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Dicono di lui
Salvo Puzzo Salvarte - ARTE SACRA NEL SILENZIO DI DIO
di Sergio Turtulici
"Fare arte dopo la morte di Dio". Così titolavo la mia recensione di un affascinante saggio, pubblicato nel 2007, di Massimo Recalcati, psicanalista, docente di psicologia dell’arte. Nel testo di quell’articolo richiamavo la scansione temporale che Flavio Caroli ha fatto della storia dell’arte, dal medioevo ad oggi, schematizzandone la divisione in tre grandi snodi di età: medievale o del cristianesimo trascendente, moderna o del cristianesimo umanistico, contemporanea o dell’immanenza, non più cristiana. E’ possibile ancora l’arte sacra oggi, mi chiedevo, dopo la folgorante affermazione nietzschiana ,"Dio è morto! E l’abbiamo ucciso noi", fatta ricadere sul presente nostro che, smarrite le orme del sacro, si è, in modo forse irredimibile, consegnato al nichilismo e al nonsenso, con le chiese, anche quella romana, che hanno dismesso la dimensione estetica del loro messaggio? Recalcati, che, nella prima parte del suo libro, mette a fuoco, alla luce della psicanalisi lacaniana, l’arte come codice linguistico del reale, organizzazione simbolica del vuoto, ricerca di relazione tra apollineo e dionisiaco, misura logica e formale nel caos e nell’informe abissale della natura umana, nella seconda parte prende in analisi il lavoro di 6 grandi artisti del 900, tra i quali William Congdon (1912-1998),americano della scuola di New York dell’espressionismo astratto. Convertitosi al cattolicesimo, il pathos esistenziale espresso nell’action painting a fianco di Pollock e di Rothko, Congdon lo calò in una pittorica theologia crucis, ultimo grande artista del sacro della scena internazionale. Il Crocifisso che interessava Congdon era il Cristo del sabato santo, giorno della sepoltura di Dio, indice di un tempo sospeso, giorno del nascondimento e del vuoto. E’ la lettura teologica di Papa Ratzinger, fa osservare Recalcati. Benedetto XVI l’ha ribadita davanti all’ostensione della Sindone a Torino, in questi stessi giorni in cui metto giù il profilo critico di Salvo Puzzo- Salvarte (Siracusa, !940), pittore che non è azzardo critico accostare, per qualche verso, all’americano.
Una vena di espressionismo connota da sempre la ricerca pittorica di Puzzo. Non la chiamerei astratta, aniconica, e non mi sembra affatto classificabile come informale. Espressionismo astratto, informale erano categorie dell’arte del dopoguerra, connotate, qualche storico ha scritto, da "estetiche calde", "astratti furori" segnici o gestuali di artisti che venivano da due guerre mondiali, due orribili totalitarismi. Quelle di oggi sono "estetiche fredde" o meno calde, segnate, purtroppo, da ormai consolidato disincanto, maggiore cinismo. E tuttavia, nella rivendicazione costante della tenuta formale, dell’eleganza dell’opera di pittura, una libera ibridazione linguistica, un gioco di slittamenti di tecniche e cifre stilistiche ha connotato, lungo le fasi di una ricerca di quasi 50 anni, il lavoro di Puzzo. Modulazioni espressionistiche e surrealiste, tese a configurare insieme realtà e meccanismi del sogno, dell’inconscio si sono avvalse ora di misurati rimandi cubisti, ora di esperienze sui materiali del Nouveau réalisme. Quel tanto di cifrario espressionistico che appare nel suo linguaggio è dato dal volto deformato del visibile che vi si manifesta e da un dominio di timbrismo cromatico, di campiture di tinte pure. Colori caldi, accesi, nelle prime stagioni del lavoro dell’artista. Perché se l’ estetica era, e resta, in qualche misura raffreddata, la tavolozza di colori era decisamente calda, da siciliano. Vale a segnare, pur nella medesima narrazione pittorica che i due pittori