tratto da:
http://www.siciliafotografica.it/homesic/index.php?option=com_content&view=article&id=520&Itemid=86
Un’isola di verde, un breve paradiso incontaminato nel cuore degli Iblei, una cangiante ferita attraverso la dura pelle di roccia bianca dei calcari palazzolesi, questa in sintesi la cava di Baulì.
Un luogo quasi del tutto dimenticato già nelle più lontane epoche e poi riscoperto da qualche rifugiato negli ultimi secoli; questo angolo di Sicilia ha convissuto con i suoi più antichi silenzi senza mai essere sfiorato dall’incedere maldestro della modernità. Ragion per cui, tanti sono i segreti nascosti dall’impenetrabile vegetazione che intimorisce ogni più temerario esploratore. La cava di Baulì resta un’isola nel tempo e nello spirito, un prezioso scrigno che conserva frammenti di rara Sicilia.
Ai nostri occhi emergono tracce che attraversano tutte le fasi dell’età del bronzo fino all’arrivo dei greci, per poi proseguire nell’alto medioevo ed in particolare durante la dominazione bizantina; è proprio in questo periodo che la cava e il pianoro soprastante si popolano. L’abbandono del vicino centro urbano di Akrai (l’antica Palazzolo) favorisce una capillare antropizzazione delle contrade verso est ed in particolare, lungo la direttrice stradale Akrai-Noto Antica; qui sorge il monastero di Santa Lucia di Mendola, uno dei luoghi più importanti per la spiritualità durante tutto il medioevo.
I campi che circondano la cava riportano vaghe testimonianze di questi insediamenti, poiché il lungo sfruttamento agricolo ne ha disperso i resti, ed oggi solo pochi conci squadrati si distinguono nei muri a secco, mentre nei campi arati emergono una grande quantità di ceramica, di frammenti di metallo e persino di monete. Più il là, verso la lecceta del vecchio bosco, silos, frantoi e sepolture affiorano dallo spesso strato di foglie, ma è quasi al centro della cava, che si aprono complesse abitazioni rupestri fra le ripide pareti a picco, dove molti secoli fa uomini alla ricerca di un sicuro rifugio le scavarono disperati. All’epoca in cui i bizantini erano i dominatori della Sicilia, era usanza piuttosto comune scavare tali abitazioni all’interno di cave in inaccessibili, soprattutto nell’ultimo periodo quando i saraceni iniziarono i loro attacchi e poi l’invasione che da occidente giunse qui come un’onda travolgente. Nell’827 d.C. gli arabi misero a ferro e fuoco la vicina Akrai devastando le campagne circostanti e quindi anche la contrada di Baulì.
L’espediente di rifugiarsi nelle impervie cave, con siffatte abitazioni, si diffuse su tutto l’altopiano, e ogni grande o piccola cava fu in questo popolata, tanto che oggi è cosa comune rinvenire questi complessi abitativi rupestri, che in alcuni casi sono da considerarsi dei veri e propri villaggi. La tradizione locale ci tramanda il nome di ddieri per definire questi particolari insediamenti; una parola non a caso araba che ha il significato di “abitazione”.
Ddiere piccolo: ingressoDdiere piccolo: ingressoDdiere piccolo: ambiente di lavoroDdiere piccolo: incisioniDdiere piccolo: incisioniDdiere piccolo: taccheDdiere piccolo: 1688
E’ curioso anche come il termine Baulì, probabilmente proveniente dall’unione dei termini arabi di Bu-Alì, “Figlio di Alì”, sia giunto fino a noi. Dopo l’invasione e la conquista saracena, una consistente comunità araba si stanziò da queste parti, forse riutilizzando anche gli stessi ddieri della cava.
Raggiungerli ancora oggi è un’impresa affatto facile e senza una guida diventa molto complicato, infatti, non esiste alcun sentiero che ci conduca a destinazione e l’unico tracciato percorribile in mezzo alla vegetazione si richiude in pochi giorni dopo essere stato aperto dai visitatori occasionali, a causa della perenne crescita delle piante.
