Morando Paolo
M
Morando Paolo, siracusano doc, vive in Ortigia.
Il Giardino dei Miti di Paolo Morando
Le calde antiche forme entro le quali si svolse la creazione e il volere del dio fu manifesto, facendosi annuncio spiegazione e storia, hanno trovato in Paolo Morando il loro appassionato pittore; occhio, mano e mente esplorano i miti di fondazione e di epifanie sacre, come usavano fare i pittori che definiamo “classici”, cioè legati a un modo di vedere il mondo secondo i canoni dell’ordine, dell’equilibrio e del bel- lo. Morando abita una terra di miti, Ortigia, ovvero Siracusa, madre e culla di cosmogonie grandi e piccole, legate alla creazione di terre e di città nonché alla creazione di passioni d’amore e di lotta. Qui, nei resti di antichi teatri e di colonne alzate a tenere ormai architravi di cielo, si distende il mondo e la storia ha come un sussulto, un nodo che unisce passato e presente. Qui Morando trova il convincimento che la tradizione è come un fiume che scorre e noi lo navighiamo in piccola barca, capitani o naufraghi, secondo che vogliamo capirne e assecondarne le correnti o respingere persino lo spirito delle acque. Per questo la grande mostra che il pittore artigiano ha allestito nelle sale della cripta del Collegio, insieme a un suo epigono, Fabio Amato (più che una speranza della pittura siracusana, del quale avremo modo sicuramente di parlarne in seguito), ha suscitato tanta impressione a Siracusa. Mi sono chiesto perché questa pittura, d’impronta classica, di architettura rinascimentale, di formalizzazione manieristica, di contenuto fortemente simbolico, trova spazio e motivo d’esistere oggi, nel vortice di sperimentalismi artistici che hanno portato persino a dichiarare morta ogni possibile manifestazione dell’arte.
Conversazione sull’orlo dell’abisso, olio su tela.
Cosa spinge quest’uomo colto e raffinato a ritornare indietro per riprendere e riproporre modi figurativi della pittura toscana del cinquecento e del seicento? Non lasciamoci fuorviare da ciò che vediamo: non di certo dal notevole gusto estetico che si evidenzia nella flessuosità dei corpi e nel sinuoso drappeggio che li avvolge insieme a piante e cibo e animali e cose; neppure dalle citazioni di grandi pittori del passato che qua e là fanno capolino nelle estese e complesse tele morandiane; non dal cromatismo luminoso, gravido dì velature che si sovrappongono quasi per dare materia e corpo alla pittura e per renderla vellutata; non per i titani e tutte le divinità che circolano seminudi in boschi sacri e paesaggi fantastici. Il motivo dell’arte di Morando per me è altrove; esattamente io lo intravedo in due fenomeni prettamente mistici: Ortigia e la concezione dell’arte. Se la corporeità di questa terra la si deduce dalla sensualità dei corpi e dal realismo delle nature morte e dei paesaggi, il misticismo di questa terra sta altrove: è in quello spirito che ancora passeggia nei vicoli e si veste d’incenso nelle chiese; è in quell’anima che giunge dalle profonde viscere della storia e abita le antiche rovine; è nella luce dorata che riscalda le case e accende il mare. Ortigia è un modo di essere nel mondo, di studiarlo e capirlo da un’angolazione piccola ma privilegiata, nella quale sono confluiti i gorghi di diverse civiltà. Per questo Morando torna sui suoi passi e caparbiamente annuncia l’antica e saggia verità di questa terra: quel sentimento del sacro che qui ha trovato il suo maggiore compimento. Così anche l’arte ha per Morando una valenza mistica, intesa come educazione al bello e alla grandezza della storia. La Tradizione è Maestra di vita e l’arte, con la sua forte valenza simbolica, ne è privilegiata testimone. Certo il forte intelietualismo che ispira i temi morandiani spesso condiziona la libertà artistica ma questo è il vecchio discorso dell’equilibrio formale che bisognerebbe sviluppare per ogni artista e che ci porterebbe troppo lontano. Noi preferiamo respirare quest’aria ortigiana che, come dice Morando con le sue opere, non può dissacrare le forme e frantumare le estetiche a cui siamo stati educati.
