Sironi 1998 - Mostre Galleria Roma Siracusa

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Sironi 1998


Profezia Pittura Poesis
 di Francesco Gallo
Per me nella misura in cui la storia diventa in qualche modo una scienza, essa diventa ancora più pericolosa che un tempo. Se arrivo alle mie conclusioni di storico con troppa rapidità e troppa forza, se quel che so probabile lo presento come certo e quel che è certo lo presento senz'altro come verità, allora rischio di deformare il messaggio della storia; è per questo che sono prudente. Per me la discussione non è mai terminata, e non cè alcun libro che non verrà di nuovo riscritto."
Fernand Braudel

PROFEZIA

La pittura di Mario Sironi, presenta una vasta gamma di opzioni poetiche e formali che la mostrano come assoluta profezia d'immagini. Una straordinaria qualità, la sua, di tradurre in valori tattili, tutte le emozioni sensoriali e spaziali e farle diventare metafora di una condizione medianica capace di prendere dal passato, di affondare nel proprio presente e di proiettarsi nelle volute labirintiche dell'avvenire.
Tutto quanto è attuale nella sua pittura, è attuale nel brivido della nostra esperienza estetica e mora- le, resa palpitante dal riconoscimento di una annunciazione già avvenuta, amplificata dalla vivacità delle lacerazioni che figurano il presente nell'occhio del passato e il passato in quello del presente. Quasi per potere giustificare l'angoscia grande che lo caratterizza come estrema, e ultima, percezione dei mali, catarsi di tutti i beni promessi dal futuro. Ma quale futuro! Quello che si legge dalla scrittura pittorica di Sironi è un universo drammatico, ve- nato di fosche tinte, lacerato qua e là da squarci che indirizzano progettualmente la follia totale dei toni cromatici e dei segni tracciati sulla grave superfìcie e sul corpo delle persone e delle cose. Profezia, dunque, che è giunta alle generazioni di oggi, dell'oggi diventato già ieri, del tempo fuggente al passato, dell'irrefrenabile copio dissolvi.
Sironi è vivo nella coscienza perché vive la sua drammatica consapevolezza della tempesta dai cuori d'acciaio, della struttura urbana che si espande con la sua colata d'asfalto e la sua grigia periferia di morte. Una annunciazione pessimistica, fatta di cose che occupano una prospettiva sommaria, screditata, a testimonianza d'una provvisorietà, d'una fuggevolezza che può indirizzare il destino verso la luce, verso l'ombra.
La sua presenza torna a farsi enigmatica testimonianza, fertile enunciazione di passione lirica, di tensione costruttiva, fatta di pessimismo intelligente, titanica volontà. Una tensione che non si attenua, ma s'ingrandisce col volgere dell'ombra, con l'alternarsi dei contorni e delle matrici originali della luce, per cui si alterano tutte le proporzioni, che finiscono con l'apparire convenzioni d'una mentalità di tutto rispetto ma del tutto in- capace di esprimere la complessità e la stratificazione di reale e di immaginario, di onirico e di reale nel grottesco d'un allestimento scenico dove si recita l'assurdo, l'ignoto. Assurdo ed ignoto che si atteggiano, nell'opera di Sironi, ad assoluta naturalezza dell'essere e dell'apparire. Come se surrealismo ed espressionismo fossero due facce della stessa cosa, due aspetti della revisione integrale del- l'immagine tipica, stavo per dire sacra, di ogni tempo, quando ha consapevolezza schizofrenica d'essere tale, oltre che ricerca personale e sofferta. È tutto uno scorrere stilistico, quello di Sironi, dal disordine all'ordine, dallo spirito dell'avanguardia a quello della suggestione classica. Tutto preso da un conflitto che è un fatto interno all'arte, alla sua totale rifrazione del mondo, alla scomposizione del caos nelle tante e tante forme dell'immaginario.
