Sgandurra Pasquale
Pasquale Sgandurra nacque a Siracusa il 18 aprile 1882 al numero 140 della Mastrarua, oggi Via Vittorio Veneto ed allora Via Gelone 154. Sua madre si chiamava Angela Orefice, suo padre, Salvatore. Era il quarto di cinque figli: Antonino (1873) insigne botanico ed avvocato affermatosi a Genova, Giuseppina (1876) rimasta nubile, Lucia (1879) sposata Vittorini, lo stesso Pasquale (1882) ed infine Maria (1886) sposata Imperlini a Benevento.
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Un vandalo ha distrutto la statua di Pasquale Sgandurra raffigurante l'ALLEGORIA DELLA FOLLIA, situata all'interno del recinto dell'ex Ospedale Neuropsichiatrico. Si tratta di una scultura in marmo bianco statuario in stile metafisico eseguita nel 1933. A seguito della segnalazione di Ettore Di Giovanni e della divulgazione di Antonio Gentile, è in preparazione un esposto alla Procura della Repubblica finalizzato ad individuare e punire l'autore del misfatto e le responsabilità delle istituzioni locali interessate alla custodia dell'area e alla tutela dei beni.
Paolo Giansiracusa.
5 Settembre 2012 una data che sia ricordata dal demente che ha danneggiato l'opera di Pasquale Sgandurra
http://www.galleriaroma.it/Madeddu%20Anselmo/Pasquale_Sgandurra.htm
Lo scultore Sgandurra il 27 giugno 1914
BOZZETTO PASQUALE SCANDURRA
"Luce" e "Tenebre" dentro l'ex Ospedale Psichiatrico
Lo studio di Pasquale Sgandurra in via faentina 177 a Firenze. Lo scultore è il primo a destra.
Il Gruppo della Pietà della chiesa di santa Croce in Firenze
Pasquale Sgandurra nel 1908
Da "LA PESTE DEL SONNO"
di Anselmo Madeddu
EDIZIONI DELL'ARIETE SIRACUSA
Pasquale Sgandurra
(Scultore — Siracusa 1882 - Firenze 1956)
Gli Sgandurra, ...I'esilio e la Mastrarua
La Mastrarua, scrisse Vincenzo Consolo, è "...la più luminosa, la più barocca, la più favolosa delle vie di Siracusa".
Dimessa e aristocratica, semplice ed insieme misteriosa come la gente che un tempo la popolava, la Mastrarua rappresentava l'essenza stessa di Ortigia, una sorta di microscopico universo dentro l'isola. Era animata dal suo variopinto popolo di baroni e pescatori, di professionisti ed artigiani. Era decorata dal suo miscuglio di case modeste e di palazzi aristocratici, di chiese barocche e di cortili spagnoli. Era ravvivata dal suo chiassoso mercato e dal caratteristico slang dei suoi venditori ambulanti. Era profumata dal suo mare schiumoso ed inconfondibile per quell' inebriante odore di alghe e per quella polvere d'acqua marina, che si sprigionava dallo schiantarsi delle onde contro la sottostante scogliera, avvolgendo tutto, gabbiani impauriti e medievali palazzi, in un'atmosfera fiabesca. Era insomma la Mastrarua, la più siracusana delle vie di Siracusa. Anticamente le strade di molte città del Sud erano più note per il nome delle famiglie che vi abitavano che per quello impostovi dalle autorità. Nel secolo scorso se c'era una famiglia che avrebbe potuto dare il suo nome alla, per altro già popolare, Mastrarua, questa era quella degli Sgandurra: non molti per la verità nella Siracusa dell'Ottocento, ma raccolti quasi completamente in quella strada "luminosa".
Negli archivi parrocchiali di San Pietro al Carmine intorno al 1880 risultavano annotati ben tré nuclei familiari in meno di venti metri di Mastrarua, gli Sgandurra Scalfaro, gli Sgandurra Sastri e gli Sgandurra Orefice, mentre altri vi erano annotati nelle immediate vicinanze.
Il capostipite di questa famiglia, Santi Scandurra discendente da un leggendario guerriero dell'epopea del Cid, era originario della Spagna ed era giunto a Siracusa nel 1669 ...per colpa di un "esilio". Suo nonno, infatti aveva capeggiato una rivolta di nobili contro il Re a Madrid.
Messe radici a Siracusa, i suoi eredi finirono per "colonizzare" nei secoli la Mastrarua.
