Adorno Alasso
mostre 2010
galleriaRoma
artecontemporanea
via Maestranza 110 Siracusa
Nitù Dekebi – Figli d’Africa
Fotografie di
Alessia Alasso ed Andrea Adorno
dal 30 dicembre 2010 al 6 gennaio 2011
Oggetto: Mostra Collettiva
Titolo:"Nitù Dekebi – Figli d’Africa "
Autore: Alessia Alasso ed Andrea Adorno
Presentazione: Salvo Sequenzia
Luogo: via Maestranza 110 Siracusa
Data: 30 dicembre 2010 -6 gennaio 2011
Inaugurazione: 30 dicembre ore 18,30
Orario di Apertura:
dal martedì alla domenica 17,30 - 20,30
Organizzazione e
Direzione Artistica: Corrado Brancato
Addetto Stampa: Amedeo Nicotra
IMMAGINE E STORIA DELL’ALTRO
Note sull’esposizione fotografica “Nitù Dekebi – Figli d’Africa”
Chi scrive queste note in anni lontani, per vie diverse, ha avuto la felice ventura di conoscere Alessia Alasso ed Andrea Adorno. Miei conterranei, a loro mi legano comuni radici ed una familiarità di frequentazioni e di amicizie che il successivo distacco, dovuto alle necessità e alle contingenze della vita, non ha allentato.
Mi è caro oggi tenere a “battesimo” questa mostra in cui vengono esposte le loro opere, un ciclo di fotografie che testimoniano un momento significativo del percorso di entrambi. Una mostra “gemina”, allestita a Floridia e a Siracusa, presso istituzioni culturali curate con intelligenza e saggezza da amiche e da amici validissimi, la cui passione e l’impegno a sostegno dei giovani talenti sono ormai “storicamente” attestati.
“Nitù Dekebi – Figli d’Africa” racchiude due sensibilità, due modi di interpretare la vita, di accostarsi al mondo e – direi – di scrutare gli occhi dell’ “altro”.
Il gesto fotografico, per i due autori, diviene gesto di apertura al mondo e alla sua diversità; atto di conoscenza e, insieme, operazione maieutica.
Sicché le fotografie di Alessia Alasso e di Andrea Adorno, nel rappresentare paesaggi, architetture, colori, silenzi, sguardi e movimenti di un universo per noi sconosciuto e lontano, piuttosto lo traversano, e lo sondano, lo scavano, inabissandosi alla ricerca di un’immagine-matrice, una sorta di Ur-immagine, che si compone esclusivamente nello scontro tra pensiero ed emozione, tra la realtà e il suo segreto: un’immagine in cui compendiare l’idea e ed il sentimento che i due fotografi si sono fatti del mondo e dei popoli che hanno traversato.
Sorprende, in alcune fotografie, soprattutto in quelle di Alessia Alasso, la ricerca di una scala di colori abbagliante e la forza che, a contrasto, esprime l’immagine nel suo complesso, come in un quadro di Bonnard. Anzi, si potrebbe proprio parlare di “effetto Bonnard” per gli scatti in cui varietà cromatica, linea, trasparenza, architettura, paesaggio e corpo trovano un denominatore comune, un linguaggio coeso, che diviene fusa materia in cui immergersi e riemergere in pienezza di comprensione e di senso. E, seguitando, queste fotografie rivelano raffinate, coraggiose costruzioni spaziali che giocano con la luce attraverso trasparenze e rispecchiamenti. La costruzione di volumi e di architetture che si stagliano nel deserto, e che l’autrice coglie nel suo perdersi all’orizzonte, tra terra e cielo, si sciolgono in pura tonalità di colore, come in un paesaggio di Morandi.
La fotografia, ha notato Rosalind Krauss, è un medium che dipende dalla luce e, nella sequenza di immagini da lei realizzate, Alessia Alasso ne ha tenuto conto al massimo grado, tentando di fotografare la luce. Il soggetto vero di alcune delle sue opere, è la luce.
Ma, in questo repertorio di immagini ci sono anche certe fotografie “materiche”, in cui lo sguardo di Alessia Alasso riesce a percepire e a fissare due dimensioni: una in perenne transito, un movimento di corpi e di forme, un oscillare di cose, un fluire indistinto, un vibrare di risonanze di stati d’animo inquieto, quasi un dileguare; l’altra ferma nella sua eternità, immota, restituita in quadrature di deserti, di architetture senza tempo, fatte di pietra e di sabbia, di dolore e di rassegnazione.
Andrea Adorno è, al contrario, vero fotografo di volti e di sguardi; di storie.
In ogni sua fotografia si individua una storia, un referto biografico da cui si dipana un racconto muto e dolente; un racconto che si fa viaggio, quasi restituzione – per immagine – di un nomadismo interiore, prima ancora che topografico e geografico.
Andrea Adorno fa esplodere, spesso, l’immagine, alla ricerca di una nuova forma attraverso un processo di metamorfosi, prima di tutto interiore, del paesaggio africano; e lo fa molte volte usando la fascinazione del dettaglio, da cui emergono storie di sguardi e di volti.
I particolari, al centro delle fotografie di Andrea Adorno, non possono vivere che come opera d’arte, svincolati dalla consapevolezza dell’intera struttura cui appartengono. Perché il nostro li rinviene e, talora, ne fa i protagonisti delle proprie opere per raccontare la frantumazione dell’io contemporaneo, la condizione di erranza e lo sradicamento.
I ritratti di Andrea Adorno inseguono e catturano la luce, la scolpiscono con tagli incisivi e chiaroscuri marcati, lasciano senza fiato soprattutto chi ha la ventura di riconoscere in esse una secolare storia di offese che questi popoli hanno esorcizzato nel rituale dell’ubuntu, in cui memoria, parola ed immagini passano di generazione in generazione, quali eredità di pena e carovana di speranza, per sancire, nell’antica lingua bantu, la “benevolenza verso il prossimo”.
L’ubuntu esorta a sostenersi e aiutarsi reciprocamente, a prendere coscienza non solo dei propri diritti, ma anche dei propri doveri, poiché è una spinta ideale verso l’umanità intera, un desiderio di pace.
Questa mostra, nella quale Alessia Alasso ed Andrea Adorno per la prima volta espongono al pubblico il frutto della loro esperienza e della loro passione per la fotografia, nei suoi valori formali e nei suoi contenuti esprime un insieme di “variazioni”, meditate ed esemplificative, di un linguaggio visivo immediato, emozionante, che preme su di noi, subito, con la sua preziosità compositiva e la sua specificità stilistica.
E, parimenti, essa, nella sua disarmante verità ed attualità, nella poesia che la pervade, rivolge un invito, a noi spettatori, a una nuova, auspicabile convivenza civile; e desidera, anche, indurci al recupero di certi “lieviti primi” senza dei quali le civili convivenze non potranno, ormai, durare più a lungo, nel mondo, in questi termini estremi e falsi cui le ideologie razionali, troppo ciecamente credute, hanno condotto gli uomini.
Il senso, la declinazione ed il valore “gemino” di questa mostra rinviano al “due”, che vuol significare unione, incontro con l’altro, tensione conoscitiva e accrescitiva, che noi abbiamo colto con rapimento dentro questi lavori, nel loro movimento generoso ed aperto, e che ora consegniamo al mondo, con l’auspicio di migliori fortune, al termine di queste righe, dettate dall’ammirazione e votate ad una ritrovata e rinnovata amicizia.