Una pittura che scruta i volti del passato per trova- re una consapevolezza di se stessa alla posizione di metafora spaziale e temporale allo stesso tempo, con una pasta grumosa dei colori, con le prevalenze grigie e scure della luminosità imminente. Così tutta l'esperienza degli anni di formazione e poi dell'intrigante stagione futurista e metafìsica, si concretizza in una ampia serie di opere analitiche che appaiono come meravigliosi esercizi di stile, come prove ben riuscite nel mettere alla prova un corpus dell'arte di grande impegno, nella sperimentazione del movimento, del dinamismo applicato alla visione statica per eccellenza, a quella che si usa chiamare contemplazione dell'opera, peraltro subito richiamata dalla metafìsica come sospensione del tempo interno dell'opera. Una significativa dialettica di opposti modi di vedere la pittura, di due modi dinamici di vedere la vita e l'arte. Tutti e due modi di grandissima suggestione e di raffinatezza intellettuale non comune, in grado di attrarre la critica e l'apprezzamento dei ceti intellettuali più vicini alle problematiche della società del continuo divenire e della crisi, ma non del tutto confacenti alla psicologia passionarla di Sironi. La sua lucida analisi concettuale dell'esistenza individuale come atto estetico, delle città come luogo degli accadimenti supremi per la vita e per la morte, lo portano ad una visione missionaria della pittura e dell'arte in genere, considerata come cosmos inscindibile dove vivono diverse cose, ma tutte cose che non è possibile disgiungere senza diminuire la forza stessa di un "uno-tutto" che è misura della capacità inventiva dell'uomo. Sironi sostiene l'imprescindibile unità concettuale di ogni prodotto artistico che nasce nella mente come espressione dell'invenzione, della messa in gioco di tutta un'esperienza di vita, di tutta una storia personale, considerata come un segmento della storia universale.
In questa sua ricerca radicale avverte più vicina la presenza dei primitivi ed essenziali che non quella d'artisti più decorativi e raffinati. Così come avverte più vicina la misura della grande visibilità, quel- la che permette una grande comunicazione, con la messa in circolo degli umori più sapienti della gestualità creativa. Grandi opere murali e grandi quadri con un pensiero visionario e dilatato da rendere all'anima e da rendere a Dio avvolto nel misterioso velo delle passioni civili equiparate alle passioni religiose di un tempo. Una totalità che si confronta con un'altra totalità, senza la scandalosa colpa dell'omologazione anzi, nell'elogio della differenza, nel confronto tra il desiderio dell'ai di là e l'ardimentosa costruzione dell'al di qua
. Una dialettica che agisce nel profondo dell'animo di Sironi, creandogli una forte tensione per la realtà dell'hic et nunc e una contrapposta attrazione per l'utopia del regno avvenire. Una realtà e un'utopia che si fondono nell'attualità, nell'essere in continuo movimento formale e contenutistico, in attraversamento di luoghi comuni e fantasmi della mente.
Sono architetture e figure umane, simboli e tabù che seguono una lunga scia di sensi e significati, di sfoghi e invocazioni, validi, per il lavoro, per la contemplazione, per l'attraversamento, per la festa, per il lutto. Come un grande cosmos individuale che viene offerto in pasto simbolico alla raffinatezza intellettuale, ma senza disdegnare quella parte dello spirito sensibile di massa che si dispone ad elevarsi dalla commedia, dal grottesco, dal quotidiano, per accedere alle altezze sublimi, intellettuali e morali della tragedia, del dolore altero, dello spirito della storia. Per quanti, insomma, si accingono ad uscire dalla passività plebea e fatali- sta per accedere all'aristocrazia volitiva dello spirito eroico, pronto a tutto per la propria libertà e dignità, anche alla morte.

PITTURA

La valutazione dell'opera di Sironi è stata oggetto di attente analisi, che hanno fatto emergere dal sottosuolo della memoria, dal buio della rimozione, un corpus d'opera assoluto, eccezionale. Varie occasioni di mostre e pubblicazioni, hanno rafforzato l'opinione, sostenuta prima da una minoranza, ed oggi sempre più diffusa, di una autentica ricchezza iconografica, capace di sconfìggere la sacca di povertà d'un immaginario travagliato tra classicismo e modernismo, luogo privilegiato dell'attività pontefice di Sironi. Un artista che sta alla pittura come l'intelligenza sta alla ragione, utilizzando la libertà della tecnica per fermare i flussi di coscienza e farli entrare nel novero delle invenzioni, delle apparizioni fenomeniche e traumatiche del senso e del segno. Un travaglio continuo, della forma e del concetto, nella dinamica di un desiderio che ha voglia di trascendere se stesso e diventare assunzione della metafora nel particolare, in un moto totalitario del pensiero che vuole trasgredire la vita nella sua molteplicità per portarla ad una grande essenziale unità. Nella pittura, nella sua povertà aurorale, fatta di una semplicità apparente e avvolgente, si versa tutta la qualità plastica dell'astrazione, tutto lo studio delle strutture del mondo, di quello che gli è proprio come macchina scenica al seguito, di quello che gli viene dal drammatico simbolismo del trionfo e della morte. Una sintesi mimetica di provenienze molteplici, di impressioni di fenomeni e riti, di raccoglimenti antropologici nell'artifìcio della civiltà, come compattata da una coscienza dell'alienazione che deve essere trascritta, come in un quaderno psicanalitico, se vuole trasformar- si da pesante compressione in leggera intelligenza. Avviene così che si scorre l'album infinito di Sironi, vero progetto a contatto della vita e specchio d'una mutevolezza eterna, una presa d'atto di lievitazione dello stile, di trasformazione del contenuto in traspirazione delle forme, vero gioco delle somiglianze con il proprio doppio. È come una mediazione catalizzante tra la visibile catena della morte e il suo sogno come fuga e diffusione tra i ritmi della poesia, che esclude dalla comunicazione meccanica e innesca quella straordinaria della reversibilità, della negazione, cronaca, conoscenza, giudizio.