In questa antica e fascinosa strada sorge una piccola casa di candido intonaco sul cui portale una lapide ricorda ai frettolosi passanti che fra quelle mura nacque nel 1908 lo scrittore Elio Vittorini, Sgandurra per parte di madre; ma questa stessa casa, ventisei anni prima, aveva visto i natali dello scultore Pasquale Sgandurra: rispettivamente nipote e zio di una stessa famiglia, la cui storia moderna si è dimostrata non meno "prodigiosa" delle sue stesse leggendarie origini.
È da questa casa che ha inizio adesso il nostro racconto.
La scuola d'arte di Siracusa
elogiata da Camillo Boito
Pasquale Sgandurra nacque a Siracusa il 18 aprile 1882 al numero 140 della Mastrarua, oggi Via Vittorio Veneto ed allora Via Gelone 154. Sua madre si chiamava Angela Orefice, suo padre, Salvatore. Era il quarto di cinque figli: Antonino (1873) insigne botanico ed avvocato affermatosi a Genova, Giuseppina (1876) rimasta nubile, Lucia (1879) sposata Vittorini, lo stesso Pasquale (1882) ed infine Maria (1886) sposata Imperlini a Benevento.
Il capofamiglia, Don Salvatore, era un barbiere assai popolare allora in città, ed all'occorrenza anche un coraggioso cerusico. Alto, biondo e con gli occhi azzurri come un antico normanno, ispirò uno dei personaggi immortali della narrativa vittoriniana: il "Gran Lombardo". Un giorno dell'anno 1906 lo scrittore Edmondo De Amicis, in soggiorno a Siracusa, passando per la Mastrarua entrò nel suo negozio, lo conobbe, ne rimase affascinato e scrisse di "non aver mai incontrato nella sua vita un barbiere così colto". Don Salvatore ebbe un ruolo importante nella formazione dei suoi figli.
Compiuti i primi studi presso il vicino Ginnasio "Gargallo", Pasquale Sgandurra all'età di quindici anni si iscrisse alla Scuola d'Arte di Siracusa, che frequentò dal 1897 al 1900. La Scuola d'Arte aretusea, rara scuola modello nella Sicilia di quel tempo, suscitò le attenzioni persino di Camillo Boito, che le dedicò nel 1902 un lusinghiero articolo sul periodico "Arte decorativa e industriale". "Oggetto d'interesse della rivista — scrive a tal proposito Giovanna Finocchiaro Chimirri — erano state generalmente scuole dell'ordine superiore; l'attenzione focalizzata per la prima volta sulla piccola scuola è motivata dal gusto fresco e dalla qualità dimostrati nei lavori espressi dagli studenti siracusani". Fondata già nel 1883 e diretta dal 1891 da illustri docenti della scuola di Torino, centro propulsivo, allora, del movimento modernista, la Scuola d'Arte di Siracusa in meno di un decennio aveva conquistato posizioni di primo piano nel panorama culturale nazionale, balzando così agli onori della cronaca. Dalle notizie su insegnanti e allievi della Scuola si apprende che lo Sgandurra fu uno degli allievi migliori. Del resto l'ambiente artistico siracusano dell'epoca si mostrava molto prolifico e stimolante. Basti ricordare il pittore Trombadori, oppure, per restare nell'ambito dell'arte plastica, lo scultore siracusano Gregorio Zappala autore della magnifica Fontana delle Sirene di Piazza Navona in Roma, ovvero l'altro grande scultore siracusano Luciano Campisi celebre negli Stati Uniti per i suoi capolavori in memoria di Dante e Verdi eretti a Boston.
Una volta diplomatesi ed ottenuta l'abilitazione all'insegnamento, Pasquale Sgandurra cominciò a lavorare presso la stessa Scuola che lo vide prima studente. Dal 1900 fu professore di plastica presso la Scuola d'Arte di Siracusa e saltuariamente insegnante supplente di disegno presso la Scuola Tecnica "Archimede". Cominciò allora a specializzarsi nell'arte sacra e a ritagliare nella creta immagini di argomento religioso.
"Per rappresentare Dio — scrisse un giorno lo Sgandurra — fonte perenne di bontà, di bellezza, l'artista dovrà necessariamente servirsi del bello formale". In quegli anni Pasquale Sgandurra aveva a disposizione un'aula della Scuola d'Arte che utilizzava come laboratorio e come cenacolo d'arte e di cultura, ritrovo di alcuni giovani artisti siracusani, fra i quali i pittori Adorno e Majorca e l'incisore Alfonso Ricca, figlio del direttore della Scuola d'Arte, un rinomato scultore napoletano trapiantatesi a Siracusa. A questa affiatata comitiva si aggregò nel 1903 un giovane poeta, Sebastiano Vittorini, futuro cognato dello Sgandurra. Fra i due nacque una profonda amicizia e il Vittorini cominciò a frequentare la casa degli Sgandurra alla Mastrarua, dove conobbe Lucia, poi divenuta sua moglie. Pasquale Sgandurra e Sebastiano Vittorini erano accomunati dalle stesse aspirazioni, dagli stessi interessi culturali.
