il caso Gallo - provincia di Siracusa

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
Sicilia
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il caso Gallo

Avola

Tratto da “I SIRACUSANI” ANNO III N.15 SETTEMBRE-OTTOBRE 1998
Il caso Gallo a cura di:
Italo Formosa testi di Enzo Asciolla e Helga Incastrone commento finale di Piero Fillioley

L'errore giudiziario più clamoroso di tutti i tempi

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Nel 1954 un grave fatto si verificò ad Avola in provincia di Siracusa, stravolgendo la vita di una intera famiglia. Il "caso Gallo" appassionò l'opinione pubblica di allora, tanto da essere ancora oggi ricordato come uno dei fatti di cronaca più sconvolgenti accaduti nella nostra provincia, oltre che per essere poi stato riconosciuto come uno dei più gravi errori giudiziari. Agli inizi degli anni cinquanta Avola era ancora un paese prevalentemente agricolo, non certamente il grosso centro urbano attuale. Campagne, pascoli e casolari erano quasi l'unico scenario esistente. Proprio una di queste campagne di Avola Antica fece da sfondo alla vicenda in questione. Attraverso il quotidiano La Sicilia, che all'epoca seguì attentamente il caso, e il romanzo dell'avvocato penalista Piero Fillioley, il quale difese il principale accusato, è stata possibile la ricostruzione di questa vicenda che ha tenuto col fiato sospeso, ed appassionato la popolazione di quegli anni, per i numerosi colpi di scena, La famiglia Gallo era composta da cinque fratelli Vincenzo, Sebastiano, Paolo, Salvatore e Giuseppe. Vincenzo, Sebastiano e Paolo agli inizi degli anni cinquanta acquistarono la campagna sulla montagna di Avola in contrada Cappellani. Poco dopo Vincenzo e Sebastiano decisero di emigrare, l'uno nel Venezuela, l'altro in Australia, affidando la loro quota a Salvatore. Paolo e Salvatore dividevano quindi la proprietà, dedicandosi al pascolo ed all'agricoltura. Vivevano in un vecchio rustico dai muri scrostati ricoperti di muschi, che comprendeva le stalle e i depositi per la paglia e i mangimi. Tutto questo era circondato da una campagna arida e desolata, dalle molte rocce grige e dai pochi alberi. La strana storia che sconvolse per sempre la vita di Salvatore Gallo iniziò la mattina del 6 ottobre 1954. Come tutte le mattine i due fratelli si svegliarono all'alba per dare da mangiare agli animali e per cominciare l'aratura della campagna; quella mattina però la giornata cominciò in maniera diversa, fu proprio all'alba di quel nuovo giorno infatti che Paolo Gallo scomparve dalla campagna di Avola Antica. Salvatore scorse del sangue e la coppola di Paolo in terra, così avverti la cognata, Cristina Giannone. Questa, recatasi sul posto e vedendo il sangue sul selciato e la coppola del marito in terra, si rivoltò contro Salvatore imprecando ed urlando Tammazzàstuvu ". Fu il figlio maggiore di Salvatore, Sebastiano a recarsi in caserma dai carabinieri per denunciare la scomparsa dello zio. Si pensò subito ad un caso di omicidio e sin dall'inizio Salvatore Gallo fu ritenuto il principale responsabile dell'accaduto.
Ad occuparsi delle indagini fu il maresciallo Luminoso e, dopo il pensionamento di questi, il maresciallo Candiano; proprio il maresciallo Luminoso durante uno dei numerosi sopralluoghi trovò nella stanza di Salvatore degli indumenti sporchi di sangue accuratamente avvolti in un asciugamano pulito. Quindi la tesi del fratricidio inizialmente sostenuta dagli inquirenti, prendeva sempre più corpo. La particolarità del caso, per meglio dire la stranezza, a causa della quale questo viene ricordato come il "giallo di Avola Antica", consiste nella mancanza del cadavere di Paolo Gallo. Fu proprio questo particolare che convinse gli inquirenti che Salvatore doveva aver compiuto il delitto con l'aiuto di un complice; così anche il figlio, Sebastiano, fu arrestato per complicità nell'omicidio e per avere aiutato il'padre ad occultare il cadavere.
Salvatore e suo figlio furono chiusi nella camera di sicurezza della caserma di Avola.
Le indagini occuparono le autorità per lungo tempo. Si cercarono il corpo e nuovi eventuali indizi che potessero dare la certezza della morte di Paolo Gallo. Fu impiegato nelle indagini anche un cane poliziotto, Athos, il quale però, contro le aspettative di tutti, non riuscì a rinvenire il cada¬vere.
Il 13 ottobre 1954 la cronaca di Siracusa de La Sicilia così titolava: macchie di sangue sugli abiti dei due principali indiziati.
Pochi giorni dopo un altro titolo sconvolgente che non lasciava presagire nulla di buono per i due principali indiziati: pietre intrise di
sangue e pantaloni insanguinati sono gli elementi nuovi del tenebroso giallo di avola. Il Procuratore della Repubblica ordinò delle indagini medico-legali per accertare se il sangue sui vestiti fosse sangue umano e di quale gruppo. Salvatore Gallo marciva, dal 26 novembre 1954, in una cella del vecchio carcere borbonico di Siracusa; il figlio Sebastiano fu arrestato il 18 febbraio del 1955. Ad ordinarne l'arresto fu il giudice istruttore del tribunale di Siracusa Antonio Pappalardo. Salvatore e Sebastiano Gallo si dichiararono sempre innocenti. Alla loro innocenza credette fermamente l'altro fratello Giuseppe Gallo, il quale sosteneva che Paolo era vivo e si nascondeva: infatti riuscì a trovare molti testimoni che affermavano di aver visto nelle campagne di Ragusa, Modica e Palazzolo "sacchiteddu" ovvero Paolo Gallo. Due di questi testimoni, in particolare Salvatore Masuzzo e Giuseppe La Quercia, sostennero davanti al magistrato, di aver visto vivo Paolo Gallo, ma furono arrestati e trattenuti in carcere fino al momento in cui non ritrattarono le loro deposizioni.
Nel 1956 il processo contro Salvatore e Sebastiano Gallo si concluse. Nonostante il cadavere di Paolo Gallo non fosse stato trovato, Salvatore ed il figlio Sebastiano Gallo furono condannati, l'uno all'ergastolo, l'altro ad una pena minore. Questo strano delitto, nel frattempo aveva suscitato l'interesse professionale di un giornalista de La Sicilia, Enzo Asciolla, che seguendo le indagini ed il processo, finì per convincersi dell'innocenza di Salvatore e Sebastiano Gallo. Improvvisatosi investigatore, riuscì a ritrovare vivo, dopo sette anni, nei pressi di Ragusa, Paolo Gallo.
Helga Incastrone