Sironi trasferisce, nella sua opera, la tensione del pensiero, l'umore delle passioni e delle delusioni, accelerando e rallentando il ritmo di una scansione che si fa barocca o essenziale, a seconda del registro della disseminazione, passando e ripassando i luoghi della piacevolezza e fuggendo quelli dell'infelicità oppressiva. Come se, contemporanea- mente, si scontrassero una grande voglia di stare al mondo e l'elezione di una solitudine arcana, un volere comunicare le proprie scoperte per lenire i mali, per fare più belli i luoghi, più magiche le favole, ridenti sullo scranne dell'utopia consumata nella perdita dell'illusione, nel tormentoso cammino della storia.
Sironi artefice si confronta con Sironi speculum di trame smarrite nel corso del tempo, nell'attraversamento dello spazio, in una totalità intuitiva che suggerisce dietro le quinte di un invisibile che è pronto ad intervenire, ma è anche potenziale referente di un etemo dell'ombra.
Sironi riesce a star dietro i flussi della coscienza assolvendo al ruolo costruttivo del razionale, come un completamento della propria natura nelle direzioni molteplici di un'esperienza complessa delle soluzioni; al ventaglio degli interrogativi nuovi che vengono ad assommarsi alle paure di sempre, alle incertezze, ai dialoghi con la morte, quella propria e quella altrui vissute come spinta della rimozione, come abolizione stessa dell'immagine, come dissolvimento del dramma. Tragedia personale dell'io che vede le cose che forma nel segno e le altre che lascia sfuggire con la stessa saggezza del Sileno che non detta i responsi, trattiene per se le lacrime d'un accadimento scritto nel codice genetico dell'uomo.
Sironi, dall'alto del suo genio creativo, è riuscito a dare immagine ad un grande fantasma esistenziale, dandoci i contorni e i particolari di lontane vedute e primi piani dell'esaltazione nella luce meridiana del ritmo e dell'armonia, dell'alienazione nel crepuscolo del fantasma senza corpo. Dalla visione d'insieme emerge un completamento continuo dell'essere metaforico e dell'essere nel tempo, con particolari e ammissioni da riempire il grande libro di ciò che non è mai uguale a se stesso, che cambia col cambiare della prospettiva psicologica, tanto da affascinare o terrorizzare, come può fare solo chi abita un'interiorità ricca e molteplice, con un dialogo interiore che occupa piccoli e grandi spazi, da cui ogni tanto si distoglie per guardare ad altro. Un "altro" che finisce con il prendere le sembianze alterate di un'unità con gli abiti menzogneri del frammento.
Lusinghe metafìsiche e ipotesi realistiche sono, nel mondo sironiano, due facce della stessa medaglia, in quanto rappresentano l'esigenza di un allontanamento dal vincolo della somiglianza e un successivo ritorno al reale come tema razionale e intellettuale. Perché Sironi è un ragionatore che non perde mai di vista lo scopo della teoria, della verifica dei poteri dell'intelletto, che non necessariamente deve essere posto a distanza ravvicinata. E ciò emerge con nettezza da tutta la sua riflessione diaristica e giornalistica, in cui non c'è mai un fine a se stesso che si giustifichi, ma tutto è immerso in una costruzione concettuale che prevede un complesso di relazioni materiali e spirituali, narrative e poetiche, per fare l'uomo più uomo e per fa- re il vivere più profondo e vero.