Per chi ama l’avventura e la riscoperta di un luogo dimenticato e scarsamente frequentato, i ddieri di Baulì sono assolutamente una meta obbligatoria per la straordinaria bellezza del connubio fra natura selvaggia e storia antica.
I sistemi di ddieri più conosciuti e particolari della cava sono due: il ddiere piccolo e il ddiere grande.
Il ddiere piccolo è il primo che s’incontra venendo da est e la sua individuazione non è facile in quanto l’ingresso avviene attraverso un anonimo passaggio sul margine della roccia, nascosto dalla fitta vegetazione. Percorrendo questo corridoio aperto, si giunge ad un ampio ambiente rettangolare, un tempo chiuso da una parete di roccia oggi crollata. Alcuni indizi tra cui una nicchia con pianta a lunetta e un foro per l’impianto di un perno, così come un silos interrato, fanno ipotizzare che si trattasse di un antro di lavoro, forse un frantoio. Sull’antica pellicola originaria della roccia, compaiono inoltre numerose tacche verticali usate probabilmente per compiere dei conteggi.
Ddiere piccolo: scala internaDdiere piccolo: scala interna e passaggioDdiere piccolo: scala internaDdiere piccolo: passaggioDdiere piccolo: passaggio e sbocco esternoDdiere piccolo: terrazzamento sulla cavaDdiere piccolo: terrazzamento Ddiere piccolo: incisioni
Non mancano però anche altre incisioni più recenti, realizzate da contadini e visitatori del passato. Una scritta con mano incerta riporta addirittura la data del 1746 e alcuni nomi scarsamente leggibili.
In una delle pareti si apre il passaggio al piano superiore attraverso una straordinaria e stretta scalinata scavata nella roccia, ancor’oggi intatta. Si arriva in un piccolo antro con una finestrella che permette di affacciarsi sull’ampia cava sottostante. Da qui, grazie ad un secondo passaggio accediamo ad un corridoio che conduce in un secondo ambiente dove si apre un altro passaggio verso l’esterno.
In questo corridoio troviamo la scritta più antica, una data del 1688, mentre poco più avanti figurano date più recenti relative al periodo del secondo conflitto bellico del secolo scorso. La storia si ripete: i ddieri che protessero i bizantini dall’invasione saracena più di 1300 anni fa, offrirono la stessa difesa ai rifugiati della grande guerra.
A filo dalla parete si accede all’esterno, dove camminando su passi d’uomo incisi nella roccia, ci attende un suggestivo terrazzamento con una canaletta di drenaggio per l’acqua piovana.
Il ddiere più grande dista alcune centinaia di metri verso ovest, che nella vegetazione più fitta e attraverso un sentiero impervio, diventano piuttosto lunghi.
Ddiere grande: ingressoDdiere grande: pozzo d'accessoDdiere grande: primo pianoDdiere grande: primo piano e accesso al secondoDdiere grande: primo pianoDdiere grande: primo pianoDdiere grande: primo pianoDdiere grande: primo piano
Questo ddiere si sviluppa su tre piani, fino un’altezza di 30 metri dal fondo della cava. Il suo ingresso è semplice e dall’esterno sembra più l’accesso ad un anfratto naturale che l’ingresso di una struttura abitativa. Il piano terra è rappresentato da un vano rettangolare interamente annerito dalla fuliggine dei pastori negli ultimi secoli, mentre l’ingresso ai piani superiori avviene attraverso un pozzo verticale alto più di tre metri. Sarebbe stato impossibile per noi salire senza un’improvvisata scala di legno e corde installata da qualche gruppo scout.
Saliti attraverso il pozzo, si accede al primo piano, illuminato da un’ampia apertura verso un paesaggio cangiante. Qui sembra realmente di essere tornati indietro nel tempo; la piena solitudine di quel vasto silenzio, le antiche dimore in quel cuore di roccia, il mare di verde impenetrabile ai nostri piedi, ci aprirono l’anima in un ampio respiro che sembrò abbracciare ogni cosa nel tempo e nello spazio.