Il "caso Gallo" esplose il 7 ottobre 1961 a Ragusa. In pochi gior¬ni il capoluogo ibleo si riempì di giornalisti italiani e stranieri, mobilitati dalla sbalorditiva notizia del ritrovamento di mi contadi¬no di mezza età - Paolo Gallo - da sette anni misteriosamente scomparso dalla circolazione e dall'immediata scarcerazione del fra¬tello Salvatore, erroneamente condannato all'ergastolo per fratrici¬dio e occultamento ili cadavere.
Fu il risultato d'una inchiesta da me condotta che segnò nel grande libro della storia giudiziaria di tutti i tempi la fine di una grande ingiustizia. Da quel magico momento il caso Gallo, che non era stato mai seguito con interesse, essendo passato come un comune fratricidio, interessò giornali e riviste di tutto il mondo, fu anche raccontato da sceneggiati televisivi e persino dai cantastorie. Oggi, con le norme del nuovo codice di procedura penale, sarebbe impossibile incorrere in un simile errore. Allora l'antiquato codice Rocco dava facoltà al giudice, ove mancassero le prove per affer¬mare la responsabilità dell'imputato di un delitto, di supplire con il proprio convincimento. Al processo Gallo però non erano man-cate soltanto le prove del fratricidio, ma persino il cadavere della vittima presunta. Nondimeno tutti e tre i gradi del giudizio — dai giudici di primo grado di Siracusa, a quelli di Catania in sede d'appello e ai giudici supremi della Cassazione — avevano avuto lo stesso risultato affermando univocamente la responsabilità di Salvatore Gallo.
Passata in giudicato la sentenza di condanna, il processo Gallo era finito in archivio lasciando nella disperazione il condannato. Il convincimento dei giudici in questo particolare caso aveva avuto tale fermezza da costare anche l'arresto e la condanna (secondo errore) di due testimoni che avevano giurato d'aver visto il "morto" vagabondare nelle campagne della provincia ragusana. La duplice testimonianza fu interpretata come una manovra difensiva per procurare la libertà a un assassino: «Un morto che cammina? — fu scritto nella motivazione della sentenza — Ma quale assurdità!». Il "morto" invece camminava sul serio!
L'incredibile storia dei fratelli Gallo ebbe inizio all'alba del lonta¬no 6 ottobre 1954, allorché Paolo, assoggettato alle prepotenze e ai soprusi del fratello, si allontanò sanguinante dopo l'ultimo litigio dal podere di Avola senza dare più notizie di sé. I Gallo, con altri fratelli residenti altrove, erano di Palazzolo, ma Paolo aveva la residenza ad Avola, Salvatore a Testa dell'Acqua, frazione montana di Noto.
Rozzi contadini, ambedue analfabeti, ma grandi lavoratori, erano sempre l'uno contro l'altro per un pezzo di terra indiviso. Una lite dopo l'altra, i due fratelli si erano querelati a vicenda per ingiurie, minacce e altro. Ed appena arrivò la prima citazione in pretura, in quella solitaria località di montagna scoppiò il finimondo. Quel mattino i due fratelli si accapigliarono per l'ennesima volta, coprendosi di insulti. A un certo punto Paolo, quasi cinquantenne con qualche anno in più del fratello, imboccò sanguinante il viotto¬lo che portava fuori del "podere della discordia" e fuggì come un folle. Da quel drammatico momento, nessuno ebbe più sue notizie, neanche i familiari.
Ricostruita la storia dei due fratelli, i carabinieri furono poi domi¬nati dal sospetto che, non avendo dato segni di vita, Paolo fosse finito sotto terra per mano ilei fratello Salvatore. Ed appena ne ebbero conferma dall'esito d'nna indagine medico-legale, arresta¬rono il presunto fratricida denunciandolo per omicidio e per occul¬tamento di cadavere. Il medico legale aveva stabilito, facendo un calcolo approssimativo delle macchie di sangue rinvenute lungo il viottolo percorso da Paolo Gallo erano tante da equivalere alla presenza di un cadavere. E da quel momento, per la legge, Paolo Gallo figurò nel regno dei più.
Con Salvatore Gallo fu tratto in arresto anche il figlio Sebastiano, denunciato per concorso nel delitto. "Se lo avessimo ucciso noi - disse Sebastiano discolpandosi - non avremmo fatto trovare lungo il viottolo le tracce di sangue di mio zio né il berretto cadutogli mentre si allontanava".
Salvatore invece non protestò, neanche oppose una vera e propria discolpa di fronte a quella grave accusa. "Certo - aveva detto ai carabinieri la cognata dell'imputato — mio marito non c'è più! Qualcuno lo sa e non vuole dirlo!". Fu questa, in sostanza, l'accu¬sa che guidò il processo celebratosi a Siracusa, durante il quale l'ostinato mutismo di Salvatore Gallo, che aveva preso l'arresto come un'offesa personale, non servì certo alla sua causa. E fu l'ergastolo che nessuno gli cancellò.
Il giudizio d'appello fruttò soltanto l'assoluzione del figlio Sebastiano, che poi si adoperò al massimo, fruendo della riconquistata libertà, per dare un aiuto al padre che sapeva innocente. E lo fece tenendosi in continuo contatto con l'avvocato Salvatore Lazzara che aveva difeso strenuamente, durante il processo, di appello l'ergastolano implorandone l'assoluzione. Ma era stata una fatica inutile. A processo chiuso, convinto dell'innocenza del suo difeso fu lo stesso avvocato a sollecitare la mia inchiesta. Avevo seguito il processo Gallo nei tre gradi ed ero rimasto alquanto dubbioso sulla sua conclusione, tenuto conto delle carenze dell'impostazione e soprattutto dell'incertezza sulla morte di Paolo Gallo, che, esercitava il suo considerevole peso nella causa, pur considerando il rischio che avrei corso, volli tentare. La mia avventura ragusana prese le mosse naturalmente dalla duplice testimonianza punita con l'arresto e la condanna a sei mesi di carcere di Salvatore Masuzzo e Giuseppe La Quercia. Rintracciai i due contadini. Sia l'uno che l'altro ribadirono la loro testimonianza affermando con sicurezza di aver visto Paolo Gallo in carne e ossa e di non avere preso una svista né di avere giurato il falso. Masuzzo disse di averlo incontrato il giorno dell'Ascensione del 1955, all'incirca sei mesi dopo la sua sparizione. Sorpreso dell'incontro, gli chiese: "Ma tu sei don Paolino, che fai qua?". E quello rispose, come se volesse troncare il discorso: "Me ne vado... me ne vado, non abbia paura!" E se la svignò correndo a gambe levate. Dieci mesi dopo lo aveva incontrato, come Masuzzo, in campagna. Non credendo ai propri occhi La Quercia, lo aveva chiamato per nome. Ma quello aveva fatto finta di non sentire. Ed allora La Quercia, incalzando: "Ma tu non sei don Paolino? Che cosa è successo? Sei morto e resuscitato?". Evidentemente distur¬bato da quel riconoscimento il misterioso individuo, con un'alzata di spalle, ma tradendo un certo imbarazzo e mostrando di avere fretta, esclamò: "Ma che vai dicendo?" e scappò, perdendosi fra gli alberi di nocciole.