Sironi è sempre guidato da un senso di verità che non ammette compromissioni, e lo porta a sfidare ogni senso comune e scontato, e ogni piacevolezza, in favore di una giustificazione del percorso non lineare, come mai può esserlo quello della progettualità che si misura con le pietre e le idee che fanno del sottosuolo la voce e il volto di un popolo che da duemila anni e più edifica se stesso. Sironi è l'anima della profondità italiana diffìcile e contorta, dove avviene di tutto, senza mai esaltarsi troppo, anzi con una insoddisfazione cronica, di precarietà e difficoltà, anche se su queste "rovine" concettuali, psicologiche, storiche, si sono costruite le cattedrali di Dio e quelle dell'uomo. Sironi avverte la mancanza nella nostra cultura di una teatralizzazione tragica dei sentimenti, di una filosofìa e di un pensiero della dannazione e dell'esaltazione, per cui si grava tutto sull'affidamento estetico che diventa la camera di compensazione di questa assenza e la derivazione di una missione sociale dell'arte.
Sironi, più di Carrà, più di De Chirico, più di ogni altro apparentabile alle riflessioni michelangiolesche, pensa all'arte e alla comunicazione come essenzialità gianicolare, densa di espressioni e di interrogazioni di un saper vedere dentro le cose, nel riferimento alla rappresentazione come realizzazione dell'individuo e del suo ritratto. Il suo abbraccio con le logiche del tempo e dello spazio può scandalizzare solo piccoli ipocriti, lontani dagli squilibri della poesia e delle eresie del ragionamento, sempre pronti a tirare le pietre, quelle stesse pietre che per Sironi sono le sagome accidentali dei crolli delle certezze, nella disperata capacità di partire di nuovo. Sironi è, contemporaneamente, un uomo nuovo e antico, pauroso ed eroico, nel reggere la prima fila, dove s'incontrano la vita e la morte.
La metafìsica, come astrazione da ogni circostanza aggregante, come possibile uscita dal corpo pur restando nel corpo, lo attrae mentalmente. Si tratta per Sironi di una autentica avventura culturale che fa dell'arte una protagonista assoluta nella perdita del peso dell'illustrazione in favore della suggestione metaforica e allegorica. Come una purificazione dai miti dell'alienazione e della reificazione, attraverso la messa insieme di una nuova teoria e di una nuova prassi, resa possibile dalla sbarazzante lezio- ne futurista. Due eventi impensabili che sono accaduti nella cultura italiana come fatti rivoluzionari, che hanno trasformato il fardello pesante della storia in ricchezza di riserve nell'affrontare il mondo nuovo del macchinismo, della simultaneità, cioè l'autentica opposizione al mondo finora conosciuto. Sironi compenetrandosi nella nevrosi futurista e nella polarità metafìsica ha reso possibile a se stesso l'esposizione ai raggi della trasformazione, della tradizione, dell'innovazione, oltre lo spirito d'avanguardia, oltre lo spirito del ritorno.
Sironi anche quando è ideologico in senso formalistico, come lo è in questi due momenti (futurista e metafìsico), non perde di vista il mestiere dell'artista, del pittore, del disegnatore, che fonda l'opera oltre i limiti della parola. Dare visibilità all'intuizione, al movimento, alla fissità, non può prescindere dalle capacità di cogliere quello che agli altri sfugge, di scartare quello che è da tutti accarezzato. Sironi attraversa la catastrofe marinettiana, l'etnografìa umanistica dechirichiana non perdendo mai il senso di mistero che è della traccia e del segno, che non si lascia mai catturare dal gioco nuovo come se fosse definitivo. Eppure nei momenti della presa di contatto, dell'acquisizione dell'ordine, non c'è resistenza, non c'è impermeabilità — questo caso mai ci sarà dopo — nella presa di distanza che segue, quando la rivoluzione tende a trasformarsi in ossessione.
Sironi non si lascia mai irretire dall'accademia che segue la tempesta, preferendo la povertà dell'erranza alla tranquillità della permanenza, facendo della contraddizione la vera novità della novità, mentre tutte le altre acquisizioni terminologiche e linguistiche, adesioni all'attualità eroica o disperante, proclamazioni ideologiche e propagandisti- che non sono che necessarie fuggevolezze. Il gesto che si ripete senza un vero motivo poetico, diventa sclerosi della fantasia, luogo della sua obliterazione nella pace dei sensi, mentre Sironi consacra l'eterna giovinezza come sincronismo dell'arte che non può essere ne antica ne moderna, ma attuale, come lo è il battito di un cuore.