Un lungo corridoio si estende dall’ambiente dal quale siamo entrati e ci conduce all’interno di altri cameroni, mentre una scala in parte scolpita nella roccia ed in parte in legno, sale al secondo livello. Qui si sbocca, verso destra, lungo un camminamento esterno che conduce ad altre stanze di cui una molto ben conservata, dove sulle pareti rinveniamo ancora scolpita una croce greca, mentre in basso, a limite della scarpata, si accede ad un piccolo ambiente con un foro di scolo, forse utilizzato come latrina. A sinistra si entra in uno stanzone chiuso dal quale si aprono vari ambienti e un accesso a pozzetto per il terzo piano costituito solo da una singola stanza.
Ddiere grande: corridoio laterale del primo pianoDdiere grande: secondo piano e accesso all'oratorioDdiere grande: camminamento esterno del secondo pianoDdiere grande: accesso alla latrinaDdiere grande: latrina internoDdiere grande: stanza del secondo pianoDdiere grande: croce grecaDdiere grande: ambiente del secondo piano
Dall’ingresso del secondo piano si passa anche in una piccola stanzetta, dove al centro della parete frontale si trova scolpita una piccola nicchia a lunetta, che potrebbe far supporre come questo antro fosse dedicato alla preghiera, infatti, queste piccole nicchie a lunetta si riscontrano molto frequentemente in ambienti ipogeici dedicati al culto religioso.
E’ molto difficile per me esprimere le tante sensazioni che permeano l’animo nel ritrovarsi lì sospesi, forse le fotografie nel loro piccolo possono restituire in parte le emozioni profonde di un luogo così isolato dal quale non è possibile scorgere neanche a distanza alcun segno dell’uomo moderno; poiché la conseguenza di tutto ciò è, infine, quella di ritrovarsi in una vera e propria macchina del tempo in grado di riportarci nel passato, attraverso le stesse visoni e gli stessi silenzi che vissero gli uomini che un tempo li costruirono.
Gallerie corrispondenti
Ddiere grande
Ddiere piccolo
Nei dintori
Santa Lucia di Mendola
Contrada Aguglia
Akrai
dal testo di: Santino Alessandro Cugno
Il mistero nei Ddieri di Baulì
Il fenomeno rupestre è un aspetto tipico del territorio ibleo in quanto la struttura geomorfologia delle sue rocce lo permetteva, l’intero altipiano è ricoperto di tenera roccia calcarea che l’uomo ha imparato a scavare fin dall’antichità, quando ne ricavava necropoli come Pantalica, Cava Grande, Castelluccio, ecc.
La roccia, scavata a tappeto per scopi funerari, assume l’aspetto di un enorme groviera, tanto da far affiorare nell’immaginario della gente il parallelismo con gli alveari, visto che l’altipiano è fra i più rinomati centri di produzione del miele fin dall’antichità, come testimoniano gli scritti di Virgilio, Ovidio e Teocrito.
Col passare del tempo l’uomo abbandonò l’entroterra in favore della costa per potersi dedicare ai traffici commerciali che si svolgevano nel Mediterraneo, di cui la Sicilia rappresentava un punto cruciale di transito.
Ritorna ad abitare gli altipiani calcarei e le valli fluviali dell’entroterra solo tra il IV e il V secolo d.C. quando, sotto la pressione delle incursioni costiere saracene, ma anche per sfuggire all’asfissiante politica fiscale bizantina, è costretto a rifugiarsi nell’entroterra. Questa volta però la roccia non venne utilizzata per ospitare i morti come in passato, ma direttamente per accogliere i vivi, nuove aperture più grandi vennero praticate nella roccia, accanto alle vecchie che vennero allargate per venire incontro alle rinnovate esigenze.
Intere popolazioni con le loro attività si spostarono verso l’entroterra dell’isola creando città-fortezze in pietra nei versanti più ripidi delle valli e dando luogo a quello che viene oggi indicato come “fenomeno rupestre”.
Si trattava di veri e propri agglomerati con stanze più grandi, anch’esse scavate nella roccia, che venivano adibite al culto, le chiese rupestri bizantine appunto caratterizzate dalla presenza di pitture sulle pareti oggi andate perdute per varie cause.
Abbandonati progressivamente fra il XVII e il XVIII secolo, questi villaggi rupestri, sparsi qua e là sui monti Iblei, tornano ad essere abitati da folte schiere di briganti.