Tre giorni dopo, seguendo i consigli dei due "falsi testimoni" («vada a cercarlo quel morto - mi aveva detto La Quercia - e vedrà che non se ne pentirà»), arrivai in contrada Serramezzana, dove fui subito, con somma sorpresa, sulle tracce del "morto che camminava"! Venni a sapere che, in quelle campagne, si aggirava un povero diavolo di mezza età, chiamato "don Paolino", che si guadagnava da vivere badando agli animali di questo o quel padro¬ne. Non aveva famiglia né amici, viveva come un randagio, dormiva dove gli capitava, molto spesso nelle stalle delle stesse bestie che conduceva al pascolo. Mi fu descritto come un tipo taciturno, sfug¬gente, che non amasse parlare dei suoi problemi, della sua vita. Queste indicazioni furono sufficienti per farmi insistere nella ricer¬ca, che andando avanti mi parve davvero promettente. Qualche giorno dopo appurai che il randagio aveva frequentato una scuola rurale per contadini analfabeti.
Raggiunsi la scuola e l'insegnante, una giovane ragusana, mi con¬fermò la notizia, ma aggiunse che da alcune settimane l'uomo non aveva più frequentato. Chissà perché. Forse lavorava in altri luo¬ghi, più lontani. Portavo in tasca la foto di Paolo Gallo e la mostrai all'insegnante chiedendo: "E lui?". La guardò e subito, alquanto sorpresa esclamò: "Sì è proprio lui, Paolo Gallo!". Cercò poi un quaderno che conservava ancora in un cassetto del suo tavolo e me lo mostrò: "Questo - disse - mi è rimasto per ricordo...". Sulla copertina c'era il nome scritto di suo pugno: Paolo Gallo. Era dun¬que la pista giusta! Cercai allora un'altra verifica. Con un po' di fortuna venni a sapere che "don Paolino", durante il suo vagabon¬dare, si era casualmente trovato presente, lungo uno stradale, all'incidente occorso ad un mulo ed era stato chiamato nella vicina caserma dei carabinieri di Santa Croce Camerina per rendere una testimonianza. Disse come si chiamava, ma il suo nome non incu¬riosì per nulla i carabinieri. Chiesi di potere leggere il verbale della testimonianza e verificai che la firma Paolo Gallo era identica a quella apposta in un vecchio atto di locazione che, nella circostan¬za, riuscii ad avere dalla moglie del misterioso vagabondo, con la quale ero in continuo contatto in quel periodo tenendola anche informata intorno agli sviluppi dell'inchiesta. A questo punto cadde ogni residuo dubbio: Paolo Gallo era vivente, anzi più vivo che mai! ed era stato così facile scoprire in un paio di settimane quella verità che i giudici non avevano scoperto in sette anni! Mi affrettai allora a darne notizia ai carabinieri di Ragusa, i quali, dopo il mio... allucinante racconto (con documenti alla mano) dovettero darsi da fare per rintracciare il finto morto. Lo raggiun¬sero in brevissimo tempo nel suo ultimo nascondiglio, una casupola cadente alla periferia di Ispica, dove il vagabondo si era trasferito lasciando le campagne che abitualmente batteva, dopo avere appreso dalla pubblicazione dei primi articoli con cui il giornale "La Sicilia" annunciava il possibile ritrovamento dell'uomo ritenu¬to ucciso dal fratello.
Paolo Gallo fu sorpreso nella casupola di Ispica all'alba del 7 novembre 1961: la barba lunga, il viso segnato dalla paura e dall'insonnia, era a letto quasi privo di forze, in preda a un forte abbattimento. Fu piantonato per una giornata intera. Avvertite dagli stessi carabinieri, piombarono qualche ora dopo nella casu¬pola la moglie e le due figlie (residenti a Ragusa). Si sedettero silen¬ziose e sconvolte accanto a lui, tenendo gli occhi sempre fermi su quel corpo stanco ed emaciato e il volto così impaurito e disfatto. Le tre donne rimasero accanto al "redivivo" finché poterono; poi il loro congiunto fu trasferito in carcere. La notizia dell'errore giudi¬ziario, riportata con titoli vistosi sulle prime pagine dei giornali, fu certo un trauma per la magistratura. 11 caso Gallo ebbe tutto quel clamore e interessò a lungo la stampa (oltre cento giornalisti piombarono a Ragusa in quei giorni) in (pianto esplose come un caso più unico che raro. E tale comunque è rimasto dopo tanto tempo! Impressionò l'opinione pubblica non solo per la singolarità ma anche per la leggerezza e la superficialità con cui fu processato un uomo colpito da un'accusa gravissima culminata con la conferma del carcere a vita e accompagnata da una motivazione che la Corte suprema avrebbe dovuto cancellare dal primo all'ultimo rigo! Ma per un caso davvero fortunato l'ergastolano fu salvato dal ritrovamento del fratello ex defunto. Certo fu un evento che soltanto la scatenata fantasia di Pirandello con "Il fu Mattia Pascal" aveva potuto prevedere e che i giuristi avevano trascurato illudendosi che fosse solo una "boutade" l'affermazione del drammaturgo agrigen¬tino, secondo il quale "la realtà si diverte a copiare la fantasia". Il caso Gallo ora appartiene alla storia, ma sopravvive attraverso i libri di dottrine giuridiche. Le arringhe degli avvocati, le motivazioni delle sentenze dei giudici, come uno dei più rari ed eclatanti esempi di errore giudiziario.



