Forme del mito - galleria roma mostre

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
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Forme del mito

mostre 2007
LEFORME DEL MITO

LE FORME DEL MITO



Corrado Di Pietro

Il  Mito è essenzialmente una storia di dei e di semidei che hanno compiuto  gli atti primigenei della creazione e della ri-creazione; anzi il mito è  la storia per eccellenza che narra l’essenza dell’universo, della sua  nascita e del suo divenire.
Etimologicamente significa  ‘discorso’ e viene dal greco mythos che non poco ha in comune con logos:  i due termini rimandano alla parola, alla narrazione, al cuore stesso  del pensiero che prende forma e si esprime. E il pensiero scaturisce  dall’idea e dall’intuizione, le quali si presentano all’uomo per  spiegare tutto ciò che non si può capire, che non si può vedere e che  non si può neanche immaginare.
Bronislaw Malinowski definisce  il mito come “la resurrezione in forma di narrazione di una realtà  primigenia, che viene raccontata per soddisfare profondi bisogni  religiosi, esigenze morali, …” e Mircea Eliade, quando parla del ‘sacro  celeste’ , nel suo Trattato di Storia delle Religioni, è ancora più  esplicito, a proposito dell’Essere Divino, fondatore di ogni cosa: “Quel  che non ammette alcun dubbio – scrive l’antropologo rumeno – è la quasi  universalità della credenza in un Essere divino celeste, creatore  dell’Universo e garante della fecondità della terra (grazie alle piogge  che versa). Questi Esseri sono dotati di prescienza e sapienza infinite,  hanno instaurato le leggi morali, spesso anche i rituali del clan,  durante la loro breve dimora sulla terra; sovrintendono all’osservanza  delle leggi, e fulminano con la folgore chi le viola.”
Quindi,  prima che nascessero la scienza e la speculazione scientifica e prima  anche della stessa filosofia, nacquero i miti e i simboli ad essi  collegati. L’uomo costruì grandi architetture di pensiero mitologico e i  moderni studi di antropologia e di religione ci hanno fatto conoscere  la ricchezza mitologica di innumerevoli popoli che hanno generato  culture e civiltà nel grande flusso della storia del genere umano.
L’uomo,  dicevamo, ha raccontato con immagini e con poesia la nascita  dell’universo e la sua stessa creazione sulla terra. Null’altra  spiegazione poteva trovare l’uomo primitivo se non quella di una  immediata personificazione della natura (il sole, le stelle, la  vegetazione, il mare, il cielo ecc.) o degli stessi sentimenti come  l’amore e l’odio, la sete del potere e della conquista.
La  mitologia di tutti i popoli, oltre all’Essere Celeste primigenio non di  rado è arricchita da un contorno di altre divinità che sovrintendono ad  azioni umane (la caccia, la corsa, il combattimento ecc) o a fenomeni  naturali.
Nell’affollato panorama mitologico possiamo  enucleare almeno due grandi ambiti: l’ambito cosmogonico della creazione  dell’universo in tutte le sue forme e l’ambito della ri-generazione,  nel quale l’atto della creazione si ripete e si concretizza. La maggior  parte dei miti si svolge in questi due scenari, strettamente collegati, e  si svolge in un tempo senza tempo, all’inizio del tempo stesso, in illo  tempore, in quel tempo in cui l’uomo non era ancora comparso sulla  terra e le forze della natura, così antropomorfizzate, si combattevano e  si confrontavano nel grande Caos del Cosmo.
Poi i miti si  degradarono, acquistarono in qualche modo la dimensione della storia;  ciò avvenne con l’uomo, con i racconti popolari e con le spiegazioni  ch’egli dava per ogni ierofania o per ogni altro evento naturale. I miti  diventarono leggende e le leggende facilitarono e spiegarono  l’appartenenza ai clan, alle tribù, ai popoli, alle etnìe. Ogni popolo  si riconosceva in un sua propria mitologia e attraverso le leggende  costituiva l’ordine morale e sociale del clan; regolamentava i rituali  sacri che onoravano le divinità, sanciva le leggi del clan e i  comportamenti individuali, accettava la morte stessa come trapasso fra  due stati di natura in cui quello dell’aldilà era certamente il più  durevole e il più felice.
Quindi il Mito ha avuto anche una  funzione didattica e pedagogica, oltre che morale e normativa. Ma non  meno importante è lo stimolo che il Mito ha esercitato sull’immaginario  individuale e collettivo. Bisognava in qualche modo rappresentare la  leggenda per farla capire e ‘vedere’ dagli altri, per rendere esplicito  ciò che era mera intuizione e per inserire poi questa immagine, sotto  forma di simbolo, nelle complesse liturgie sacre. E quale migliore  veicolo di rappresentazione poteva esserci se non quello artistico e  poetico?
