Forme del mito
mostre 2007
LEFORME DEL MITO
LE FORME DEL MITO
Corrado Di Pietro
Il Mito è essenzialmente una storia di dei e di semidei che hanno compiuto gli atti primigenei della creazione e della ri-creazione; anzi il mito è la storia per eccellenza che narra l’essenza dell’universo, della sua nascita e del suo divenire.
Etimologicamente significa ‘discorso’ e viene dal greco mythos che non poco ha in comune con logos: i due termini rimandano alla parola, alla narrazione, al cuore stesso del pensiero che prende forma e si esprime. E il pensiero scaturisce dall’idea e dall’intuizione, le quali si presentano all’uomo per spiegare tutto ciò che non si può capire, che non si può vedere e che non si può neanche immaginare.
Bronislaw Malinowski definisce il mito come “la resurrezione in forma di narrazione di una realtà primigenia, che viene raccontata per soddisfare profondi bisogni religiosi, esigenze morali, …” e Mircea Eliade, quando parla del ‘sacro celeste’ , nel suo Trattato di Storia delle Religioni, è ancora più esplicito, a proposito dell’Essere Divino, fondatore di ogni cosa: “Quel che non ammette alcun dubbio – scrive l’antropologo rumeno – è la quasi universalità della credenza in un Essere divino celeste, creatore dell’Universo e garante della fecondità della terra (grazie alle piogge che versa). Questi Esseri sono dotati di prescienza e sapienza infinite, hanno instaurato le leggi morali, spesso anche i rituali del clan, durante la loro breve dimora sulla terra; sovrintendono all’osservanza delle leggi, e fulminano con la folgore chi le viola.”
Quindi, prima che nascessero la scienza e la speculazione scientifica e prima anche della stessa filosofia, nacquero i miti e i simboli ad essi collegati. L’uomo costruì grandi architetture di pensiero mitologico e i moderni studi di antropologia e di religione ci hanno fatto conoscere la ricchezza mitologica di innumerevoli popoli che hanno generato culture e civiltà nel grande flusso della storia del genere umano.
L’uomo, dicevamo, ha raccontato con immagini e con poesia la nascita dell’universo e la sua stessa creazione sulla terra. Null’altra spiegazione poteva trovare l’uomo primitivo se non quella di una immediata personificazione della natura (il sole, le stelle, la vegetazione, il mare, il cielo ecc.) o degli stessi sentimenti come l’amore e l’odio, la sete del potere e della conquista.
La mitologia di tutti i popoli, oltre all’Essere Celeste primigenio non di rado è arricchita da un contorno di altre divinità che sovrintendono ad azioni umane (la caccia, la corsa, il combattimento ecc) o a fenomeni naturali.
Nell’affollato panorama mitologico possiamo enucleare almeno due grandi ambiti: l’ambito cosmogonico della creazione dell’universo in tutte le sue forme e l’ambito della ri-generazione, nel quale l’atto della creazione si ripete e si concretizza. La maggior parte dei miti si svolge in questi due scenari, strettamente collegati, e si svolge in un tempo senza tempo, all’inizio del tempo stesso, in illo tempore, in quel tempo in cui l’uomo non era ancora comparso sulla terra e le forze della natura, così antropomorfizzate, si combattevano e si confrontavano nel grande Caos del Cosmo.
Poi i miti si degradarono, acquistarono in qualche modo la dimensione della storia; ciò avvenne con l’uomo, con i racconti popolari e con le spiegazioni ch’egli dava per ogni ierofania o per ogni altro evento naturale. I miti diventarono leggende e le leggende facilitarono e spiegarono l’appartenenza ai clan, alle tribù, ai popoli, alle etnìe. Ogni popolo si riconosceva in un sua propria mitologia e attraverso le leggende costituiva l’ordine morale e sociale del clan; regolamentava i rituali sacri che onoravano le divinità, sanciva le leggi del clan e i comportamenti individuali, accettava la morte stessa come trapasso fra due stati di natura in cui quello dell’aldilà era certamente il più durevole e il più felice.