Come accade nella maggior parte dell’isola, nel periodo successivo all’unità d’Italia, i banditi ne fecero la propria base operativa, sfruttando l’estrema inaccessibilità dei questi luoghi. Il più famoso sembra essere stato il bandito “Giovanni Boncoraggio”, nato a Canicattini il 27 giugno 1831.
Egli fu, negli anni che segnarono il passaggio dal Regno Borbonico allo Stato Sabaudo, il capo indiscusso di una ciurma di ardimentosi briganti che operavano in tutta la provincia siracusana.
Uno dei luoghi legati al brigantaggio del Bocoraggio è certamente il bosco di Baulì con i suoi “ddieri”.
Proprio questi luoghi inaccessibili difesi da una fitta ed ostile vegetazione principalmente a rovi, che ha creato qualche piccolo problema anche a buona parte degli oltre ottanta visitatori, sono stati l’oggetto di un escursione organizzata dalla sezione di Palazzolo Acreide dell’Ente Fauna Siciliana, avvenuta domenica 19 novembre 2006 sotto la guida esperta di Paolino Uccello.
Insieme all’aspetto archeologico, rappresentato dalle abitazioni bizantine scavate nella roccia, ci si è anche soffermati all’osservazione degli aspetti naturalistici che questo territorio racchiude in se, particolarmente all’interno del bosco di Baulì che bisogna attraversare per giungere fino ai ddieri.
L’area, come molte altre presenti nell’altipiano ibleo, costituisce un S.I.C. ovvero un sito di importanza comunitaria e pur tuttavia non è soggetto a protezione se non per alcuni vincoli di tipo puramente legislativo.
Il bosco di Baulì permette di avere una visione di come fosse la copertura boschiva in Sicilia fino a qualche secolo fa’, in quanto ha mantenuto più di altre la caratteristica di boscosità che poi è mancata nel resto dell’altopiano ibleo, interamente ricoperto da querce ed in particolare di lecci, specie predominante nei boschi siculi.
Non si tratta di un bosco naturale, quanto piuttosto di una leccetta governata fino ai primi del secolo con un tipo di taglio denominato ceduo, mentre ai margini venivano lasciati i ceppi per la produzione delle ghiande, da cui il nome di ceppaia.
Il riferimento alle querce è rimasto nei modi di dire tipici della civiltà contadina, in termini dialettali una persona ambigua veniva indicata con il detto “nun si né ilici né ceccia” indicando che non era né leccio (sempreverde) né quercia (caducifoglie), come dire che non era né carne né pesce.
Il toponimo Baulì o Bauly, è quasi certamente di origine araba e secondo alcuni studiosi sembra risalire alle parole “Abu-Ali” ossia, “Padre di Alì”, probabilmente in riferimento a qualche abitatore o proprietario della zona di appartenenza araba. Secondo altri risalirebbe al termine Baulef, certo è che in alcuni documenti risalenti al periodo arabo, il sito veniva chiamato “Rahalbalata” che significa “casale rupestre”.
La cava d’origine miocenica, risalente a 15-20 milioni di anni fa’, è stata scavata dall’erosione dell’acqua e prende il nome anch’essa dal bosco, come per i ddieri in essa presenti.
Plasmata dalle mani dell’uomo nel corso dei secoli, conserva degli importanti quanto sconosciuti tesori archeologici, naturalistici ed etnoantropologici. Inoltre, sia a motivo dell’inaccessibilità che dell’essere stata il rifugio di briganti, l’area è argomento di numerose leggende locali che fanno riferimento a tesori nascosti e spesso anche protetti da incantesimi e magie, si tratta di un fenomeno comune a molte altre aree negli Iblei. Non c’è infatti posto di questo altipiano calcareo che non abbia la sua travatura, con tutti i relativi rituali per togliere l’incantesimo ed entrare in possesso del tesoro ovvero spignarlu.
Distribuite dentro il bosco troviamo diverse carcare, poiché la produzione della calce insieme a quella del carbone erano le attività più importanti che si svolgevano nel nostro territorio.