Quasi tutta la storia dell’arte dei popoli di ogni  latitudine è gravida di immagini mitiche o religiose, di rimandi a  cosmologie e ierofanie, di rappresentazioni del divino e del sacro, di  riferimenti a dèi che salgono e scendono dal cielo per entrare nella  storia dell’uomo; la pittura e la scultura non sono altro che le forme  stesse del mito, almeno per gran parte della storia umana, fino a quando  cioè il mito non viene ancora degradato e diventa simbolo. Nascono così  i simboli di oggi e capiamo allora che il mito cammina nel tempo e che  ha lasciato il suo antico alto scranno per viaggiare con l’uomo e  stuzzicare la sua curiosità, la sua intelligenza, ma anche la sua  passione e non di rado anche il suo egoismo.
I miti moderni  sono tanti: la Ferrari, simbolo della potenza tecnologica e del  benessere, Marilyn Monroe, simbolo della perenne bellezza, Elvis  Presley, simbolo e Mito di tante generazioni di giovani che hanno  cercato di identificarsi con lui, ma anche Hitler ed Auscwitz sono  simboli moderni del male e delle abiezioni più profonde cui può giungere  l’uomo. Quindi il Mito continua il suo cammino nella storia, anche se  si è allontanato dal sacro e si è mondanizzato.
E l’arte e la  poesia lo seguono anche in questo cammino, lo rappresentano e lo cantano  perché senza di esse non potrebbe diffondersi e rialzarsi di nuovo  verso i confini dell’immaginazione.
Terra di miti fu la Grecia e con essa tutte le culture del mediterraneo che ebbero un qualsiasi contatto con la terra di Olimpo.
E  fra queste culture, la più alta espressione la riscontriamo in Sicilia,  dominata per cinquecento anni da Siracusa, la magnifica, e per altri  cinquecento da Roma, la potente. Siracusa e Roma furono tributarie di  Atene e della sua complessa religiosità olimpica, anche se anch’esse  elaborarono concezioni mitologiche proprie. Queste tre città, Atene  Siracusa e Roma, concepirono una mitologia antropomorfica, e spiegarono  ogni fenomeno naturale e sociale con leggende legate a nascite e morti  di dei e di semidei, a trasformazioni di uomini e animali in esseri  divinizzati. Sono nati così le storie complesse e intriganti di Artemide  e di Dioniso, le multiformi immagini di Proteo, la passione amorosa di  Alfeo, l’amore tragico di Ciane e la misteriosa creazione del labirinto  dove il Minotauro pretendeva i sacrifici umani.
Se qui dunque  sono nati molti miti e se qui molte credenze religiose ancora vivono  sotto altre più sofisticate spoglie, allora bisogna chiedersi cosa  possiede di tanto sublime e di tanto luminoso questa terra di sole e di  antiche risonanze. Forse è la natura di questa gente, nata per  filosofare e per poetare, che dipana il filo religioso che lega terra e  cielo; la natura e l’indole dei siciliani e dei greci.
La  mostra sul mito che abbiamo voluto allestire con gli amici scultori  Nello Benintende, Gianfranco Bevilacqua e Giuseppe Giardina, ha proprio  questo intento: dipanare quel filo religioso attraverso la rivisitazione  degli antichi miti greci e siciliani, riproposti artisticamente con una  sensibilità nuova e moderna, verificando se sono ancora capaci di  appassionare e di emozionare gli artisti di oggi, così smaliziati e  distanti dal vecchio classicismo formale.
A giudicare dai  risultati pare proprio di sì; i miti possono ancora parlare agli artisti  se non altro come forza ispiratrice di concetti e di simboli che ancora  si dibattono nel quotidiano groviglio delle passioni.
E  possono parlare anche al pubblico moderno, perché raccontano storie  perenni, paradigmi eterni di una filosofia della vita e di una morale  sociale.
I tre artisti che presentiamo hanno lavorato per  parecchi anni su questo tema; e io con loro. Ci siamo confrontati e  abbiamo molto discusso sui simbolismo mitologico e sui temi da trattare.  Queste opere sono dunque il frutto di una ricerca formale e filosofica,  oltre che antropologica e religiosa. In ogni opera ci sono almeno due  letture da fare: una di tipo estetico che ci informa sugli stili e sulle  concezioni artistiche di ognuno; un’altra di tipo simbolico che ci  riporta ai vecchi e perenni motivi antropologici dei miti ai quali  queste opere rimandano. Su questo duplice piano tenterò di muovermi nel  presentare ognuno di questi autori.