Quindi il Mito ha avuto anche una funzione didattica e pedagogica, oltre che morale e normativa. Ma non meno importante è lo stimolo che il Mito ha esercitato sull’immaginario individuale e collettivo. Bisognava in qualche modo rappresentare la leggenda per farla capire e ‘vedere’ dagli altri, per rendere esplicito ciò che era mera intuizione e per inserire poi questa immagine, sotto forma di simbolo, nelle complesse liturgie sacre. E quale migliore veicolo di rappresentazione poteva esserci se non quello artistico e poetico?
Quasi tutta la storia dell’arte dei popoli di ogni latitudine è gravida di immagini mitiche o religiose, di rimandi a cosmologie e ierofanie, di rappresentazioni del divino e del sacro, di riferimenti a dèi che salgono e scendono dal cielo per entrare nella storia dell’uomo; la pittura e la scultura non sono altro che le forme stesse del mito, almeno per gran parte della storia umana, fino a quando cioè il mito non viene ancora degradato e diventa simbolo. Nascono così i simboli di oggi e capiamo allora che il mito cammina nel tempo e che ha lasciato il suo antico alto scranno per viaggiare con l’uomo e stuzzicare la sua curiosità, la sua intelligenza, ma anche la sua passione e non di rado anche il suo egoismo.
I miti moderni sono tanti: la Ferrari, simbolo della potenza tecnologica e del benessere, Marilyn Monroe, simbolo della perenne bellezza, Elvis Presley, simbolo e Mito di tante generazioni di giovani che hanno cercato di identificarsi con lui, ma anche Hitler ed Auscwitz sono simboli moderni del male e delle abiezioni più profonde cui può giungere l’uomo. Quindi il Mito continua il suo cammino nella storia, anche se si è allontanato dal sacro e si è mondanizzato.
E l’arte e la poesia lo seguono anche in questo cammino, lo rappresentano e lo cantano perché senza di esse non potrebbe diffondersi e rialzarsi di nuovo verso i confini dell’immaginazione.
Terra di miti fu la Grecia e con essa tutte le culture del mediterraneo che ebbero un qualsiasi contatto con la terra di Olimpo.
E fra queste culture, la più alta espressione la riscontriamo in Sicilia, dominata per cinquecento anni da Siracusa, la magnifica, e per altri cinquecento da Roma, la potente. Siracusa e Roma furono tributarie di Atene e della sua complessa religiosità olimpica, anche se anch’esse elaborarono concezioni mitologiche proprie. Queste tre città, Atene Siracusa e Roma, concepirono una mitologia antropomorfica, e spiegarono ogni fenomeno naturale e sociale con leggende legate a nascite e morti di dei e di semidei, a trasformazioni di uomini e animali in esseri divinizzati. Sono nati così le storie complesse e intriganti di Artemide e di Dioniso, le multiformi immagini di Proteo, la passione amorosa di Alfeo, l’amore tragico di Ciane e la misteriosa creazione del labirinto dove il Minotauro pretendeva i sacrifici umani.
Se qui dunque sono nati molti miti e se qui molte credenze religiose ancora vivono sotto altre più sofisticate spoglie, allora bisogna chiedersi cosa possiede di tanto sublime e di tanto luminoso questa terra di sole e di antiche risonanze. Forse è la natura di questa gente, nata per filosofare e per poetare, che dipana il filo religioso che lega terra e cielo; la natura e l’indole dei siciliani e dei greci.
La mostra sul mito che abbiamo voluto allestire con gli amici scultori Nello Benintende, Gianfranco Bevilacqua e Giuseppe Giardina, ha proprio questo intento: dipanare quel filo religioso attraverso la rivisitazione degli antichi miti greci e siciliani, riproposti artisticamente con una sensibilità nuova e moderna, verificando se sono ancora capaci di appassionare e di emozionare gli artisti di oggi, così smaliziati e distanti dal vecchio classicismo formale.
A giudicare dai risultati pare proprio di sì; i miti possono ancora parlare agli artisti se non altro come forza ispiratrice di concetti e di simboli che ancora si dibattono nel quotidiano groviglio delle passioni.
E possono parlare anche al pubblico moderno, perché raccontano storie perenni, paradigmi eterni di una filosofia della vita e di una morale sociale.