Il realismo come applicazione dei termini di riconoscibilità del mondo dentro i confini permeabili dell'arte, rappresenta il punto di confluenza tra le potenzialità inventive della fantasia e quelle correttive della materialità storica. Perché non esiste l'assoluto in nessuna condizione possibile o immaginabile, quindi bisogna destreggiarsi in strettoie e varchi, sempre più contaminati, della cultura di massa, dal moltiplicarsi degli ambiti di comunicazione e percentuale del messaggio artistico. Sironi lo concepisce come mezzo di rivoluzione personale dei rapporti umani, di caduta nelle griglie della condizione media nell'impero dell'anonimato, espressione di una nuova condizione della schizofrenia nell'identificazione per ognuno e per ciascuno, di uno spazio risolto e limitato, eppure rivolto nello sconfinamento ineffabile.
Sono le atmosfere delle periferie urbane, vere e proprie strutture di un immaginario sconvolgente e depresso, nella solitudine dell'inventare, architetto dell'universo, nel destino della morte, fonte d'angoscia che s'abbassa solo al tramonto della vita. Sironi partecipe di un disegno d'ingegneria politica, inebriato da un protagonismo affascinante che gli permette d'essere nel contesto dove s'avventurano il bene ed il male, scopre la grandezza del- l'uomo rispetto al catalogo delle proprie stesse opere, e la sua insufficienza rispetto agli argini travolti dal desiderio, all'incontenibile passione dei sensi. Politica e sociologia, economia e follia, vengono fuse nell'illusione dei sensi di potersi ergere a potenziale rivelatorio e Sironi si lascia cogliere da tale flusso tanto da sentirne un futuro di rapide, di cascate, dal piccolo scricchiolio al grande rumore. Sironi prevede lo svolgersi delle ore future, facendo degli intrecci del presente il laboratorio delle forme e dei contenuti, la soluzione impossibile delle vertenze fra conservazione e innovazione. Tutto ciò lo porta a travolgere i ritmi, a segnare le paure di un impegno a tutto tondo, di poesia e critica, di religiosità e utopia che si scambiano le connotazioni, dando lievità alla gravita troppo soffocante e dando unità alla frammentazione dell'umore.
Tutto per un supremo amore di autenticità, di risoluta cancellazione delle distorsioni ideologiche della ragione, come elisione della disperante auto- coscienza dell'inutilità dell'arte contemporanea. Sironi, sostenitore del ruolo centralizzante e unita- rio del pensiero artistico nella prospettiva del bene di vivere la città come quintessenza della liberazione, piuttosto che come corruttrice di un'originaria ignoranza, disegna l'immenso labirinto della vita, come percorso obbligato per ogni purificazione intellettuale del destino, di ciascuno e di tutti.
L'inclinazione al taglio forte, all'espressionismo concreto delle cose, lo porta ad assumere una posizione di elevata concettualità, facendone strumento di riflessione nello specchio privato e suggestiva macchina di carta vincente nell'impegno pubblico. In tali lavori eclatanti e sommersi si svolge una storia, che è la sua personale, al cospetto del disordine di una società industriale sempre più sconvolgente dei bisogni dello spirito, nel corrispettivo crepuscolare della solitudine. La cui manifestazione mas- sima si esplica in mezzo alla folla, tanto perversa e orripilante da diventare invisibile oppressione del senso comune delle cose, con la regressione della vita nel sogno e del sogno nell'incubo.