NELLO BENINTENDE


Il  primo di questi tre artisti è legato all’aria. Un alito d’aria, un  battito d’ali, una leggiadria di forme, una serena armonia di linee,  un’emozione eterea; così ci appaiono le sculture di Nello Benintende. E  così, sospese tra l’aria e la terra, attraversate dalla luce che  evidenzia la materia, ogni scultura ci racconta di un’arditezza di  pensiero e di stile che avevamo dimenticato nel groviglio delle forme  astratte e prive di senso, nel buio d’un pensiero senza emozioni.
Il  Mito, come ce lo racconta Benintende, ha tratti umani e spesso  caratteristiche morali: Narciso che si specchia lo vediamo come un mezzo  busto ribaltato e ci sembra di individuare in questa forma duplice e  simmetrica l’ambivalenza stessa della natura umana, tesa fra gli opposti  punti focali: bene e male, amore e odio, vanità e trascuratezza,  bellezza e bruttezza.
Eos , il Ratto di Europa, Filemone e  Progne, Icaro ed altre sculture si librano nell’aria come strutture in  cui la materia si contorce e si flette, gira attorno al vuoto e dà corpo  alle forme e si fa messaggio e storia. Qui si racconta di umanissime  ambizioni: l’aurora che schiude le porte del giorno (Eos), l’ingenuità  di Europa che cedette alle lusinghe del toro-Giove, la salvifica  trasformazione di Filomela e Progne in uccelli e la caduta di Icaro nel  gorgo stesso della sua superbia.
Benintende sa cogliere la  significazione più intima di questi miti, il momento del passaggio fra  lo stadio della felicità delle ninfe e dei semidei a quello della loro  trasformazione-caduta-morte-rinascita; è questa la metafora della vita  stessa in cui il destino gioca in una continua altalena di cadute e di  rinascite e ripercorre nell’ambito dell’esperienza individuale la stessa  esperienza dell’universo. È la lezione più alta del Mito, il paradigma  di tutte le storie, singole e collettive, che fa da modello, ancora  oggi, ai desideri e ai sogni più sfrenati dell’uomo.
Questa  lezione è più esplicita nelle opere in cui emerge l’ellissi, o dove il  disegno si dipana in anelli, ovali, contorcimenti e avvolgimenti di  linee che invitano lo spazio a esaltare l’arditezza strutturale.  Nell’ovale nascono uomini e uccelli, maternità e forme astratte: forme  che rimandano a vari simbolismi. Vale per tutti “Il Ratto di Deianira  Il” in cui nell’ovale puoi racchiudere le braccia e la testa dell’uomo  nonché le zampe del centauro; tutta la figura è inclusa in linee curve  invisibili e pur tuttavia ben presenti nella concezione strutturale;  quel centauro è il simbolo stesso dell’uomo che vuole evadere dalla sua  natura animalesca, la parte umana è fortemente protesa verso l’alto e  sembra uscire dal corpo dell’animale. Eppure tutto rimane chiuso in un  involucro invisibile ma resistente. Come non si può pensare alla doppia  natura dell’uomo, al dottor Jeckill e a mister Hyde?
Ma anche  in Sisifo la lezione di Benintende si fa esplicita: quest’opera,  ricavata da un tronco di nespolo di circa 60 cm., ha una forte  simbologia che vale la pena di spiegare. Sisifo, come si sa, per avere  imprigionato la morte, venne condannato a spingere verso la sommità di  un colle un grosso masso, ma, giunto in cima, il masso gli sfuggiva di  mano e rotolava verso terra, in eterno. Lo scultore ha reso l’eternità e  la montagna con una forma alta, allungata, raffigurante il numero 8,  contorto e spiraliforme, sulla cui superficie il possente Sisifo spinge  un masso rotondo. Come si sa il numero 8 rappresenta l’infinito e  l’eterno e l’uomo-Sisifo spinge in questa strada senza partenze o  arrivi, il peso della propria esistenza.
E dal taglio ovale di  un tronco d’albero nasce Gea, la madre terra, la natura che ci sostenta  e ci governa. Così come in un ovale è racchiusa la danza de “Il Satiro e  la Ninfa”, tratteggiata e stilizzata fino a una trasparenza di forme  che con la terra hanno solo un piccolo insignificante punto di contatto.