I tre artisti che presentiamo hanno lavorato per parecchi anni su questo tema; e io con loro. Ci siamo confrontati e abbiamo molto discusso sui simbolismo mitologico e sui temi da trattare. Queste opere sono dunque il frutto di una ricerca formale e filosofica, oltre che antropologica e religiosa. In ogni opera ci sono almeno due letture da fare: una di tipo estetico che ci informa sugli stili e sulle concezioni artistiche di ognuno; un’altra di tipo simbolico che ci riporta ai vecchi e perenni motivi antropologici dei miti ai quali queste opere rimandano. Su questo duplice piano tenterò di muovermi nel presentare ognuno di questi autori.
NELLO BENINTENDE
Il primo di questi tre artisti è legato all’aria. Un alito d’aria, un battito d’ali, una leggiadria di forme, una serena armonia di linee, un’emozione eterea; così ci appaiono le sculture di Nello Benintende. E così, sospese tra l’aria e la terra, attraversate dalla luce che evidenzia la materia, ogni scultura ci racconta di un’arditezza di pensiero e di stile che avevamo dimenticato nel groviglio delle forme astratte e prive di senso, nel buio d’un pensiero senza emozioni.
Il Mito, come ce lo racconta Benintende, ha tratti umani e spesso caratteristiche morali: Narciso che si specchia lo vediamo come un mezzo busto ribaltato e ci sembra di individuare in questa forma duplice e simmetrica l’ambivalenza stessa della natura umana, tesa fra gli opposti punti focali: bene e male, amore e odio, vanità e trascuratezza, bellezza e bruttezza.
Eos , il Ratto di Europa, Filemone e Progne, Icaro ed altre sculture si librano nell’aria come strutture in cui la materia si contorce e si flette, gira attorno al vuoto e dà corpo alle forme e si fa messaggio e storia. Qui si racconta di umanissime ambizioni: l’aurora che schiude le porte del giorno (Eos), l’ingenuità di Europa che cedette alle lusinghe del toro-Giove, la salvifica trasformazione di Filomela e Progne in uccelli e la caduta di Icaro nel gorgo stesso della sua superbia.
Benintende sa cogliere la significazione più intima di questi miti, il momento del passaggio fra lo stadio della felicità delle ninfe e dei semidei a quello della loro trasformazione-caduta-morte-rinascita; è questa la metafora della vita stessa in cui il destino gioca in una continua altalena di cadute e di rinascite e ripercorre nell’ambito dell’esperienza individuale la stessa esperienza dell’universo. È la lezione più alta del Mito, il paradigma di tutte le storie, singole e collettive, che fa da modello, ancora oggi, ai desideri e ai sogni più sfrenati dell’uomo.
Questa lezione è più esplicita nelle opere in cui emerge l’ellissi, o dove il disegno si dipana in anelli, ovali, contorcimenti e avvolgimenti di linee che invitano lo spazio a esaltare l’arditezza strutturale. Nell’ovale nascono uomini e uccelli, maternità e forme astratte: forme che rimandano a vari simbolismi. Vale per tutti “Il Ratto di Deianira Il” in cui nell’ovale puoi racchiudere le braccia e la testa dell’uomo nonché le zampe del centauro; tutta la figura è inclusa in linee curve invisibili e pur tuttavia ben presenti nella concezione strutturale; quel centauro è il simbolo stesso dell’uomo che vuole evadere dalla sua natura animalesca, la parte umana è fortemente protesa verso l’alto e sembra uscire dal corpo dell’animale. Eppure tutto rimane chiuso in un involucro invisibile ma resistente. Come non si può pensare alla doppia natura dell’uomo, al dottor Jeckill e a mister Hyde?
Ma anche in Sisifo la lezione di Benintende si fa esplicita: quest’opera, ricavata da un tronco di nespolo di circa 60 cm., ha una forte simbologia che vale la pena di spiegare. Sisifo, come si sa, per avere imprigionato la morte, venne condannato a spingere verso la sommità di un colle un grosso masso, ma, giunto in cima, il masso gli sfuggiva di mano e rotolava verso terra, in eterno. Lo scultore ha reso l’eternità e la montagna con una forma alta, allungata, raffigurante il numero 8, contorto e spiraliforme, sulla cui superficie il possente Sisifo spinge un masso rotondo. Come si sa il numero 8 rappresenta l’infinito e l’eterno e l’uomo-Sisifo spinge in questa strada senza partenze o arrivi, il peso della propria esistenza.