La fontana di Baulì, che da il benvenuto prima di inoltrarsi nel bosco, è importante dal punto di vista naturalistico perché da questo punto nasce il fiume Manghisi che non ha un grosso bacino imbrifero, il suo corso è alimentato solo da sorgenti e da tre affluenti in particolare, il fiume S. Marco, il fiume Arco e la fontana Sguerra, presso Testa dell’acqua. In contrada Presa il flusso idrico viene captato interamente quindi i famosi laghetti di Cava Grande sono dovuti semplicemente a tutta quella miriade di sorgenti che lo alimentano lungo il suo percorso.
Nel bosco troviamo diverse piante tipiche della macchia mediterranea, oltre ai lecci sono presenti le roverelle, i salici e i frassini, in quanto ci troviamo in ambiente abbastanza umido. È presente anche l’alloro o lauro, molto caro ai romani che così chiamarono il picco più alto dell’altipiano a motivo della grande abbondanza di questa pianta. Insieme al frassino e al terebinto, in primavera l’alloro si bruciava per allontanare i serpenti dalle case, seguendo precisi riti apotropaici di tipo propiziatorio o di protezione. Non bisogna dimenticare che gli elementi basilari per la vivibilità di un luogo erano principalmente tre: la presenza di terra da coltivare per ottenerne cibo, la presenza di fonti di acqua in grado di consentire la sopravvivenza e la coltivazione e l’assenza dall’area abitata di serpenti ed altri animali velenosi. Attorno a questi tre elementi ruotano molti dei riti apotropaici, spesso adattati alla religione cristiana e quindi legati al culto del santo locale; in questi luoghi la protezione dagli animali velenosi viene affidata a San Paolo apostolo, forte anche di una tradizione di origine maltese, dove avvenne l’episodio del morso della vipera al santo.
Sono presenti anche varie specie botaniche minori come il biancospino, la nepetella, l’allyssum, la bardana, l’acanto, il pungitopo, le margherite dai riflessi rossastri, i fiori di zafferano selvatico ed i ciclamini con il loro particolare sistema di interramento del seme operato dalla stessa pianta al fine di garantirsi la sopravvivenza. Difficile incontrare la fauna di grossa taglia come volpi, istrici, donnole, biacchi, gufi, falchi, ecc. mentre è più facile imbattersi nella fauna di piccola taglia come farfalle, libellule, scarafaggi ed altri insetti, soprattutto durante il periodo estivo.
Il feudo di Baulì è ricchissimo anche di tracce etnoantropologiche, viene infatti ricordato spesso nei riferimenti toponomastici per via del grande pozzo che dava acqua agli abitanti del luogo e ai loro armenti, oggi caduto in disuso e coperto fino all’orlo da sassi e vegetazione.
Tra le più antiche testimonianze documentate dell’uso antropico del luogo, spicca la torre di epoca greca posta in cima alla valle con l’obiettivo di controllare e difendere le contrade sottostanti di cui oggi rimangono solo rovinose tracce, costituite dai megalitici conci calcarei delle fondamenta. Nascosti dalla vegetazione anche i resti di una antica villa Romana che nel tempo hanno influenzato il toponimo del luogo denominato appunto “cuozzu rumanu”.
Tuttavia l’aspetto più rinomato, affascinante e singolare conservato gelosamente dalla cava sono i ddieri, che derivano il loro nome dal toponimo arabo diyâr, abitazione, tesi avvalorata anche dal fatto che i templi scavati nella roccia presenti nella città di Petra vengono indicati col termine el ddier.
I ddieri di Baulì sono un grosso agglomerato rupestre scavato interamente nella roccia costituito da tre nuclei: il Ddieri grande, il Ddieri piccolo e il Ddieri o’ rimitu.
Risalenti all’epoca bizantina, al IV-V secolo d.C. secondo Paolo Orsi e Gaetano Curcio, furono realizzati per accogliere gruppi numerosi di abitatori, probabilmente comunità religiose: quello grande poteva contenere fino a circa 50 persone, inoltre la struttura del primo ambiente è quella tipica delle chiese rupestri bizantine.