Un  discorso a parte merita Proteo, una scultura in gesso patinato in  bronzo, alta circa 130 cm e realizzata a tutto tondo, in un groviglio di  forme che si fondono in una mostruosa molteplice figura d’uomo e  d’animale. Proteo si trasforma in numerose creature orride per  spaventare coloro che gli chiedono un vaticinio e Benintende ha dato qui  sfogo a tutta la sua geniale inventiva: corpo d’uomo e testa d’uccello  rapace, coda di scorpione e gambe di serpente; nella parte bassa del  corpo si staglia una testa di pescecane e due grandi ali di pipistrello  sollevano Proteo nel cielo come un’aquila che spicchi il volo. Nelle  mani porta un lazo raccolto con un cappio roteante teso al lancio verso  il malcapitato che osa rivolgergli la parola. La superficie del corpo è  resa con un tormentato tessuto squamoso o crespato, ispido al tatto,  orripilante all’occhio.
Proteo è il compendio di tutte le  nostre più orribili fantasie! La scultura è ardita e slanciata verso  l’alto, dinamica e appuntita in ogni sua parte; Benintende coglie  l’attimo più terrificante dell’ira di Proteo, il momento del lancio del  lazo e della sua più articolata trasformazione; lo sorprende  nell’estremo atteggiamento del male, quasi conquistato da quel malefico  sembiante che racchiude dentro il corpo squamoso tutte le pulsioni  maligne.
Proteo si può considerare la sintesi della visione  artistica di Benintende: stilisticamente ripercorre l’esperienza  maturata dallo scultore di Buccheri in molti anni di insegnamento e di  riflessione sull’arte; dal punto di vista compositivo infatti dobbiamo  riconoscere nelle sculture che presentiamo un richiamo di diverse  esperienze artistiche del novecento: dal metafisico al surreale,  dall’arte povera all’informale; un cammino che ha portato Nello  Benintende verso un’originale elaborazione delle sue istanze artistiche,  sviluppando forme che giocano con i volumi sempre con estrema felicità  stilistica. Di forte suggestione, in questo senso, è la “Cerva di  Cerinèo”, realizzata con la struttura metallica di una bicicletta,  fortemente armonica e originale nella composizione, così come di moderna  concezione è anche Colapesce, realizzata con strisce di metallo  colorato fluttuanti come le onde del mare, al quale rimandano.
Dal  punto di vista concettuale Benintende si rifà a quel gusto  dell’essenziale che lo contraddistingue anche nella vita pratica e a  quel sentimento dell’invenzione fantastica che rappresenta la sua cifra  più autentica. Egli non è solo uno scultore ma un geniale “inventore” di  marchingegni e di attrezzature che gli risolvono tanti piccoli problemi  quotidiani; un sapiente conoscitore di tecniche di falegnameria, di  idraulica, di elettricità, e di tante altre cose che si possono trovare  nel suo laboratorio che somiglia a quello del noto personaggio disneyano  Archimede Pitagorico. Forse è proprio questa sapienza tecnica che gli  consente di giocare con l’aria più che con la massa materica, dando alle  forme delle sue opere quel senso della levità che le rendono ardite e  leggere.
Molte di queste sculture, come dicevamo, si  appoggiano alla base tramite un solo punto di contatto e si sviluppano  nell’aria in una visuale rotatoria e verticale, suggestiva nel continuo  cambiamento delle forme tanto che, girandola, ti sembra di vedere una  scultura sempre nuova e diversa da quella che avevi ammirato prima. Si  tratta di opere spaziali e multidimensionali, generate da un gusto  moderno e spigliato, tecnicamente ben realizzate e rese con un  equilibrio di masse veramente incredibile.
I materiali  utilizzati sono i legni (noce, mogano e pino), il gesso, che poi viene  patinato, le lamiere, il marmo e la pietra; materiali consueti nella  scultura e pur sempre affascinanti; materiali che abbandonano la loro  amorfa esistenza per farsi messaggio e stile di un’arte carica di  suggestioni.
Nella ricerca mitologica Nello Benintende ha  trovato forti stimoli e appassionate pulsioni; questi hanno sollecitato  la sua fantasia, stuzzicato la sua sfida, più delle istanze filosofiche e  religiose che motivano le leggende mitiche, più anche del simbolismo  che il Mito porta sempre con sé; Benintende si lascia guidare  dall’estetica, dalle forme spaziali, dal flusso di vento che attraversa  la materia.
  