Uomo schivo e di poche parole, di carattere volitivo, anticonformista, dotato di un'eleganza vagamente dannunziana e dongiovannesca, libero nel vestire come nel comportamento secondo certi modelli d'oltralpe, Pasquale Sgandurra, da vero esteta della vita, esercitava un autentico fascino sul giovane amico Sebastiano, il 'quale poi in alcuni suoi scritti avrebbe ricordato quei tempi ed in particolare la loro comune frequentazione della "Leone di Caprera", una società sportiva di Siracusa dove si faceva scherma, lotta greco-romana ed esercizi agli anelli e alle sbarre.
Dagli scritti di Sebastiano Vittorini sappiamo che in quegli anni Pasquale Sgandurra soleva recarsi spesso sulla collinetta di Teracati per ritrarre la campagna siracusana dal vero, "en plein air", come un epigono dell'impressionismo, altre volte invece era solito recarsi con gli amici alla Marina per catturare i colori di quei magici tramonti siracusani che ispirarono poeti e pittori e che fecero esclamare al Carducci la celebre frase "...bello come un tramonto di Siracusa"
"La passeggiata alla Marina — scrive Jole Vittorini — era quanto di meglio offrisse Siracusa all'inizio del secolo. Era il nostro salotto elegante, dove si ascoltava una dolce orchestrina viennese o la banda cittadina; dove i giovani innamorati si scambiavano sguardi intensi di desiderio e fiori di bianco e profumatissimo gelsomino. E mentre i più avventurosi sognavano d'imbarcarsi sugli yachts allineati lungo la marina, i più pigri preferivano il pettegolezzo di provincia, allungati sulle poltroncine dei caffèDall'Accademia di Firenze
ai capolavori canadesi di Montreal
Nel 1904, intanto, la commissione di una tela per il Salone di Palazzo Vermexio (oggi purtroppo andata perduta), diede l'occasione allo Sgandurra di accumulare i primi soldi necessari per trasferirsi a Firenze e poter studiare all'Accademia delle Belle Arti. Vi si recò col pittore Adorno ed altri due amici siracusani e frequentò l'accademia fiorentina dal 1904 al 1908, sostenendo economicamente i suoi studi grazie ai lavori affidatigli in Toscana. Ritornato a Siracusa, nel 1908 riprese ad insegnare presso la Scuola d'Arte e nel 1914, in collaborazione con Duilio Cambellotti realizzò il Bozzetto delle scene per il primo ciclo delle Rappresentazioni Classiche al teatro greco. Ma nello stesso 1914, all'età di trentadue anni, lasciò per sempre Siracusa, trapiantandosi stabilmente a Firenze, dove mise su un fiorentissimo laboratorio d'arte al numero 177 dì Via Faentina, nella periferia nord della città ai piedi della collina di Fiesole.
Dopo la parentesi della prima guerra mondiale, insieme all'attività di scultore Pasquale Sgandurra sviluppò pure quella di docente presso il Liceo Artistico di Firenze e poi presso la prestigiosa Accademia delle Belle Arti. Divenne anche componente della commissione edilizia della città, assumendo un ruolo di primo piano nella vita culturale ed artistica di Firenze.
La notorietà delle sue opere cominciò a valicare i confini nazionali. Ben presto ricevette molte commissioni da diverse città d'Europa e d'oltre Oceano, ed in particolare dal Canada dove il suo nome divenne assai popolare.
Saltuariamente, tuttavia, lo Sgandurra fece brevi ritorni a Siracusa. Nel 1925 la morte del padre Salvatore fu l'occasione di un lungo soggiorno siciliano. L'espressione sofferta del viso del vecchio padre lo turbò non poco e gli ispirò il volto del bellissimo Crocifisso che realizzò da lì a poco per la Cattedrale di Montreal, considerato da molti come uno dei suoi maggiori capolavori. Una copia di minori dimensioni di questo Crocifisso esiste oggi nella Chiesa del Pantheon di Siracusa. Durante questo suo primo soggiorno aretuseo realizzò diverse opere per soddisfare la committenza locale. Notevoli i busti dei genitori e del cognato Sebastiano Vittorini, nonché quello del popolare personaggio di "Sarò m'abbrucia", oggi custoditi presso collezioni private di Siracusa. Un suo monumento a Garibaldi presso la piazza centrale di Avola fu poi distrutto dalle autorità fasciste.