E dal taglio ovale di un tronco d’albero nasce Gea, la madre terra, la natura che ci sostenta e ci governa. Così come in un ovale è racchiusa la danza de “Il Satiro e la Ninfa”, tratteggiata e stilizzata fino a una trasparenza di forme che con la terra hanno solo un piccolo insignificante punto di contatto.
Un discorso a parte merita Proteo, una scultura in gesso patinato in bronzo, alta circa 130 cm e realizzata a tutto tondo, in un groviglio di forme che si fondono in una mostruosa molteplice figura d’uomo e d’animale. Proteo si trasforma in numerose creature orride per spaventare coloro che gli chiedono un vaticinio e Benintende ha dato qui sfogo a tutta la sua geniale inventiva: corpo d’uomo e testa d’uccello rapace, coda di scorpione e gambe di serpente; nella parte bassa del corpo si staglia una testa di pescecane e due grandi ali di pipistrello sollevano Proteo nel cielo come un’aquila che spicchi il volo. Nelle mani porta un lazo raccolto con un cappio roteante teso al lancio verso il malcapitato che osa rivolgergli la parola. La superficie del corpo è resa con un tormentato tessuto squamoso o crespato, ispido al tatto, orripilante all’occhio.
Proteo è il compendio di tutte le nostre più orribili fantasie! La scultura è ardita e slanciata verso l’alto, dinamica e appuntita in ogni sua parte; Benintende coglie l’attimo più terrificante dell’ira di Proteo, il momento del lancio del lazo e della sua più articolata trasformazione; lo sorprende nell’estremo atteggiamento del male, quasi conquistato da quel malefico sembiante che racchiude dentro il corpo squamoso tutte le pulsioni maligne.
Proteo si può considerare la sintesi della visione artistica di Benintende: stilisticamente ripercorre l’esperienza maturata dallo scultore di Buccheri in molti anni di insegnamento e di riflessione sull’arte; dal punto di vista compositivo infatti dobbiamo riconoscere nelle sculture che presentiamo un richiamo di diverse esperienze artistiche del novecento: dal metafisico al surreale, dall’arte povera all’informale; un cammino che ha portato Nello Benintende verso un’originale elaborazione delle sue istanze artistiche, sviluppando forme che giocano con i volumi sempre con estrema felicità stilistica. Di forte suggestione, in questo senso, è la “Cerva di Cerinèo”, realizzata con la struttura metallica di una bicicletta, fortemente armonica e originale nella composizione, così come di moderna concezione è anche Colapesce, realizzata con strisce di metallo colorato fluttuanti come le onde del mare, al quale rimandano.
Dal punto di vista concettuale Benintende si rifà a quel gusto dell’essenziale che lo contraddistingue anche nella vita pratica e a quel sentimento dell’invenzione fantastica che rappresenta la sua cifra più autentica. Egli non è solo uno scultore ma un geniale “inventore” di marchingegni e di attrezzature che gli risolvono tanti piccoli problemi quotidiani; un sapiente conoscitore di tecniche di falegnameria, di idraulica, di elettricità, e di tante altre cose che si possono trovare nel suo laboratorio che somiglia a quello del noto personaggio disneyano Archimede Pitagorico. Forse è proprio questa sapienza tecnica che gli consente di giocare con l’aria più che con la massa materica, dando alle forme delle sue opere quel senso della levità che le rendono ardite e leggere.
Molte di queste sculture, come dicevamo, si appoggiano alla base tramite un solo punto di contatto e si sviluppano nell’aria in una visuale rotatoria e verticale, suggestiva nel continuo cambiamento delle forme tanto che, girandola, ti sembra di vedere una scultura sempre nuova e diversa da quella che avevi ammirato prima. Si tratta di opere spaziali e multidimensionali, generate da un gusto moderno e spigliato, tecnicamente ben realizzate e rese con un equilibrio di masse veramente incredibile.
I materiali utilizzati sono i legni (noce, mogano e pino), il gesso, che poi viene patinato, le lamiere, il marmo e la pietra; materiali consueti nella scultura e pur sempre affascinanti; materiali che abbandonano la loro amorfa esistenza per farsi messaggio e stile di un’arte carica di suggestioni.
