mangiata mezzo tetto
R > Raciti Giovanni
La “mangiata di mezzo tetto”
Quando mio padre decise di ricostruire la vecchia casa del nonno precipitata in mare qualche decennio prima, avevo appena 6 anni. Ricordo con precisione tutti i particolari della costruzione perché egli mi portava sempre con sè e quindi, anche in cantiere, dove vedevo per la prima volta come nasce una casa pietra su pietra, senza sapere che da grande avrei studiato architettura.
Quando si finì di erigere i muri, in pietroni di Lentini e malta, era Maggio. Probabilmente nello stesso posto, su ciò che era rimasto dopo il crollo, prima vi erano dei nidi di rondini, fatto sta che un bel giorno attraverso le finestre rivolte verso il mare, nella nuova costruzione ancora da coprire, entrarono tantissime rondini di primo volo migrate chissà da dove che, un po’ disorientate per la novità, si lasciavano docilmente prendere in mano e accarezzare. Per noi bambini fu una festa indimenticabile. Eravamo felici, ma ancora di più lo era mio padre che prese questo insolito avvenimento come un buon auspicio per la nuova casa.
Casa che sorgeva sulle rovine di quella paterna ed alla quale lui teneva molto. E dopo tanti anni, quando, finita la guerra era riuscito a mettere qualche soldo da parte, il primo pensiero era stato quello.
Per le modanature quali i cornicioni e le pietre d’angolo a vista, veniva usata sempre la ‘pietra di Lentini’. Per lavorare queste pietre i muratori avevano utensili del tutto simili a quelli dei falegnami: pialle sagomate, sgorbie, lime e raspe. I blocchi venivano adagiati su di un bancone ricavato con tavole da ponte e con la grossa pialla alla quale era stato inserito il tagliente opportuno, con lunghi, lenti e cadenzati movimenti di va e vieni, pian piano, si creava la modanatura. Dopo un po’ la polvere di arenaria bianca e finissima ricopriva tutto: pietre, bancone e uomini, ma con un poderoso soffio finale, veniva alla luce il manufatto di una precisione millimetrica.
Nello slargo a fianco alla casa gli operai pre-costruivano i travi per ordire il solaio. A quei tempi, superate le travi in legno, i solai per semplicità venivano spesso realizzati con putrelle di ferro che poi venivano annegate nel cemento. Ma mio padre aveva verificato, osservando le case adiacenti, che questa soluzione, sul mare, col “greco a levante” non era la migliore. Dopo una decina d’anni il ferro arrugginiva e gonfiava scalzando cemento ed intonaci.
Allora le nostre travi, su consiglio del ‘mastro’ e con l’approvazione di mio padre, (non esistevano ancora i travetti prefabbricati-precompressi) venivano preparate allineando in fila indiana sul lungo banco di lavoro le apposite pignatte forate da solaio ed infilando nei fori insieme al cemento i lunghi tondini di ferro di armatura che dovevano fuoriuscire da una parte e dall’altra per agganciarsi al cordolo perimetrale che sarebbe stato gettato poi insieme al solaio quando era finita la posa dei travetti.
Arrivati quasi a metà della copertura, la costruzione finalmente aveva il sapore di ‘casetta’.
Papà tenendomi per mano mi diceva: “Giuvannuzzu vedi…qui verrà la cucina…qui il salotto…”
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…C’era una gioia festosa che correva nell’aria. Notai un complice bisbiglio tra il capomastro e mio padre: “…raggiuneri…je usanza !..” - diceva il mastro.
Infatti il giorno dopo scoprii che era in allestimento una lunga tavolata, sotto al mezzo tetto già realizzato, per una grande mangiata. Mio padre ordinò alcune teglie di pizza, impanate, scacciate e fiaschi di vino.
Gli operai erano contenti come se quella fosse casa loro, mio padre felice più di loro per il suo sogno che si realizzava. Ricordo i fasci intensi di luce solare che arrivavano su questa tavolata festosa attraverso il mezzo tetto ancora da finire e come se la luce non bastasse, sotto la piccola metà già coperta erano state accese, con festoni di fili volanti, tante lampadine elettriche. Che gioia, veder nascere pietra su pietra la propria casa, sul terreno del nonno, sul mare, sugli scogli, dove l’alba sullo Jonio ti strappa letteralmente il cuore…
Ecco perché ho pianto quando, per un errore di gioventù, ho perso la mia casa per sempre, vendendola. La casa di mio nonno Giovanni, la casa di mio padre, quasi cento anni di storia e di storie. Ma quando si diventa saggi, per molte cose è già troppo tardi…
Dal tetto il panorama sulla scogliera era mozzafiato, solo tre metri più in alto della strada, ma sembrava di essere in cielo, l’orizzonte visivo si era spostato oltre. Nelle giornate limpide vedevo i monti della Calabria.
Finito il solaio ed il parapetto di muro tutt’intorno, venne il momento dell’asfaltatura.
Un giorno arrivarono degli altri operai con un enorme pentolone nero che di buon mattino sistemarono nello spiazzo adiacente. Avrà avuto un diametro di un metro e mezzo, nero dentro e fuori, la mia curiosità era …a mille!
Raccolsero tutt’intorno la legna di scarto del cantiere e vi accesero il fuoco dal di sotto. Dentro versavano del materiale nero in pani: asfalto, bitume, pece (per me da ragazzino volevano dire tutte la stessa cosa) e della sabbia. Pian piano mescolando come dei veri maghi (neri e sporchi anche loro) , con enormi cucchiaioni neri, che muovevano lentamente in questa densa mescola, preparavano la miscela nera che ancora calda, veniva tirata su con i secchi e versata sul tetto pianeggiante spalmandola con la cazzuola affinchè avesse uno spessore uniforme. Sotto il sole, il pericolo che si raffreddasse anzitempo non c’era.
Dopo qualche anno capimmo che questo lavoro, apparentemente semplice, richiede maestranze molto specializzate e con buona esperienza. Infatti nei nostri climi la giusta dose di sabbia e dei vari componenti è quella che fa la differenza.
In pratica accadde che, ancora a distanza di anni, nelle estati che seguirono, la superficie, malgrado coperta e protetta da sabbia, era ancora appiccicosa sotto alle scarpe e l’asfalto, scaldandosi, aveva addirittura trovato la via dell’unico canale di scolo per l’acqua piovana e lentamente , vi era colato dentro per un buon metro quasi otturandolo.
Un inverno. in una tremenda notte di tempesta di mare e pioggia torrenziale, col vento che agitava i lampioni proiettando sinistri coni di luce sulla strada, e tetri cigolii,…mentre dormivamo … il nostro bel terrazzo si stava trasformando in una “gebbia” e l’acqua scavalcando la porticina allagava già i vani sottostanti.
Ricordi…ricordi…”gioventù, gioventù…se ne va e non torna più”
NOTA: Una volta Carlo Arribas mi inviò questa foto dello stabilimento Conigliaro in costruzione che aveva appena pubblicato sul n.6 della sua “Mitica Aretusa” dicendomi:
“secondo te che mi rappresenta tutta quella gente elegante sul tetto? Non riesco a immaginare!”.
Io scrissi questo racconto (spiegazione) che a lui piacque molto e credo che da qualche parte (forse sul primo forum) lo pubblicò.
mangiata di mezzo tetto stabilimento Conigliaro in costruzione