Sironi trema, al limite della disperazione, ma riesce a superare sempre la terribile anabasi werteriana, a scansare la dissoluzione nel nulla con l'ausilio dell'interpretazione del dubbio, del recupero estetico dell'etica. Un filo sottile gli permette la dislocazione dei pensieri, in rapida sequenza di premesse ineluttabili che non possono essere evitate una volta che si è scelto un modo di essere e di manifestarsi, e la scelta di Sironi è per la composizione del ruolo dell'artista nella molteplice macchinosità del simbolico. Così si articola un enciclopedico volume di progetti, sempre pensieroso del ruolo della conoscenza per la mutazione degli orizzonti della storia. Tutto questo fino al soqquadro che lo porta lontano dalla città dell'uomo, e quindi dalla temperie dimostrativa e dialogica, in rifugio nel se ipsum nella "fuga" dallo spazio aperto, per la confidenza nelle mura dell'atelier. Sono gli anni Quaranta della guerra contro la speranza, contro l'uomo, del naufragio nelle profondità dell'offesa. E tutto cambia. Cambia la poetica sironiana dell'esemplarità, delle titanicità dell'arte che può sconfìggere i mostri di dentro e quelli di fuori, e nasce l'ottica più intima della rarefazione della luce, mentre tutta una sua prospettiva esce dal corso arterioso della vita, con una grande macchia, che addolora Sironi, ma non è la sua macchia.
Trasversalità tematiche incrociano l'universo sironiano, complicandolo di illusioni e delusioni, di una nuova solitudine che lo allontana dalle strade del mondo per portarlo ad una più ravvicinata scrittura di secretum visivo. Con evasioni paesaggistiche che so- no autentiche incursioni in una arcadia che testimonia della purezza del suo animo, della sua innocenza di vecchio che non s'è fatto corrompere dagli avvenimenti, mantenendo la capacità di stupirsi, di vagare in compagnia di ciò che non muore.
Il senso umanistico della libertà. Senza ritorni di tipo nicciano, senza ricalchi di passi perduti, con un sostanziale ottimismo estetico che equilibra il pessimismo prodotto dagli eventi esterni, e così corrono gli anni ultimi in cui il lavoro diventa sostituzione della vita stessa. Trovare nell'ultimo Sironi una maggiore dose di tristezza e pessimismo non vuoi dire assolutamente cogliere una defaillance, piuttosto una indulgenza parallela alle pulsioni e alle valutazioni che accompagnarono le mutazioni d'umore, di sensibilità, di psicologia: in sostanza la stessa percezione di tempo e di spazio, la stessa nozione di futuro.
L'assenza forzata di una utopia di futuro non isterilisce la vena inventiva di Sironi, la indirizza verso il frammento e la rapsodia, in un cogliere l'attimo per quello che può dare. La sua mano continua ad essere sicura, a cogliere ogni spunto che possa illuminare luoghi dell'incomunicabilità, proprio quando essi si estendono sul ritmo personale della cronologia limitata, con le ore contate. Un viale lungo in cui il tramonto è stato visto da Sironi come occasione per occuparsi di cose che prima potevano sembrare futili, quando con il tempo correvano le passioni e con esse il gusto del detto e del contraddetto. Sironi non cade mai nel puro formalismo, nella pura astrazione della scrittura, come accademia della calligrafìa, compreso com'è nel dolore per il titanismo infranto dalla durezza della storia e dalla perdita delle forze fìsiche del corpo. L'intelletto non è cambiato, è ancora capace di amare e di odiare, forse più di prima; eppure Sironi ritiene opportuno attenuare le sue asperità e tutto il suo lavoro diventa ricerca del quid struggente nella concretezza del segno, del disegno, del colore. Un diario in cui le referenze fìsiche sono trattate in senso minimale, in modo da conservare il massimo di significati possibili, al di fuori di ogni mitizzazione sclerotizzante.
Sironi tratta le immagini come se avessero una vita propria, un'autonoma inclinazione dialogica, oltre le soglie dell'apparenza, come succede nel lavoro di grandi artisti, che stanno sempre sulla soglia dell'imprendibilità, dell'imperfezione alta, della trasgressione ricca di citazioni e differenze. Sironi trova quella libertà di linguaggio che gli permette di far crescere la pittura come deposito complesso di forme e colori che conservano il senso della costruzione architettonica ideale, che era stata la fonte del suo pensiero al tempo della sintesi delle arti, quando tutto sembrava orientarsi per un rapido inveramento del pensiero moderno, di- retto dai mille fini invisibili della razionalità. Una razionalità che non rivela tutta la propria forza, ma la mostra nelle linee di tendenza di una appropriazione estetica dello spazio, di quello chiuso e di quello aperto, come superamento della decorazione, della discontinuità.