Ritornato a Firenze, realizzò nel frattempo le statue dei "Quattro Evangelisti" sempre per la Cattedrale di Montreal. Erano gli anni in cui Io Sgandurra scolpì il celebre gruppo della "Pietà" per la "foscoliana" Chiesa di Santa Croce in Firenze, una cui copia fu richiesta anche per la Cattedrale di Cassino. Pregevoli pure l' "Estasi di Santa Teresa", la "Vergine col Bambino", il "Sacro Cuore" e, soprattutto, il maestoso "Cristo Re" per la Chiesa omonima di Torino, che fu esposto alla Fiera internazionale di Barcellona in Spagna nel 1929.
L'anno successivo Pasquale Sgandurra, ormai affermato, ospitò a Firenze suo nipote Elio, allora ventiduenne e desideroso di inserirsi nella vita culturale fiorentina, fulcro in quel tempo di tutta la vita artistica e letteraria del paese. Il giovane Vittorini fu introdotto dallo zio negli ambienti culturali di "Solaria", divenne grande amico di Montale e si portò dietro il cognato Salvatore Quasimodo. Ecco come la moglie di Vittorini, Rosa Quasimodo, ricorda l'arrivo a Firenze col marito e col figlio Giusto ed il loro soggiorno nello studio di Via Faentina:
..A Firenze ci restammo. Era il 1930. Dormimmo per un po' nello studio dello zio di Elìo, Pasquale Sgandurra, scultore. Era pieno di statue. Dalle vetrate, la notte, entrava il chiarore della luna, e le statue così bianche ci facevano paura. Di giorno il piccolo Giusto offriva caramelle per ingraziarsi le statue, e le lasciava sui loro basamenti".
Nel febbraio del 1934 Pasquale Sgandurra tornò nuovamente a Siracusa per realizzare l'opera "Luce e Tenebre", due statue di donna raffiguranti l'una la luce della ragione e l'altra la pazzia. Le sculture gli erano state richieste dall'amministrazione provinciale per adornare l'ingresso dell'Ospedale Psichiatrico di Siracusa. Di quell'epoca è la scultura dell'Atleta", una delle poche opere non riguardanti soggetti sacri.
Nel 1936 una nuova commissione gli diede l'occasione di tornare ancora una volta a Siracusa, per realizzare il monumento del Vescovo Carabelli oggi collocato nella Cappella del Crocifisso della Cattedrale aretusea e definito dai critici come il suo autentico capolavoro. La circostanza fu buona per fermarsi a lungo in Sicilia, vista la vastissima richiesta della committenza locale. Frutto di quest'ultimo lungo soggiorno furono molte opere per le cappelle di diverse famiglie siracusane presso il cimitero monumentale della città, tra le quali di particolare rilievo quelle delle famiglie Gargallo, Agnello, Agati, Giaracà e Vittorini.
Da quell'anno lo Sgandurra non sarebbe più tornato in Sicilia. Il 27 maggio del 1950, ormai sessantottenne, sposò la sua compagna di sempre Teda Ventura, una bella signora fiorentina, conosciuta già negli anni Trenta. Pasquale Sgandurra morì a Firenze il 26 febbraio del 1956.
Fino all'inizio degli anni Settanta, presso l'Istituto d'Arte di Siracusa era allestita una mostra permanente delle sue opere e davanti all'Ospedale Psichiatrico si potevano ammirare ancora le due statue della "Luce" e delle "Tenebre". Ma oggi, purtroppo, l'artista siracusano non ha evitato l'ingiusto destino di oblio che la città ha riservato a tanti suoi figli meritevoli di maggiori attenzioni. E così, il "Crocifisso" del Pantheon ed il "Carabelli" della Cattedrale sono rimasti gli unici muti ma tenaci testimoni del "passaggio" di questo valoroso scultore dalla sua amata ma "smemorata" città.
Il giudizio del nipote Elio Vittorini nel 1929:
".. le perdite dell' ingratitudine"
Il migliore studio sull'opera dello Sgandurra è senz'altro il saggio del Professor Giuseppe Agnello, "La scultura religiosa di Pasquale Sgandurra", pubblicato nel 1934 sull' "IIIustrazione Vaticana", e al quale si rimanda per ulteriori approfondimenti.