GIANFRANCO BEVILACQUA

Il  secondo di questi tre artisti è legato alla terra; la terra intesa come  materia costitutiva delle sculture, tutte realizzate con la creta e  avvolte da pepli e da sfoglie d’argilla cotta. Ma anche alla terra,  nella sua avvolgente dimensione sensuale.
Bevilacqua affronta il Mito per temi o per percorsi simbolici: gli Dei, l’Amore e il Coraggio.
Gli  Dei rappresentano la forza creatrice dell’universo, il motore della  storia dell’uomo se è vero che entrano in tale storia e ne condizionano  anche gli eventi. Così abbiamo Zeus ed Era, il Giove e la Giunone dei  romani, le due divinità principali del panteon olimpico, dalle quali  comincia una prolifera discendenza; e abbiamo anche la Nascita di Atena  (Minerva) uscita in armi dal cranio di Giove, quindi dea della guerra ma  anche simbolo della ragione e dell’intelligenza. L’abbraccio di Zeus  (il cielo) con Era (la Madre Terra) viene reso con un flessuoso e  sensuale incastro di corpi che si ergono da un masso squadrato, sul  quale è appoggiata anche un’aquila, il simbolo regale per eccellenza; ci  sono in quest’opera i contenuti stilistici più rappresentativi di  Bevilacqua, sui quali ci soffermeremo in seguito. Ne “La Nascita di  Atena” la testa di Giove è resa con una massa enorme che ci dà  l’impressione di una montagna dalle cui viscere sorge la dea, amica  dell’uomo.

Il secondo percorso  simbolico e mitico ci porta nei territori dell’amore. Ben nove sono le  sculture che appartengono a questo tema: Alfeo e Aretusa, Ninfa e  Minotauro, Il Ratto di Persefore, il  Ratto di Europa (due opere 1 - 2),  Apollo e Dafne, Amore e Psiche, Medea, Orfeo ed Euridice. Rappresentano  tutte il dramma dell’amore, il senso tragico della vita stessa e il  sentimento appassionato che porta gli amanti a superare ogni tipo  d’ostacolo. L’amore si unisce all’avventura e al pericolo, si trasforma e  rinasce, fa accoppiare spesso le tre nature - quella divina, quella  umana e quella animale -, porta alla follia e al delitto. Bevilacqua dà  sfogo a tutta la sua arte e alla sua perizia tecnica. Due concezioni  stilistiche si fronteggiano e si intersecano: quella solida e  monumentale, sviluppata con masse volumetriche consistenti e pesanti  (Alfeo e Aretusa, Il ratto di Europa, Medea) e quella leggera e  avvolgente, sviluppata con volumi aerei e allungati (Amore e Psiche,  Orfeo ed Euridice ecc.). È come se l’artista avesse voluto rappresentare  in questo modo le antinomie dell’amore: la pesantezza e la gravezza  della passione e la levità del sentimento e dei sensi. La passione porta  all’annullamento della ragione in Medea che uccide i propri figli,  mentre il sentimento d’amore porta alla felicità e alla danza, come in  Amore e Psiche.

