Di Frenna Gino
D
Di frenna Gino, Nato nel 1940 a Portopalo di Capo Passero (SR).
Isole di titano
Nato nel 1940 a Portopalo di Capo Passero (SR), vive ed opera a Reggio Emilia; presidente dell'Associazione Culturale "8,75 artecontemporanea. Le sue opere sono volutamente stilizzate, e si compongono di simboli totemici disseminati su un paesaggio scabro, di cui la memoria ha trattenuto pochi frammenti essenziali, sublimandoli: mare, rupi spioventi, scogli, isole alla deriva di un passato che talora riaffiora e si incide in maniera sintetica, ma netta, nel presente. Talvolta il fondo piatto del quadro iene arricchito con inserti di cellofan, che oltre a dare consistenza materica immettono nell'ambiente naturale una componente nuova, quella della tecnologia umana. In altri casi la tempera spalmata sullo strato superiore viene raschiata e lascia affiorare una base sottostante, che sembra il residuo fossile di ere sommerse: preistoria e progresso convivono in questi paesaggi del ricordo.
I Totem svettanti di Gino Di Frenna popolano un paesaggio nudo, depauperato, che la memoria ferita riempie con vessilli sopravvissuti al naufragio degli anni.
Quel che resta del mare luccicante dell'infanzia, degli angoli assolati di Sicilia, luogo natio, della sua aria tersa bagnata da fontane di luce, rima ne impresso sulla tela come solitario diadema su un corpo denudato:
il lavorio dissolutore del tempus edax rerum ha spento il colore, svuotato la turgida opulenza dei luoghi, seccato il fitto, incoercibile brulichio della vita: il suo fiotto torrenziale di luci e presenze si è congelato in oscuri stendardi, densi di fumo e di foschi presentimenti, che la cromia metallica assimila ad emblemi del panorama urbano, con i suoi immensi e tetri Moloch tecnologici, piuttosto che a liriche rirnembranze.
La corrente ispirativa di Di Frenna, strappata dagli spazi aperti della sua Sicilia, trapiantata in una cattività fatta di serrate recinzioni, di monumenti industriali eretti sotto la cupola di un cielo di piombo, si è vista costretta a censurare il proprio dan vital, l'irruenza di un naturale vitalismo fatto di colori e forme in perenne espansione, per ripiegarsi in se stessa, riducendo al silenzio ogni segno di chiassosa presenza.
Ne nascono figurazioni austere, che si slanciano dalla base come minaccio si simulacri, dai profili acuminati e taglienti: vogliono essere i luoghi antichi, frequentati dalla poesia del ricordo, ma non si affrancano dal senso di gravosa tensione che su loro proietta il fatto di essere state concepite, di essere nate come in esilio.
La tavolozza è ridotta a poche tinte essenziali: grigio, nero, argento, colori svuotati da ogni esuberanza pittoricistica, pronti piuttosto a fermare, fissare il rigore inflessibile di queste architetture minimali.
Talvolta la superficie spalmata viene raschiata con l'uso di un pennino e lascia salire a galla stratificazioni sovrapposte, impasti ghiaiosi e variegati, che aprono una sottile fenditura, una possibilità inesplorata, sulle lamine compatte di titano.
E' l'unico spiraglio che riesce ad incidere l'impenetrabilità rocciosa delle lastre: vi si indovinano intarsi di mondi trascorsi, che la polverizzazione del presente e dell'era tecnologica ha ricoperto con colate di cemento.
In altre occasioni la piattezza bidimensionale dei torrioni viene ispessita dall'applicazione di liste di cellophan, che abbozzano un'idea di prospettiva spaziale e alludono, simbolicamente, al rischio di "impacchettamento sotto vuoto dei territori franchi dell'infanzia, disumanizzati dall'aggressione del progresso.
Restano invece, pesantemente assise sulla tela, queste strutture primarie, di gusto minimal, costruite con un vocabolario essenziale ma forte, stilizzazione estrema della modernità.