Ormai non sono più in vita nemmeno i principali protagonisti della vicenda. Salvatore morì quattordici anni dopo il suo ritorno in libertà; il fratello ha vissuto molto più a lungo la sua "seconda vita", superando i novant'anni. Il giorno stesso del suo ritrovamento Paolo fu rinchiuso in carcere e vi rimase circa un anno imputato di calunnia. Ma il tribunale di Siracusa, non avendo potuto provare che l'imputato si era finto morto per mandare in carcere il fratello, dovette assolverlo con la formula del dubbio, oggi abolita. Come del resto penetrare nel misterioso mondo dell'imputato, in quell'isolamento protrattosi per sette anni per un uomo del suo stampo: bifolco, ignorante, picchiatello (come lo ritenevano), che aveva avuto pochi rapporti con la società civile? Non fu possibile entrare nei suoi pensieri né dopo l'arresto né quando, superata la parentesi carceraria, riprese la vita campestre di prima, pur essendosi riavvicinato alla famiglia.
Il "morto-vivo" insomma avrebbe sempre e soltanto mantenuto il segreto della presunta simulazione che peraltro egli ha sempre negato e che non ha mai svelato nel resto della sua vita. Il processo per calunnia fu dunque un processo inutile, non servì a nulla se non per punire con un anno di carcere Paolo Gallo per avere causato l'errore con la presunta simulazione della sua morte. Ma fu proprio questo il motivo della sua eclissi? O prolungò la sua "latitanza" per paura, avendo saputo delle gravi conseguen¬ze che erano scaturite dalla sua presunta morte? Ebbe forse paura della reazione del fratello. Quando scarcerato, Salvatore avrebbe voluto far pagare al fratello il male ricevuto. Ma alla fine lasciò perdere. La notizia della liberazione entrò come una folgore nella cella dell'ergastolano. Rinchiuso nell'orrido carcere di Santo Stefano di Ventotene, su un isolotto al largo del golfo di Gaeta, nel mar Tirreno, il detenuto aveva ormai perduto ogni speranza di salvezza: lasciò il penitenziario piangendo come un bambino. Fuori trovò ad attenderlo l'avv. Lazzara, il figlio Sebastiano e anche il sottoscritto.
Le prime ore di libertà gli riservarono le più festose accoglienze a Roma, come in Siciha. Seguito da decine di fotoreporters fino al suo paese di Testa dell'Acqua, Salvatore fu accolto e portato in trionfo dai compaesani che avevano seguito la sua odissea dal prin¬cipio alla fine. Ma questa non era ancora finita: l'ex ergastolano attese a lungo ma inutilmente la riparazione dell'errore giudizia¬rio, vale a dire il processo di revisione. Rimasto in libertà provvi¬soria, attese oltre quattro anni, perché dovette essere prima modi¬ficato l'istituto della revisione. Il nostro codice risolveva in modo piuttosto restrittivo il problema della revisione di un processo già chiuso. Il caso Gallo, col "morto" resuscitato, competeva un fatto completamente imprevisto e imprevedibile.