Miticonoteca
IL CIMENTO CON IL MITO
DI Cettina Voza
Ricorrendo alla Prammatica della regina Maria della fine del XIV secolo, che prevedeva l'esproprio per pubblica utilità, il Senato cittadino volle rappresentare e rendere visibile il decoro e la dignità che gli erano propri, ritenendo disdicevole al suo ruolo il medievale palazzo di via del Consiglio Reginale, poco rappresentativo e defilato rispetto al sito dove in assoluto, idealmente e materialmente, il potere religioso e nobiliare aveva sede e, cioè "il piano della Cattedrale", l'odierna piazza del Duomo. Agli inizi del Seicento, quindi, il Senato cittadino esplicita questa sua esigenza di adesione ai contenuti che sentiva di rappresentare, dando il via ad un'opera di riqualificazione urbanistica, espropriando e abbattendo alcune "domunculae e case terranee" per erigere la Domus Universitatis {civium), la casa di tutti i cittadini. La costruzione dell'edificio, affidata al miglior professionista in assoluto esistente sulla piazza, Giovanni Vermexio, sarà, in quest'opera, espressione altissima della sua geniale creatività, dimostrando, altresì, di prestare attenzione alle corde dell'anima della città che nella grecita massimamente si riconosceva e che con la più alta espressione di essa - il nobilissimo, dorico tempio di Atena - era abituata a vivere e a sentire. L'edificio, perciò, pur presentandosi adeguatamente "moderno" quale il gusto non passatista del tempo richiedeva, palesa nella sua compatta struttura, l'armonia e l'equilibrio che solo l'antica sapienza aveva compiutamente praticato, dimostrando non tanto di percorrere quella via che Umanesimo e Rinascimento avevano aperto, quanto la raffinata comprensione intellettuale del modello greco, la quale permette all'edificio di consonare con il vicino, celebre tempio, senza aver rinunciato a connotazioni di gusto avanzato in sintonia con il presente. Fu questo che il Senato cittadino, cioè la classe dirigente, e l'architetto Giovani Vermexio offrirono alla cittadinanza interessata a percorrere la via della modernità che il Seicento annunciava e imponeva. L'antico era il passato, quello che si voleva superare, ma l'antichità e, cioè, la Siracusa greca, era quanto ci si accingeva a riscoprire e a coltivare.
Ora il Senato cittadino e, cioè, un Sindaco e una Giunta si sono riproposti di portare a compimento l'apparato decorativo del Salone di rappresentanza del Palazzo non solo per un'esigenza filologica in rapporto alle previsioni decorative organiche alla struttura architettonica, ma per aderire al sentire della pubblica opinione che sempre più avverte il rapporto con le antiche, profonde radici della comunità, le quali portano inevitabilmente al mito come matrice dell'identità siracusana.
Anche questa volta la pubblica committenza ha voluto affidare a un artista, il pittore Paolo Morando, il prestigioso incarico di creare le decorazioni pittoriche di cui il Palazzo era ancora privo e in sintonia con il progetto delle decorazioni concepito, negli anni '50, dall'Architetto Gaetano Rapisardi, in parte realizzato negli stucchi di fregio dal Prof. Venturini. Furono allora pure commissionati al Regio Opificio di San Leucio i damaschi di seta verde che ricoprono le pareti, decorati con eleganti simboli di Siracusa quali il papiro, la cornucopia e lo stemma cittadino. A completamento dell'arredo si ordinarono alle fabbriche di Murano gli splendidi, sontuosi lampadari, prodotti unici, eseguiti su disegni dello stesso Rapisardi.
Paolo Morando dal 2001 si è dedicato alla realizzazione del ciclo pittorico che ancora una volta riproporrà alla comunità le rappresentazioni figurate dei miti, memoria della felicità antica, base e fondamento della storia di Siracusa.
Il Pittore affonda nel mito, nei suoi oscuri e ingannevoli presagi "discendendo nelle viscere buie dell'ancestralità, nel terriccio arcaico che ci sta alle spalle" rendendo percepibile il coagulo dei sentimenti degli uomini, in quella frontiera fremente in cui è cresciuta e si è formata la nostra civiltà. Così la decorazione non è più favola, ma primigenio veicolo figurato, oratorio di allegorie.