È assai interessante, tuttavia, rileggere un illuminato e profetico articolo dell'allora giovanissimo Elio Vittorini, che nel 1929 da Siracusa scrisse una breve recensione su "L'Italia Letteraria". Il notevole interesse suscitato dal brano vittoriniano deriva dal fatto che già allora l'autore rimproverava ai propri concittadini l'indifferenza e la grave mancanza di riconoscenza verso un artista che aveva da poco donato alla sua città il "Crocifisso" copia del bronzo di Montreal, ed al contempo la consapevolezza di dover subire lo stesso destino d'oblio nel momento in cui egli stesso si sarebbe dovuto allontanare dalla sua Siracusa per affermarsi come scrittore al Nord.
"Penso — scriveva Vittorini — che un cauto omaggio, da qui, allo Sgandurra è dovuto. Nella sua partenza di avanti guerra da questa testa di ponte a una piazza fiorentina, partenza allora favolosa e ricca di promesse, c'è l'esordio, il principio di tutte le partenze che faremo noi stessi, poco a poco, verso l'alta Italia. E la pronta dimenticanza in cui è stato soppresso il suo nome quaggiù, dopo le prime glorie cittadine, ci può anche dare il carattere della fatalità di questa provincia dove anche noi scompariremo, nel ricordo dei nostri amici, dei nostri circoli, delle nostre affettuose brigate...".
In queste straordinarie parole c'è tutta la voglia di affermazione di un giovane e promettente scrittore siciliano ancora ventunenne e nello stesso tempo la coscienza quasi profetica di essere destinato a grandi cose e nel contempo alla dimenticanza tra i suoi stessi concittadini. Elio Vittorini, quindi, si sofferma sulla rapida carriera dello zio: "... i primi sforzi, l'arrivo a Firenze, l'Accademia, la guerra, il primo premio, fino ad arrivare sul piano di uno stadio più visibile ..".
E finalmente si occupa delle opere più recenti dello scultore: "... Ma la sincerità narrativa dello Sgandurra data invero da recente. E ben si può prendere a foco il panorama delle sue opere puntando lo sguardo su quel crocefisso ch'egli ha donato or è poco alla città natale, e dal quale si può giurare si sia prodotto l'inatteso sviluppo dei quattro evangelisti, della Santa Teresa, della Pietà, della Vergine, e finalmente, adesso, del Cristo Re.
Con quest'ultimo passiamo d'un tratto, è bene dirlo, a un'intesa artistica più reale. Si sente che lo Sgandurra va liberandosi della mortificante cultura di avanti e dopo guerra. Nei suoi princìpi oggi si legge con libertà. Egli che è stato pur sempre calmo anche nel gravare la mano sull'abbigliamento un po' secentesco, un po' di maniera, dei suoi santi, diventa adesso quasi sorridente, padrone assoluto di una affettuosa materia. La sua arte si fa nobile, trattata famigliarmente si fa umana, e, premio ambito, atteso lunghi anni, il suo Cristo si muove per primo, ad accettare la devozione dell'artefice".
Quindi il giovane Vittorini accenna ad un suo recente soggiorno fiorentino presso il laboratorio dello zio per ammirare la maestosa statua del Cristo Re:
"Ora che siamo passati da Firenze avremmo voluto vederlo. Invece la nostra visita allo studio, quello studio fresco e profondo dove la grande chiarezza del lucernario fa vivere le statue come in un acquario, si è dovuta limitare a una esperta ricognizione fotografica tra le cento prese di scorcio, di fronte, di tergo e di particolari che lo Sgandurra aveva accuratamente rilevate prima di mandare la statua all'attuale Fiera di Barcellona. E al ritorno di laggiù nemmeno sarà così facile ritrovarla come speravamo nel rimandare il nostro desiderio a una prossima visita più fortunata. Di laggiù il lavoro dello Sgandurra è atteso a Torino, nella nuova chiesa dedicata a Cristo Rè...".
E infine conclude amaramente:
"...e semmai quel buon siracusano che rimpianga l'irreparabile vuoto di qualche piedistallo cittadino potrà, con un devoto pellegrinaggio, riparare alle perdite dell'ingratitudine".
L'anno successivo Elio Vittorini ventiduenne avrebbe lasciato per sempre Siracusa e avrebbe cominciato da Firenze la sua straordinaria carriera letteraria, così come "profeticamente" aveva annunciato in questo eccezionale articolo.