La corte d'appello di Palermo, investita del giudizio, giudicò Salvatore Gallo il 6 aprile 1966: gli tolse la condanna all'ergastolo per omicidio e occultamento di cadavere, ma gli inflisse quella di quattro anni e mezzo di reclusione per lesioni gravi causate al fratello a colpi di pietra.
L'ex ergastolano sperò invano di farla franca dopo il carcere sofferto. Fu invece condannato due volte, con l'assorbimento della seconda pena parte della prima ingiustamente sofferta. Avrebbe voluti» quanto meno, come vittima dell'errore giudiziario, un indennizzo per avere scontato due anni e mezzo di carcere in più a conti fatti. Non ebbe nemmeno quello. "Ma che giustizia è questa?" chiese pochi giorni dopo contraendo il volto indurito dalle sofferenze subi¬te in una smorfia di dolore. Ma si consolò alla fine sposando una contadinotta calabrese. Riempì così il vuoto della sua vedovanza isolandosi con lei dal mondo nella casetta, con piccolo orto, posse¬duta a Testa dell'Acqua.
"Sono la vittima del più assurdo delitto - mi disse il giorno in cui andai a trovarlo - e non mi importa se hanno dovuto condannarmi. Nella mia ignoranza mi ero illuso che, al di sopra di tutti i codici del mondo, l'errore giudiziario che ha distrutto la mia vita avesse richiesto, nei miei confronti, prima che nei confronti di altri, la giu¬sta riparazione. Ed invece mi fu riservata quella più iniqua". Salvatore Gallo dovette rassegnarsi. A parte il suo temperamento incline alla violenza tenuto col fratello per motivi di interesse, era in definitiva considerato un brav'uomo. Ce l'aveva col fratello, ma non aveva mai fatto male ad alcuno. Apparteneva del resto a una famiglia di lavoratori. L'uomo generalmente buono è anche forte. Arriva a subire in silenzio il destino avverso, arriva anche a rasse¬gnarsi. Proprio come fece l'ex ergastolano finché visse: chinò il capo a un certo punto e risolse il drammatico problema esistenziale ritirandosi nel proprio guscio e isolandosi dalle cattiverie del mondo. Non visse nemmeno molto a lungo come il fratello. Si ammalò e si spense il 22 giugno 1974. Ai funerali prese parte tutto il paese, tranne suo fratello, tornato a vivere con la moglie residente a Ragusa. Se Paolo Gallo fosse scomparso dalla circolazione una ven¬tina d'anni prima, durante il periodo fascista, Salvatore sarebbe stato quasi certamente giustiziato...
Enzo Asciolla