Definire abitazioni rupestri queste perle di ingegneria articolate e complesse sembra alquanto riduttivo, i primi due complessi abitativi, il “ddieri grande”, il “ddieri piccolo”, sono scavati nella tenera parete di roccia calcarea rivolta a Nord-Est, mentre il “ddieri dell’eremita” quasi a sottolineare il nome, si trova in posizione isolata nella parete opposta e rivolta a Sud-Ovest.
Lo studio approfondito di queste strutture è molto recente e si deve ad un geometra che qualche decennio fa ne ha effettuato i rilievi: il ddieri grande presenta ben 21 ambienti abitativi, distribuiti su tre livelli, mentre il ddieri piccolo ha due elevazioni ed è composto da pochissimi ambienti.
Il primo ambiente del ddieri grande è certamente una chiesa in stile bizantino, rinveniamo infatti l’iconostasi che separava l’officiante dai fedeli, abbiamo soprattutto una finestrella da dove il prete somministrava il corpo di Cristo ai credenti poiché non potevano assistere al rito sacro, l’iconostasi serve ancora oggi a questo in oriente, nel rito ortodosso ci sono tutte le icone davanti che separano i fedeli dall’officiante. La chiesa probabilmente doveva apparire tutta affrescata benché adesso non ve ne sia traccia, tuttavia le pareti molto appiattite fanno propendere verso questa ipotesi. Le chiese bizantine sono sempre state affrescate con immagini sacre, gli affreschi generalmente rappresentavano la vita o il volto dei santi in una processione che di solito finiva con un Cristo in trono o con una Madonna. La Sicilia non partecipò all’iconoclastia, infatti molte delle chiese furono affrescate da monaci che venivano dall’oriente durante le persecuzioni iconoclaste.
Nella camera dietro l’iconostasi sulla sinistra si trova il resto di un rudimentale subsellium dove si sedevano l’aiutante dell’officiante, normalmente vi erano due subsellia uno sulla destra e un altro sulla sinistra, poi nella parete a destra si può notare un accenno di abside probabilmente mai concluso, nel primo ambiente si trova anche un’acquasantiera.
In ogni ddieri c’è un posto che chiamano il romitorio, un luogo di preghiera costituito da una balconata sul dirupo, gli anacoreti una volta la settimana accoglievano le persone e vi parlavano, non erano immuni a questa pratica neanche i re, lo stesso Costante II prima di approdare in Sicilia parlò con due eremiti considerati santi, quindi messaggeri divini.
Il secondo piano sempre nel ddieri grande, raggiungibile attraverso una scala mobile in legno, presenta una stanza con delle incassature nella parete, si suppone fossero dei silos per derrate alimentari in quanto non sono state impermeabilizzate con colate di malta per cui non potevano essere impiegati per immagazzinare l’acqua.
La presenza di parecchi fori nelle pareti fa pensare agli usi più svariati, per appendere le torce mediante un gancio, per la stagionatura dei prodotti, per caviglie dove appendere vari oggetti.
Il terzo livello invece presenta un piccolissimo ambiente forse utilizzato come torre di osservazione.
Per scavare la roccia con molta probabilità veniva usata la tecnica del calcinamento, cioè accendevano fuochi per sbriciolare il calcare, ma indubbiamente questo richiedeva tempi lunghissimi.
Venivano anche accesi dei fuochi all’interno degli ambienti per riscaldamento e cottura, vi erano anche dei buchi, una sorta di finestrelle per far uscire il fumo ed entrare la luce, tutto era razionalizzato al massimo. Certo è che la vita vi si svolgeva principalmente la notte in quanto di giorno erano dediti al lavoro nelle campagne.
I Ddieri costituiscono una vera e propria fortezza: situati in zone aspre e su più piani, ricavati nelle pareti verticali della roccia e protetti da fittissima vegetazione nonché da punti di discontinuità fra i differenti ambienti, testimoniano l’assillo della difesa che attanagliava il popolo costruttore costretto a fuggire dalla costa.
[ Da Daniele Italia e Giuseppe Mazzarella, “L’enigma dei “Ddieri di Baulì”: viaggio tra i misteri delle popolazioni rupestri iblee”, pag. 2 del bimestrale « Grifone » n. 1 (85), Anno XVI, del 28 febbraio 2007 ]