Il terzo percorso ci introduce  nella dimensione più profonda della natura umana: il coraggio. Il  coraggio appartiene alla sfera morale e psichica dell’individuo e le sue  caratteristiche principali sono l’intelligenza, la forza, la volontà e  l’ambizione. Il Mito greco, (ma anche i miti di altre culture) si è  molto occupato di quest’aspetto, ritenuto dagli antichi la più alta  espressione dell’uomo, quella che lo distingueva da ogni altra creatura e  lo faceva assurgere spesso alla regalità. L’eroe diventa spesso re o  addirittura lo si paragona al Dio stesso e gli si attribuiscono  connotati sovrumani e gli si rendono grandi onori. Un nome per tutti:  Eracle. E a Eracle Bevilacqua dedica ben quattro sculture, ispirandosi  alle sue famose fatiche:Eracle e il leone Nemeo , Eracle e l'Idra di  Lerna, Eracle e il toro cretese , Eracle e Anteo . Le prime tre sono  sculture possenti, massicce, bloccate nello sforzo della lotta. Di  grande forza espressiva appare la grande testa del leone stretta fra le  robuste braccia dell’eroe, così come terrificante è l'Idra di Lerna,  dalle molte teste di serpente che si aggroviglia al corpo di Eracle e a  un tronco d’albero in un unico corpo scultoreo di estrema complessità  formale, senza soluzioni di continuità fra le tre distinte forme.
Eracle  e il toro di Creta ci riporta stilisticamente al leone Nemeo mentre la  lotta fra il coraggioso Ercole con il gigante Anteo ha forme più leggere  e più slanciate. Ma, come abbiamo detto, Bevilacqua si destreggia fra  queste due concezioni stilistiche: la prima chiusa e compatta, la  seconda aperta e aerea. Anteo viene sollevato in aria da Ercole e  soffocato con la forza delle sue braccia; questo perché Anteo, figlio  della Madre Terra, ogni volta che toccava il terreno riprendeva più  vigore. È simboleggiata qui la perenne lotta fra l’intelligenza e la  natura bruta. Ercole rappresenta l’intelligenza oltre che la forza  poiché riesce con l’intelligenza a capire l’unico modo di potere  uccidere Nemeo. Il gigante rappresenta la forza stessa degli elementi  naturali, dei boschi e delle montagne, della terra che non è solo madre  dell’uomo ma spesso anche divoratrice di interi popoli. Lo stesso  discorso si può fare per l'Idra di Lerna ma anche per tutte le fatiche  di Ercole il quale, da solo, (era questa l’unica condizione imposta da  Euristeo), doveva sconfiggere i mostri che rappresentavano il male.
   
Le  ultime cinque opere che dobbiamo trattare sono: Polifemo, Scilla, Il  Vello d’Oro, Prometeo incatenato e Teseo e il Minotauro. Sono miti di  forte interesse antropologico e culturale, i quali rimandano a una delle  condizioni peculiari dell’uomo: l’avventura, ovvero la sete di  conoscenza e di ricerca che ha portato l’uomo ad essere non solo il  signore del mondo ma anche il signore della sua stessa storia.  Bevilacqua ce ne dà una visione plastica a tutto tondo, ricca di  risvolti formali che rimandano sempre all’intima essenza del mito che  rappresentano. Lo scultore siracusano si sofferma sui particolari, sulla  figura realizzata con certe sfumature espressionistiche di forte  intensità. Vale per tutte Scilla, il grande mostro marino che mangiò sei  dei compagni di Ulisse e che l’artista realizza con una libertà formale  incredibile, suggestiva e potente.
  
Tutte le  sculture di Bevilacqua hanno un fascino particolare. Egli conosce bene  il giuoco di vuoti e di pieni e imprime alle sue sculture una  flessuosità e una morbidezza di linee che ci riportano da un lato alla  scultura classica e dall’altro al dinamismo della concezione futurista.

I  corpi in movimento, le membra protese al cielo, i corpi allungati e  vuoti, le vesti che si aprono in larghe pieghe che modellano le forme,  tutto è mosso dall’aria che entra in queste sculture e pare che uno  spirito creatore, soffio vento turbine, dia vita all’informe materia che  si fa figura fluttuante nello spazio. Sono figure in creta monocroma,  di un marrone caldo, colore della terra, di una serena eleganza, belle  da vedersi e da girare da tutte le parti. E come non rilevare lo stretto  connubio che s’instaura fra materia, forma e messaggio in quelle statue  i cui corpi sono l’evoluzione stessa dei vestiti o viceversa, e la  morbidezza della creta impasta con estrema libertà nature morte e vive,  in un disegno fantastico di linee curve che aprono e chiudono intriganti  spazi fra le forme circolari?

Bevilacqua è un  poeta della creta e possiede uno stile maturo e armonico, fortemente  espressivo e suggestivo. Egli teorizza la libertà assoluta della forma  anche se condizionata dalla figura; ritiene che la realtà sia un  continuum di forme che s’incastrano e si trasformano e che nulla abbia  contorni definiti e netti; ci suggerisce un mondo di grande  immaginazione, di fascinosi percorsi; crea suggestioni forti anche  quando rappresenta figure dolorose e tenta una possibile poetica della  bellezza. Tuttavia la lacerazione e il male fanno capolino da alcuni  tagli misteriosi che di tanto in tanto feriscono le forme leggiadre e  rompono l’armonia della circolarità che si stende sopra le figure. E’  l’immanente segno del dolore con il quale ogni cosa che vive deve  confrontarsi.
   