A conclusione della nostra ricostruzione del "Caso Gallo", non poteva mancare l'intervento di colui che professionalmente visse la tormentata vicenda giudiziaria con una partecipazione umana che ancora oggi, al ricordo, segna l'anima dell'avvocato Piero Fillioley. Egli volle, quasi ad esorcizzare il convulso vissuto dell'esperienza umana e professionale, riportare la drammatica traversia giudiziaria, nel volume "Il Caso Gallo" edito da Sciascia nel luglio del 1979. E dopo 44 anni? Avvocato, dopo quasi mezzo secolo, come ricorda la vicenda giudiziaria del caso Gallo.
"Con questa domanda si riapre una vera e propria ferita della mia attività professionale. Qualunque sia il tempo trascorso, il caso Gallo è l'errore giudiziario più clamoroso di tutti i tempi. E nel presente deve costituire un severo ammoni-mento a quanti, terrorizzati dalla marea montante della criminalità, anche proterva, auspicano il ripristino della pena di morte.
Un ammonimento anche per la magistratura ad essere, al massimo grado, serena, e mai sfiorata da pregiudizi esterni, o peggio, da deviazioni interessate. E credo sempre attuale quanto scris¬se il celebre penalista Bruno Cassinelli, e che io riporto in epigrafe nel mio volume sul caso Gallo: "... ciò che ingiu-stamente piange nell'indivi¬duo, avvelena la società". Se questo può terrorizzare l'opinione pubblica, non deve spingere il magistrato alle avventatezze di giudizio ed all'uso di strumenti inquisitori perversi."
Italo Formosa



                 Paolo Gallo                           Salvatore Gallo

Sebastiano Gallo




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