Nella ricerca mitologica Nello Benintende ha trovato forti stimoli e appassionate pulsioni; questi hanno sollecitato la sua fantasia, stuzzicato la sua sfida, più delle istanze filosofiche e religiose che motivano le leggende mitiche, più anche del simbolismo che il Mito porta sempre con sé; Benintende si lascia guidare dall’estetica, dalle forme spaziali, dal flusso di vento che attraversa la materia.
GIANFRANCO BEVILACQUA
Il secondo di questi tre artisti è legato alla terra; la terra intesa come materia costitutiva delle sculture, tutte realizzate con la creta e avvolte da pepli e da sfoglie d’argilla cotta. Ma anche alla terra, nella sua avvolgente dimensione sensuale.
Bevilacqua affronta il Mito per temi o per percorsi simbolici: gli Dei, l’Amore e il Coraggio.
Gli Dei rappresentano la forza creatrice dell’universo, il motore della storia dell’uomo se è vero che entrano in tale storia e ne condizionano anche gli eventi. Così abbiamo Zeus ed Era, il Giove e la Giunone dei romani, le due divinità principali del panteon olimpico, dalle quali comincia una prolifera discendenza; e abbiamo anche la Nascita di Atena (Minerva) uscita in armi dal cranio di Giove, quindi dea della guerra ma anche simbolo della ragione e dell’intelligenza. L’abbraccio di Zeus (il cielo) con Era (la Madre Terra) viene reso con un flessuoso e sensuale incastro di corpi che si ergono da un masso squadrato, sul quale è appoggiata anche un’aquila, il simbolo regale per eccellenza; ci sono in quest’opera i contenuti stilistici più rappresentativi di Bevilacqua, sui quali ci soffermeremo in seguito. Ne “La Nascita di Atena” la testa di Giove è resa con una massa enorme che ci dà l’impressione di una montagna dalle cui viscere sorge la dea, amica dell’uomo.
Il secondo percorso simbolico e mitico ci porta nei territori dell’amore. Ben nove sono le sculture che appartengono a questo tema: Alfeo e Aretusa, Ninfa e Minotauro, Il Ratto di Persefore, il Ratto di Europa (due opere 1 - 2), Apollo e Dafne, Amore e Psiche, Medea, Orfeo ed Euridice. Rappresentano tutte il dramma dell’amore, il senso tragico della vita stessa e il sentimento appassionato che porta gli amanti a superare ogni tipo d’ostacolo. L’amore si unisce all’avventura e al pericolo, si trasforma e rinasce, fa accoppiare spesso le tre nature - quella divina, quella umana e quella animale -, porta alla follia e al delitto. Bevilacqua dà sfogo a tutta la sua arte e alla sua perizia tecnica. Due concezioni stilistiche si fronteggiano e si intersecano: quella solida e monumentale, sviluppata con masse volumetriche consistenti e pesanti (Alfeo e Aretusa, Il ratto di Europa, Medea) e quella leggera e avvolgente, sviluppata con volumi aerei e allungati (Amore e Psiche, Orfeo ed Euridice ecc.). È come se l’artista avesse voluto rappresentare in questo modo le antinomie dell’amore: la pesantezza e la gravezza della passione e la levità del sentimento e dei sensi. La passione porta all’annullamento della ragione in Medea che uccide i propri figli, mentre il sentimento d’amore porta alla felicità e alla danza, come in Amore e Psiche.
Il terzo percorso ci introduce nella dimensione più profonda della natura umana: il coraggio. Il coraggio appartiene alla sfera morale e psichica dell’individuo e le sue caratteristiche principali sono l’intelligenza, la forza, la volontà e l’ambizione. Il Mito greco, (ma anche i miti di altre culture) si è molto occupato di quest’aspetto, ritenuto dagli antichi la più alta espressione dell’uomo, quella che lo distingueva da ogni altra creatura e lo faceva assurgere spesso alla regalità. L’eroe diventa spesso re o addirittura lo si paragona al Dio stesso e gli si attribuiscono connotati sovrumani e gli si rendono grandi onori. Un nome per tutti: Eracle. E a Eracle Bevilacqua dedica ben quattro sculture, ispirandosi alle sue famose fatiche:Eracle e il leone Nemeo , Eracle e l'Idra di Lerna, Eracle e il toro cretese , Eracle e Anteo . Le prime tre sono sculture possenti, massicce, bloccate nello sforzo della lotta. Di grande forza espressiva appare la grande testa del leone stretta fra le robuste braccia dell’eroe, così come terrificante è l'Idra di Lerna, dalle molte teste di serpente che si aggroviglia al corpo di Eracle e a un tronco d’albero in un unico corpo scultoreo di estrema complessità formale, senza soluzioni di continuità fra le tre distinte forme.