Giuseppe Giardina

Il  terzo di questi artisti è legato all’uomo, alla sua intelligenza e alla  sua storia. Giardina ha una visione diacronica dell’esistenza e  ripercorre, in una forte sintesi scultorea, racconti mitologici, simboli  evocativi e riflessioni filosofiche.
Per Giardina c’è una  storia dell’uomo che si degrada continuamente, fatta di cadute, dopo la  creazione, intrisa di lotta e di sconfitte, dove il mito si fa icona  stessa dell’abiezione umana.
A guardare tutte le sue opere si  resta affascinati e smarriti, quasi inchiodati da una forza stilistica e  culturale che ti ammutolisce, tanto è intensa la potenza espressiva  delle immagini e dei riferimenti ai quali rimandano. Sono terrecotte  smaltate o invetriate, patinate con tenui colori, infornate a gran fuoco  per vetrificare la materia e renderla lucente e viva.
Giardina  è un intellettuale inquieto e curioso; gli piace esplorare stili e  generi diversi, misurarsi con ardite concezioni filosofiche e religiose  (La Creazione del mondo e l’Universo dei pianeti, la Storia che racconta  attraverso la mano dell’uomo e le Figure femminili degli artisti –  simboli dell’eterno femminino), indagare le tecniche di realizzazione  delle opere attraverso continui esperimenti dove la creta costituisce la  materia prima e gli smalti, le vernici, il caolino, vestono le forme  dando loro vivezza, lucidità, colore e movimento.
Tutte queste  istanze le incontriamo pure nelle opere che presentiamo dedicate al  Mito; non solo al mito greco-siciliano classico ma al grande mito che  abbiamo costruito in tutti i tempi della storia umana, alle grandi  conquiste e alle civiltà. Cos’è del resto la storia dell’uomo se non la  storia stessa del mito che lo sollecita e l’accompagna nel tempo, che lo  stimola verso la ricerca e la bellezza, che lo appaga nel suo bisogno  di solidarietà col divino e col trascendente?
Di questa ricerca noi dobbiamo dar conto e Giardina, da parte sua, lo fa attraverso la sua arte.
Vediamo quali sono le tappe di Giardina in questa ricerca.
La  prima sosta la dobbiamo fare incontrando un gruppo di opere che  rimandano al peccato dei sensi: la lussuria, la passione, l’amore, la  libido: tutte figlie di Eros! A questo gruppo appartengono: Afrodite,  alla quale Giardina dedica più sculture in una ricerca formale che va  dal classico al concettuale, emblema della sensualità e della  femminilità, motore delle passioni umane più sfrenate; Alfeo e Aretusa,  la storia di un amore negato e della nascita di una città, Siracusa, ma  anche la storia di un sentimento che vince ogni ostacolo e che si fa  vita; il Satiro, simbolo del senso artistico e in particolare della  musica, degradato a uomo caprino; Leda e il cigno, la storia di un  rapimento spinto dalla lussuria di un dio, Giove, che s’invaghisce della  bella Leda e la stupra. In queste opere Giardina si sofferma con un  senso di compiacimento e di eleganza. Le opere rimandano in parte a  concezioni stilistiche di tipo tradizionale e in parte si rifanno a  generi più moderni, novecenteschi, in una felice sintesi formale.
La  seconda sosta la dobbiamo fare sulle sculture che rimandano alla storia  dell’uomo e alle sue degradazioni morali: la colpa, l’astuzia, la  superbia, l’inedia, la crudeltà. A questo gruppo appartengono: Edipo,  col suo fardello di colpa e di disgrazie volute dal dio e quindi simbolo  di una predestinazione quasi coercitiva; La fuga di Ulisse, omaggio  all’astuzia dell’uomo che riesce a superare qualunque situazione; La  vecchia Medusa, la cui superbia fu punita da Minerva, trasformando i  suoi bei capelli in serpenti; La Notte, simbolo dell’abbandono e  dell’inedia, placida dormiente a cui sfugge la vita; infine il  Minotauro, visto attraverso la sua solitudine e la sua  trasformazione-vestizione tragica. Di ognuna di queste opere si dovrebbe  parlare molto, tanti sono i risvolti stilistici e simbolici che  sottendono, tuttavia almeno di una dobbiamo dire qualcosa: il Minotauro.  