fanno della kenosis, l’annientamento di Dio che, nel suo amore folle, ha assunto la debole carne e il dolore dell’uomo, la differenza di linguaggio tra un artista come Congdon e il siracusano quanto osservava Achille Bonito Oliva a proposito del conflitto tra astratto-concretismo e neorealismo sociale del dopoguerra: la dialettica tra "un puritanesimo nordico, europeo e americano, spinto verso un approccio al mondo più ritenuto, sofferto, più progettuale e mentale e una tradizione, seppur alla lontana, cattolica, mediterranea, tesa verso un approccio alla realtà ambiguo ed erotico, carnale, maliziosamente terreno". Per la verità, a proposito di questa tradizione mediterranea il critico salernitano si riferiva al suo campione, Guttuso ma le prime tavolozze di colori del siciliano di Siracusa esplodevano di cromatismi caldi, rossi, gialli, aranciati, sensuali, decorativi talora, come quelli del siciliano di Bagheria. Poi, quando la ricerca e l’immaginario del nostro pittore hanno virato decisamente sul terreno dell’arte sacra, il colore è cambiato. Come la nebbia si era fatta calligrafia del silenzio nella stagione di Assisi del Congdon convertito nel 1959, così anche è venuta scalando gradazioni nere di caligine la tavolozza di Puzzo, con la figura del volto di Cristo, del Crocifisso a squarciare di lampi di luce, di flash lividi e inquietanti il buio della pittura. "Lux lucet in tenebris", nel silenzio del sabato dopo la croce. Ora gli interventi in rosso, le ricerche di pittura plastica e di scultura-pittura, modulate sul tridimensionale della poetica oggettuale, le combustioni e fratturazioni della materia sono simbologie del sangue, della frantumazione esistenziale, i crocifissi dipinti sul piano della tela o in rilievo plastico non riflettono la gloria della risurrezione promessa, quanto la lacerazione della sofferenza espressa nell’identità tra il corpo di Cristo e la croce, l’ombra e lo sconcerto della morte sospesi nel "sabato della storia". Linguaggio tecnico-formale, segno e colore dell’artista siracusano tendono decisamente all’espressionistico ora. L’icona dolente dell’uomo crocifisso, Dio svuotato di sé per assumere, riscattandola, l’insignificanza della condizione umana, è smagrita ad ombra, corpo contorto nella pena, ridotto a un filo, nella maniera di un grande espressionista, Giacometti. La felicità coloristica di passate stagioni, quando il colore timbrico era steso in campiture di tinte pure, primarie, araldiche quasi, si è abbuiata, raffreddata, se pur sempre carica di pathos, come se, nello scoramento vitale, il pittore avesse spento la solarità "siciliana". Freddi, distanzianti, mescolati e sovrapposti nei complementari, desaturati tagliandoli con il nero, i colori del cielo, campo della figura dipinta, precipitando nel cuore di tenebra, acquistano le note di tristezza struggente che diceva Kandinsky, il segnale cromatico delle ombre interne che oscurano l’animo umano. "Passio Christi, passio hominis", ha detto, in questo 2010, davanti alla Sindone il Papa a Torino. A proposito della simbologia sindonica alla Biennale di arte sacra di Celano nel 1989 alcune tele del pittore siracusano, macchiate di interventi rosso-sangue, erano presentate senza telaio, come il sudario conservato a Torino. Si può essere credenti o no. Pure un dato è incontrovertibile. Da che Dio è out, cancellato dal comune sentire del secolo, è tramontato ogni Nomos della Terra, l’insicurezza, il brancolamento esistenziale sono la costante del vivere e convivere (moderno o postmoderno, che dir si voglia). Pittori come Congdon, come Puzzo, aprono, con gli strumenti dell’arte visiva, laiche epifanie nel tempo dell’oscurità, di una solitudine umana confusa nella folla che appare assoluta.