratelli Salvatore e Saverio furono processati, mentre lo zio Chindemi, condannato a morte, si salvò con la fuga.
Per sopperire ai bisogni della famiglia, il G. aprì a Siracusa un istituto privato di educazione, che divenne presto rinomato. Dell'insegnamento si valse per diffondere i principî dell'indipendenza e della libertà nazionale: si formò così una generazione di giovani educati al sentimento della patria; uno dei suoi allievi, G.A. Costanzo, si segnalò come poeta, di gusto classico-romantico saturo di umori risorgimentali.
Nel 1860, conclusasi l'epoca delle cospirazioni, il G. fu nominato professore nel ginnasio siracusano e, convinto che anche nella nuova Italia le lettere potessero essere un mezzo di promozione civile e politica, rese vive con l'insegnamento le figure di Dante, Foscolo e Leopardi. Dopo qualche tempo ottenne la cattedra di letteratura italiana nel liceo Gargallo, di cui divenne preside nel 1877.
Il timore di censure e ritorsioni aveva interrotto l'attività di pubblicista del G., condannandolo a una "quiete sepolcrale" che aveva lasciato spazio soltanto alla scrittura, alla vita interiore e agli affetti di famiglia. Fu perciò solo nel 1861 che, giovandosi del nuovo clima politico, il G. poté dare alle stampe, a Siracusa, il volume Poesie, in cui la tensione patriottica, unita alla forza evocatrice della parola, si stempera nel lirismo. I versi, lodati per la nota civile ed educativa, furono diffusi da G.A. Costanzo, che nutrì sempre stima per il suo antico maestro. Ristampate a Napoli, nel 1862, con prefazione di A. Tari e l'aggiunta di alcuni canti inediti, le poesie ebbero una nuova edizione, accresciuta e intitolata Pochi versi, sempre a Napoli, nel 1874. Nella prefazione V. Imbriani, mentre esprimeva opinioni e sentimenti distanti dal poeta siracusano, riportava pure i giudizi di N. Tommaseo, che aveva definito i versi del G. "commendevoli per facilità non languida e per temperanza di sentimenti civili", e di L. Settembrini, che vi aveva trovato "argomenti nobili, poesia dell'anima, dire schietto, sentimenti generosi".
Nella avvertenza dell'edizione del 1862 il G. rivelava i sentimenti vagheggiati negli anni della reazione e mostrava la sua delusione nei confronti dell'Italia postunitaria. La corruzione del ceto politico, le spinte sovvertitrici del popolo, la diffusione di falsi valori, le intemperanze della gioventù lo inducevano ad augurarsi un'opera di moralizzazione, che riteneva dovesse precedere la stessa introduzione delle nuove istituzioni, e rafforzavano in lui il convincimento che una partecipazione consapevole alla vita pubblica fosse possibile soltanto col rafforzamento della famiglia.
Il moralismo piccolo borghese del G. si esprime anche nella Carmelina, un racconto di seduzioni e sventure appesantito da ridondanti sdolcinature. Nelle poesie patriottiche il G. riprende, con il suo stile classicheggiante (in cui risuona la nota sarcastica ispirata a G. Parini e a G. Giusti), il repertorio canonico di temi e di intonazioni risorgimentali. Affetto e sdegno permeano il componimento in versi sciolti Storia di un cieco, che ritrae la ferocia delle soldatesche borboniche. Il forte grido di indignazione contro il regime si ripete nel canto Le rovine di Siracusa (1850; ebbe anche una versione francese: Torino 1865), in cui si percepiscono risonanze quasi leopardiane, impreziosite da frequenti rinvii alla tradizione aulica. Nelle ottave Siracusa e Roma il motivo ispiratore è la speranza che l'unità della nazione porti alla rigenerazione degli Italiani.
Nel 1878 il poeta pubblicò a Siracusa la traduzione del libro XIV delle Guerre puniche di Silio Italico. La versione non incontrò i favori della critica per la scarsa aderenza al testo originale, dal G. piegato a una scoperta esaltazione dell'antica Siracusa.
Assistito dai figli Francesco, Severino, Luigi ed Enrico (che ereditarono dal padre l'amore per gli studi classici e letterari), il G. spirò nella sua casa di Ortigia il 5 genn. 1881.
Siracusa proclamò il lutto cittadino e il poeta M. Rapisardi, che lo aveva conosciuto, lo definì "artista gentile, candida figura di galantuomo, impareggiabile esempio di educatore e di padre" (p. 129).
Altri scritti sono: Cenno necrologico del dott. Giacomo Monterosso di Siracusa, morto il 27 febbr. 1855, Siracusa 1855; Armonie, a cura di F. Guardione, Roma 1884; Lo sgombro delle truppe borboniche da Siracusa nel 1860, a cura di F. Guardione, in Rassegna storica del Risorgimento, V (1918), pp. 156-170; Nuovi scritti, con l'aggiunta di due canti editi, a cura di F. Guardione, Palermo 1918.
Fonti e Bibl.: Necr. in: Il Bersagliere e Fanfulla, 9 genn. 1881; Riforma, 10 genn. 1881; Lega e L'Opinione, 11 genn. 1881; Ordine, 16 genn. 1881; Illustraz. popolare, 23 giugno 1889, p. 394; E. Di Natale, Alla memoria di E. G.: omaggio dei Siracusani, Siracusa 1881; E. De Benedictis, Siracusa sotto la mala signoria degli ultimi Borboni. Ricordi, Torino 1861, p. 89; S. Privitera, Storia di Siracusa antica e moderna, II, Napoli 1879, pp. 409, 437; A. De Gubernatis, Diz. biogr. degli scrittori contemporanei, Firenze 1879, p. 503; F. Guardione, Scritti, Palermo 1883, pp. 95-163; Id., Poeti siciliani del sec. XIX, Palermo-Torino 1892, pp. LIX s., 100-110; G.A. Costanzo, Il meriggio, Roma 1910, p. 7; E. Arculeo, In memoria di G.A. Costanzo, Palermo 1913, pp. 34-37, 40, 154; F.G. Ippolito, Un poeta educatore. Luigi Giaracà (1872-1913), in Arch. stor. per la Sicilia orientale, X (1913), pp. 414, 421 s.; M. Rapisardi, Epistolario, a cura di A. Tomaselli, Catania 1922, p. 129; G.A. Costanzo, Antologia di poesie e prose scelte, a cura di M.F. Sciacca, I, L'Aquila 1933, pp. XIII, 1; Diz. del Risorgimento nazionale, III, sub voce.