È presentato con due opere: la solitudine e la vestizione della  maschera. In entrambe le opere la figura è quella di un uomo moderno,  anzi nella vestizione si tratta proprio di uno di noi; il Minotauro è il  simbolo stesso del male, del dolore umano, del destino tragico di  singoli e di popoli. L’uomo di oggi quante volte indossa la maschera del  Minotauro? E quante volte s’abbandona, in questa solitudine  esistenziale, alla riflessione sui peccati che commette e che lo  uccidono lentamente? Giardina ci ammonisce sui nostri comportamenti, ci  supplica di toglierci la maschera del male e della cattiveria che  indossiamo ogni giorno, e lo fa con la sua scultura travagliata,  contorta, dinamica e spaziale. Queste terrecotte hanno qualcosa di  elegante e di drammatico, un sublime contrasto fra la patina e la forma.
La  terza sosta va fatta sulla dimensione religiosa, sul rapporto uomo-dio.  È il peccato contro la divinità che viene punito con la morte.  Prometeo, simbolo di una civiltà che vuole evolversi senza la presenza  di Dio; Laocoonte, sacerdote troiano che si oppone a far entrare il  cavallo lasciato dai greci dentro le mura della città e che muore,  assieme ai figli, soffocato dai serpenti inviati da Poseidone; Icaro, la  superbia dell’uomo che vuole accedere agli alti palazzi di Dio e che si  brucia le ali e cade miseramente; La morte di un centauro, ovvero il  buono e saggio Chirone, metà uomo e metà cavallo, che ferito  accidentalmente da Eracle, muore sopra una roccia. Come si vede la morte  rappresenta il denominatore comune di queste opere ma è in Prometeo che  Giardina esalta maggiormente la sua tecnica e la cifra drammatica del  simbolo. Prometeo è legato con una catena alla rupe, inarcato il corpo  con le ossa del torace molto prominenti e le gambe ritorte verso il  basso; un’aquila dal corpo frastagliato, orrenda e truce, gli mangia il  fegato; le membra sono scarnificate e gli arti ossuti; il fuoco gli  brucia accanto, rosso nel suo guizzo fiammeggiante, contro il pallido  marrone di tutto il resto, unica nota di contrasto. Prometeo ruba agli  dei il fuoco, simbolo dell’intelligenza e della genialità, ruba la  spinta per progredire nella scala della civiltà, da sé solo, senza il  consenso degli dei. Questa è la sua più alta bestemmia. E Giardina, per  rendere visibile l’affronto e la superbia del Titano, distrugge ogni  traccia del corpo di Prometeo; lo fa diventare pietra, come la roccia  che lo trattiene, lo rende arco legato e non più aperto verso le  tensioni celesti. Immagine tremenda della più alta caduta!
C’è  infine un’opera che racchiude e trascende tutte le altre: l’autore l’ha  chiamata 11 settembre 2001 ma il suo sottotitolo è più emblematico, Il  Mito trafitto. È una torre alta una cinquantina di centimetri, un  parallelepipedo di terracotta smaltata d’un azzurro chiaro, scolpita da  tutti i lati, suddivisa in piani dove in ogni striscia si sviluppa il  racconto della civiltà occidentale: arte, storia, conquiste, religione,  teatro, grandi città, lavoro e pensiero. Sembra una torre di Babele e  nel mezzo ecco un aereo conficcato, come una freccia che oltrepassa quel  corpo e che ne uccide la stessa anima. La ferita riguarda la nostra  stessa civiltà, il più grande mito, sempre attuale, della storia  dell’uomo che si sviluppa nel tempo. Abbiamo costruito le più alte forme  di organizzazione sociale e urbana, abbiamo realizzato opere colossali  di architettura e d’ingegno, abbiamo attraversato tutti i mari e i cieli  esplorando e appropriandoci del mondo, abbiamo costruito la grande  utopia del benessere e del potere; poi è bastato un aereo per abbattere  il simbolo stesso di questo mito. L’11 settembre è la sconfitta stessa  dell’uomo, della sua intelligenza e della sua coscienza.
Giardina,  in questo monoblocco d’argilla, raggiunge esiti alti e significativi  nella ricerca formale e contenutistica; il modellato si sviluppa lungo  piani che non di rado s’intersecano quasi a espandere i simboli oltre il  loro tempo e la loro dimensione, la mano appare sempre sicura e  sapiente e il risultato è impressionante nella sua dolorosa  rappresentazione.
 

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