I simboli primordiali di acqua, aria, terra e fuoco parlano dei giorni e degli eventi (èrga kaii eméra) del principio, quando il vitalismo cosmico era percorso da metamorfosi.
II Pittore sente la vicinanza profonda ai luoghi sacri del mito, guidato "dall'antico anelito della classicità": i valori formali sono impregnati dalla tradizione, ambientati in un paesaggio naturalistico dove ogni forma della natura è evocativa di concetti astratti che sono tuttavia "il paradigma sapienziale dei riferimenti dell'uomo". Le figurazioni pur obbedendo a "regole" compositive partecipano di movimenti tali per cui i solidi corpi - l'ex-territa Proserpina, le silvestri compagne di Artemide, il fluviale Anapis come l'amorosa Ciane e le superbe fanciulle Callipigie - sembrano sgusciare silenti, quasi sorpresi di assistere, allusivi, ai prodigi di cui essi stessi sono attori.
Fiorenti corpi femminili, poderosi corpi maschili, danno monumentalità alle rappresentazioni mitiche, ma la resa naturalistica è connotata da una vena di fine espressionismo.
Il mitico pantheon raffigurato non è più favola, né rappresentazione talché è possibile dire, con Tornasi di Lampedusa, che "Nell'affresco del soffitto si risvegliano le divinità".
IL MITO DELLE FANCIULLE CALLIPIGIE
(collocato nella parete a sud)
Riflessione:
Siracusa antica vantava tra i più abili e creativi artigiani -artisti del mondo classico e, in particolare, noti ed apprezzati erano i suoi magnifici vasi che, per la loro armonia, evocavano l'incanto delle belle forme femminili delle Siracusane, anch'esse ambite ed ammirate in ogni dove.
Nonostante il riferimento al tempio di Afrodite in rapporto al mito delle Callipigie finora non è stato rinvenuto alcun edificio sacro alla dea della quale, peraltro, in piena Acradina, fu rinvenuta, come è noto la famosa statua detta Venere Landolina.
Domina il Rosso in questo dipinto. Quello del fuoco alimentato nella fornace del Vasaio, vivo e potente come l'ardore dell'Amore e delle Passioni.
FUOCO
Il mito delle fanciulle callipigie anno 2004. Olio su tavola
1. Le Fanciulle ostentano la loro avvenenza mentre alcuni amorini ne svelano la leggiadria
2. Afrodite appare recando nella mano una mela d'oro, simbolo del premio da attribuire. La Perla posta tra i capelli è insieme simbolo di pura bellezza e della Sua origine dalla spuma del mare.
3. Il Vasaio è spettatore, quasi inconsapevole, della vicenda vissuta dalle figlie. Tra i suoi vasi volge lo sguardo ad un paesaggio a noi noto, oltre il tempo. Ecco il luogo d'accesso al Porto di Siracusa, le due colonne dell'Olympieion e la barca che si culla tra le onde di un mare eterno, testimone dell'evento e degli eventi a venire.
IL MITO DELLA SIBILLA
(collocato nella parete a nord)
Riflessione:
Esiste ancora chi, con sforzo, dedizione e sacrificio dedica la sua vita a quel concetto di Bellezza che sembra non trovar luogo in questa età contemporanea che di Bellezza è bramosa ma è anche lesta a ricusarla e rifiutarla?
Azzurro domina il dipinto. Antonomasia della serenità solare.
ARIA
1. Le Tre Grazie sono corteggio di Apollo-Dioniso mentre sembrano cantare le sue lodi nell'apparire e celarsi tra i sontuosi cortinaggi.
2. Apollo-Dioniso con la mano occlude gli occhi della Sibilla. Il responso oracolare deriva da Lui; la donna partecipa come tramite.
3. Il Genio dell'arte accompagna per mano l'Autore dei dipinti e gli mostra il Dio da cui proviene l'ispirazione. Invocato dagli artisti nel momento più difficile dell'atto creativo, dirige, amorevolmente, il concludersi dell'opera. L'Autore ha con sé un quadro, L'Enigma dell'Oracolo di Giorgio De Chirico, nell'intento di offrire una chiave di lettura metafisica a tutta quanta la sua opera.