Sironi come esponente di una aurea stagione culturale italiana, ha rifuso il vigore costruttivo dello spostamento della conoscibilità, immettendo elementi di ordine nel caos, sentendone tutto il peso, tutta la gravosita, tutta l'insufficienza. Dal primo all'ultimo Sironi il cammino percorso è tanto, e metterlo insieme è come permettere l'ampliarsi di una metafora sulla dorsale di una linea serpentina, ora paziente, ora furente, nell'entrata ed uscita da tunnel scavati nella durezza di una civiltà concepita come una crescenza babelica.
Parlare, dire qualche cosa, quando sovrastano mille pensieri è molto più diffìcile che tracciare un solco nel terreno vergine, attenti come bisogna essere ad evitare abbreviazioni incongruenti, ma anche dilungazioni su discorsi già fatti, estenuazioni su forme esaurite dal tempo, perdendo di vista i processi di realizzazione che scartano a forza i campi dell'omogeneità, orientati dai codici di nuovi alfabeti. Coscienza infelice del limite, come mancanza di risposte ai molteplici quesiti posti dall'avanzare della civiltà con il suo travolgente movimento tellurico della stabilità naturale, verso l'incombere dell'artifìcio e delle convenzioni. Che poi non sono altro se non le testimonianze di altre drammatizzazioni esistenziali, consolidate in tracce d'immaginario, depositate in diversi tempi e in diversi luoghi, con stratificazioni di stile che impongono la loro lezione di identificazione ma anche di differenza.
Sironi non sfugge assolutamente il confronto con la storia, che è cosa diversa dal tirannico controllo che essa finisce con l'esercitare sulle coscienze de- boli impedendone ogni evoluzione stilistica. Il suo confronto è con gli spiriti rudi della memoria, quelli che configurano un passato di sfida all'ignoto e di elevazione al cielo degli spiriti forti e liberi, che fanno della regola il punto di forza, la leva per sollevare i quesiti del mondo. Dallo spirito antico, umanistico, che trova in Masaccio l'estrinsecazione più pesante e problematica, allo spirito sublimato di Piero della Francesca capace di raccogliere l'anima abitante nelle cose visibili dando l'idea di una progettualità che non si limita a rispecchiare, ma è capace di inventare con tanta forza e vigore da sfiorare i limiti della creazione. Limiti che portano al pensiero di Dio come desiderio dell'umano a misurarsi con l'arditezza dell'ineffabile, negli alti e nei bassi della fortuna, visti come contraddizioni dello spirito nel lungo itinerario per la sconfìtta dell'infelicità.
Nella storia delle idee, delle cose e degli uomini, si alternano gli ottimismi ai pessimismi, mentre a forza di spinate analitiche e di strettoie sintetiche, si finisce per essere soli, e tutti appaiono lontani fino alla disperazione, alla coltivazione di pensieri senza futuro.
Sironi passa dalle stanze decorate della storia a quelle nude dell'attualità, dove tutto è scrivibile e niente riesce a dare sollievo al senso di perdimento del pensiero nel nulla. Incontra se stesso e instaura un dialogo intenso, il primo riferimento di ogni impegno civile riferito ad una millesimale pietra dell'utopia ritrovata. E si fa pellegrino di un itinerario duro ed incerto di gravature e sfumature, d'impazienza e d'incertezza, quanto di nuova sollecitazione ad andare oltre quel confine, recuperando in se le schiere dei militanti del passato con i fantasmi di ciò che non riesce ancora a prendere forma.
Sono le dure repliche della molteplicità all'idea unificante di un analisi che pretende di dire tanto e alludere al resto che manca, con la semplicità del gesto che insegue di tratti un foglio di bianco, violando i segreti della verginità in favore di uno stupore compositivo attento o distratto ma sempre fortemente concettualizzato. Perché Sironi non fa mai conti fino in fondo con l'automatismo, controllando il gesto quel tanto che lo fa corrispondere all'idea, al senso classico originario rispetto a cui misura il suo espressionismo, la trasgressione verso il nuovo.
Un nuovo che Sironi fa nascere verifìcandone il potere di evocazione di plasticità, di fisicità che non si esime dal confronto duplice con l'universo dell'arte e con quello della duplice esteriorità naturale e artificiale. Fino in fondo al tunnel della luce e dell'ombra, che è la vera prova di consistenza di ogni fondamento pittorico, di ogni riscontro mimetico, nell'istaurazione di un rapporto che non è di un prima e di un dopo, ma di una diversità reciproca, del rigore strutturale che il disegno porta al- la pittura, della soffice patina tonale che il colore spalma sulla continuità del segno. E proprio adesso che il disegno artistico, morale ed etico di Sironi non è più un segreto, che è possibile carpirne le implicazioni genetiche e le maturità polimorfìche, che si manifestano nei cicli tematici, tenendo il passo con le inclinazioni implicite del momento.