Eracle e il toro di Creta ci riporta stilisticamente al leone Nemeo mentre la lotta fra il coraggioso Ercole con il gigante Anteo ha forme più leggere e più slanciate. Ma, come abbiamo detto, Bevilacqua si destreggia fra queste due concezioni stilistiche: la prima chiusa e compatta, la seconda aperta e aerea. Anteo viene sollevato in aria da Ercole e soffocato con la forza delle sue braccia; questo perché Anteo, figlio della Madre Terra, ogni volta che toccava il terreno riprendeva più vigore. È simboleggiata qui la perenne lotta fra l’intelligenza e la natura bruta. Ercole rappresenta l’intelligenza oltre che la forza poiché riesce con l’intelligenza a capire l’unico modo di potere uccidere Nemeo. Il gigante rappresenta la forza stessa degli elementi naturali, dei boschi e delle montagne, della terra che non è solo madre dell’uomo ma spesso anche divoratrice di interi popoli. Lo stesso discorso si può fare per l'Idra di Lerna ma anche per tutte le fatiche di Ercole il quale, da solo, (era questa l’unica condizione imposta da Euristeo), doveva sconfiggere i mostri che rappresentavano il male.
Le ultime cinque opere che dobbiamo trattare sono: Polifemo, Scilla, Il Vello d’Oro, Prometeo incatenato e Teseo e il Minotauro. Sono miti di forte interesse antropologico e culturale, i quali rimandano a una delle condizioni peculiari dell’uomo: l’avventura, ovvero la sete di conoscenza e di ricerca che ha portato l’uomo ad essere non solo il signore del mondo ma anche il signore della sua stessa storia. Bevilacqua ce ne dà una visione plastica a tutto tondo, ricca di risvolti formali che rimandano sempre all’intima essenza del mito che rappresentano. Lo scultore siracusano si sofferma sui particolari, sulla figura realizzata con certe sfumature espressionistiche di forte intensità. Vale per tutte Scilla, il grande mostro marino che mangiò sei dei compagni di Ulisse e che l’artista realizza con una libertà formale incredibile, suggestiva e potente.
Tutte le sculture di Bevilacqua hanno un fascino particolare. Egli conosce bene il giuoco di vuoti e di pieni e imprime alle sue sculture una flessuosità e una morbidezza di linee che ci riportano da un lato alla scultura classica e dall’altro al dinamismo della concezione futurista.
I corpi in movimento, le membra protese al cielo, i corpi allungati e vuoti, le vesti che si aprono in larghe pieghe che modellano le forme, tutto è mosso dall’aria che entra in queste sculture e pare che uno spirito creatore, soffio vento turbine, dia vita all’informe materia che si fa figura fluttuante nello spazio. Sono figure in creta monocroma, di un marrone caldo, colore della terra, di una serena eleganza, belle da vedersi e da girare da tutte le parti. E come non rilevare lo stretto connubio che s’instaura fra materia, forma e messaggio in quelle statue i cui corpi sono l’evoluzione stessa dei vestiti o viceversa, e la morbidezza della creta impasta con estrema libertà nature morte e vive, in un disegno fantastico di linee curve che aprono e chiudono intriganti spazi fra le forme circolari?
Bevilacqua è un poeta della creta e possiede uno stile maturo e armonico, fortemente espressivo e suggestivo. Egli teorizza la libertà assoluta della forma anche se condizionata dalla figura; ritiene che la realtà sia un continuum di forme che s’incastrano e si trasformano e che nulla abbia contorni definiti e netti; ci suggerisce un mondo di grande immaginazione, di fascinosi percorsi; crea suggestioni forti anche quando rappresenta figure dolorose e tenta una possibile poetica della bellezza. Tuttavia la lacerazione e il male fanno capolino da alcuni tagli misteriosi che di tanto in tanto feriscono le forme leggiadre e rompono l’armonia della circolarità che si stende sopra le figure. E’ l’immanente segno del dolore con il quale ogni cosa che vive deve confrontarsi.
Giuseppe Giardina
Il terzo di questi artisti è legato all’uomo, alla sua intelligenza e alla sua storia. Giardina ha una visione diacronica dell’esistenza e ripercorre, in una forte sintesi scultorea, racconti mitologici, simboli evocativi e riflessioni filosofiche.
Per Giardina c’è una storia dell’uomo che si degrada continuamente, fatta di cadute, dopo la creazione, intrisa di lotta e di sconfitte, dove il mito si fa icona stessa dell’abiezione umana.
A guardare tutte le sue opere si resta affascinati e smarriti, quasi inchiodati da una forza stilistica e culturale che ti ammutolisce, tanto è intensa la potenza espressiva delle immagini e dei riferimenti ai quali rimandano. Sono terrecotte smaltate o invetriate, patinate con tenui colori, infornate a gran fuoco per vetrificare la materia e renderla lucente e viva.
Giardina è un intellettuale inquieto e curioso; gli piace esplorare stili e generi diversi, misurarsi con ardite concezioni filosofiche e religiose (La Creazione del mondo e l’Universo dei pianeti, la Storia che racconta attraverso la mano dell’uomo e le Figure femminili degli artisti – simboli dell’eterno femminino), indagare le tecniche di realizzazione delle opere attraverso continui esperimenti dove la creta costituisce la materia prima e gli smalti, le vernici, il caolino, vestono le forme dando loro vivezza, lucidità, colore e movimento.
Tutte queste istanze le incontriamo pure nelle opere che presentiamo dedicate al Mito; non solo al mito greco-siciliano classico ma al grande mito che abbiamo costruito in tutti i tempi della storia umana, alle grandi conquiste e alle civiltà. Cos’è del resto la storia dell’uomo se non la storia stessa del mito che lo sollecita e l’accompagna nel tempo, che lo stimola verso la ricerca e la bellezza, che lo appaga nel suo bisogno di solidarietà col divino e col trascendente?
Di questa ricerca noi dobbiamo dar conto e Giardina, da parte sua, lo fa attraverso la sua arte.
Vediamo quali sono le tappe di Giardina in questa ricerca.
La prima sosta la dobbiamo fare incontrando un gruppo di opere che rimandano al peccato dei sensi: la lussuria, la passione, l’amore, la libido: tutte figlie di Eros! A questo gruppo appartengono: Afrodite, alla quale Giardina dedica più sculture in una ricerca formale che va dal classico al concettuale, emblema della sensualità e della femminilità, motore delle passioni umane più sfrenate; Alfeo e Aretusa, la storia di un amore negato e della nascita di una città, Siracusa, ma anche la storia di un sentimento che vince ogni ostacolo e che si fa vita; il Satiro, simbolo del senso artistico e in particolare della musica, degradato a uomo caprino; Leda e il cigno, la storia di un rapimento spinto dalla lussuria di un dio, Giove, che s’invaghisce della bella Leda e la stupra. In queste opere Giardina si sofferma con un senso di compiacimento e di eleganza. Le opere rimandano in parte a concezioni stilistiche di tipo tradizionale e in parte si rifanno a generi più moderni, novecenteschi, in una felice sintesi formale.
La seconda sosta la dobbiamo fare sulle sculture che rimandano alla storia dell’uomo e alle sue degradazioni morali: la colpa, l’astuzia, la superbia, l’inedia, la crudeltà. A questo gruppo appartengono: Edipo, col suo fardello di colpa e di disgrazie volute dal dio e quindi simbolo di una predestinazione quasi coercitiva; La fuga di Ulisse, omaggio all’astuzia dell’uomo che riesce a superare qualunque situazione; La vecchia Medusa, la cui superbia fu punita da Minerva, trasformando i suoi bei capelli in serpenti; La Notte, simbolo dell’abbandono e dell’inedia, placida dormiente a cui sfugge la vita; infine il Minotauro, visto attraverso la sua solitudine e la sua trasformazione-vestizione tragica. Di ognuna di queste opere si dovrebbe parlare molto, tanti sono i risvolti stilistici e simbolici che sottendono, tuttavia almeno di una dobbiamo dire qualcosa: il Minotauro. È presentato con due opere: la solitudine e la vestizione della maschera. In entrambe le opere la figura è quella di un uomo moderno, anzi nella vestizione si tratta proprio di uno di noi; il Minotauro è il simbolo stesso del male, del dolore umano, del destino tragico di singoli e di popoli. L’uomo di oggi quante volte indossa la maschera del Minotauro? E quante volte s’abbandona, in questa solitudine esistenziale, alla riflessione sui peccati che commette e che lo uccidono lentamente? Giardina ci ammonisce sui nostri comportamenti, ci supplica di toglierci la maschera del male e della cattiveria che indossiamo ogni giorno, e lo fa con la sua scultura travagliata, contorta, dinamica e spaziale. Queste terrecotte hanno qualcosa di elegante e di drammatico, un sublime contrasto fra la patina e la forma.
La terza sosta va fatta sulla dimensione religiosa, sul rapporto uomo-dio. È il peccato contro la divinità che viene punito con la morte. Prometeo, simbolo di una civiltà che vuole evolversi senza la presenza di Dio; Laocoonte, sacerdote troiano che si oppone a far entrare il cavallo lasciato dai greci dentro le mura della città e che muore, assieme ai figli, soffocato dai serpenti inviati da Poseidone; Icaro, la superbia dell’uomo che vuole accedere agli alti palazzi di Dio e che si brucia le ali e cade miseramente; La morte di un centauro, ovvero il buono e saggio Chirone, metà uomo e metà cavallo, che ferito accidentalmente da Eracle, muore sopra una roccia. Come si vede la morte rappresenta il denominatore comune di queste opere ma è in Prometeo che Giardina esalta maggiormente la sua tecnica e la cifra drammatica del simbolo. Prometeo è legato con una catena alla rupe, inarcato il corpo con le ossa del torace molto prominenti e le gambe ritorte verso il basso; un’aquila dal corpo frastagliato, orrenda e truce, gli mangia il fegato; le membra sono scarnificate e gli arti ossuti; il fuoco gli brucia accanto, rosso nel suo guizzo fiammeggiante, contro il pallido marrone di tutto il resto, unica nota di contrasto. Prometeo ruba agli dei il fuoco, simbolo dell’intelligenza e della genialità, ruba la spinta per progredire nella scala della civiltà, da sé solo, senza il consenso degli dei. Questa è la sua più alta bestemmia. E Giardina, per rendere visibile l’affronto e la superbia del Titano, distrugge ogni traccia del corpo di Prometeo; lo fa diventare pietra, come la roccia che lo trattiene, lo rende arco legato e non più aperto verso le tensioni celesti. Immagine tremenda della più alta caduta!
C’è infine un’opera che racchiude e trascende tutte le altre: l’autore l’ha chiamata 11 settembre 2001 ma il suo sottotitolo è più emblematico, Il Mito trafitto. È una torre alta una cinquantina di centimetri, un parallelepipedo di terracotta smaltata d’un azzurro chiaro, scolpita da tutti i lati, suddivisa in piani dove in ogni striscia si sviluppa il racconto della civiltà occidentale: arte, storia, conquiste, religione, teatro, grandi città, lavoro e pensiero. Sembra una torre di Babele e nel mezzo ecco un aereo conficcato, come una freccia che oltrepassa quel corpo e che ne uccide la stessa anima. La ferita riguarda la nostra stessa civiltà, il più grande mito, sempre attuale, della storia dell’uomo che si sviluppa nel tempo. Abbiamo costruito le più alte forme di organizzazione sociale e urbana, abbiamo realizzato opere colossali di architettura e d’ingegno, abbiamo attraversato tutti i mari e i cieli esplorando e appropriandoci del mondo, abbiamo costruito la grande utopia del benessere e del potere; poi è bastato un aereo per abbattere il simbolo stesso di questo mito. L’11 settembre è la sconfitta stessa dell’uomo, della sua intelligenza e della sua coscienza.
Giardina, in questo monoblocco d’argilla, raggiunge esiti alti e significativi nella ricerca formale e contenutistica; il modellato si sviluppa lungo piani che non di rado s’intersecano quasi a espandere i simboli oltre il loro tempo e la loro dimensione, la mano appare sempre sicura e sapiente e il risultato è impressionante nella sua dolorosa rappresentazione.