Sironi attraversatore di stili e di altrui esperienze, diventa emblematico di un essere ricercatore e trovatore di spunti e di soggetti che vengono inverati da un senso dell'arcaico che è rigore nel non con- cedere nulla al superfluo, in una concezione linguistica della simbologia come dissimulazione del- l'assenza di contenuti filologicamente accentrati. Sironi è ben felice di correre il rischio di una citazione spostata, nella consapevolezza che il passato in se non esiste, ma è solo una folgorazione del presente nei confronti del temporis arti, che non è mai uguale a se stesso, ma cambia insieme a noi, invertendo lo stesso concetto di tradizione. Sironi, rispetto a noi, è già passato, e siamo noi che abbiamo bisogno di lui, ed è grazie a lui, al suo "passato presente", che il cono d'ombra di un male di vivere di stress metropolitano diventa squarcio di luce, rinnovando il meraviglioso cartomantico di un'arte a doppio volto per se e per la vita.

POESIS

Nell'idea e nell'azione di Sironi c'è sempre un tratto esemplare di tipo educativo, soffermato sulla leggibilità dell'opera a grande distanza, sulla visione profonda che deve caratterizzare le forme tipiche della comunicazione per immagini. Per cui, nelle opere di Sironi esistono delle smagliature perforabili dal tratto scorrevole delle decifrazioni, una strategia della riconoscibilità, attenta ad essere voce per tanti, quanti più possibile. Ma, nello stesso tempo, c'è una profondità che non è stata intaccata, anzi è stata paradossalmente preservata dal senso solitario della rappresentazione, dal suo stagliarsi nella temperie della solitudine oppure dalla nebulosa della pittura larga, tormentata a più non posso da lunghe stesure di non finito. Una pittura fatta da grandi idee, da vigorosi costumi della civiltà, senza parentela con il realismo privo di sostanza, come quello socialista, tutto forma senza contenuto, tutto esclamazione senza contrizione. Sironi rende l'anima alla sua pittura, la fa diventare una laica estrinsecazione del mistero dell'esistenza, del silenzioso attuarsi d'una regola universale della sofferenza e della gioia, del patimento e dell'esaltazione. Per cui il suo espressionismo risulta tutto speciale, figlio del gigantismo di Picasso, ad esso raffrontato da una specularità esterrefatta dal topos, dalla composizione unitaria del frammento. Sironi compone, nella sua idea dell'uomo e del mondo, tutto quanto trova allo stato di relitto e di designazione, arrivando ad immaginare l'alba di una nuova creazione in cui l'uomo sia protagonista d'una grande stagione di santità, anche pensando che la perversione è ineliminabile dalla concreta prassi del fare, del costruire, anche quando somiglia alle segrete speranze della trasfigurazione alchemica.
Poesis come concreto commisurarsi del risultato con l'intenzione, come misura dello scarto fra ciò che esiste nel fantasma delle idee e ciò che può essere tirato fuori dal complicato muoversi della mano. Poesis come dramma della resistenza alla poesia dell'ulti- ma pietra dell'edifìcio su cui la grande rappresentazione vivrà l'apoteosi della scena, della celebrazione del mito e della retorica. Anche quando mito e retorica sono compromessi da troppa altisonanza che tende a squalificarli ingiustamente. Ma che guaio sarebbe una esistenza senza l'aura del mito e senza la preziosa sapienza della retorica! Sarebbe come se la vita dello spirito potesse vivere di ardimentose performances, senza la suggestione del genio, del gigante.
Certamente per questo Sironi sta vivendo la gloria di un ritorno di una fecondazione, diretta e indiretta, di tanta pittura giovanile, di tanto fermento figurativo ed astratto che non può volgere lo sguardo dall'altra parte. E guarda a Sironi con la segreta speranza di cogliere il segreto dei suoi cartoni allegorici, delle sue metafore, delle sue ironie, delle sue sacralità. Tutte comprese ad illustrare il lato non verbale di un discorso senza fine che at- traversa la modernità, tanto desiderosa di originalità, quanto bisognosa di appartenere alla storia. Per trovare nella sintesi che poi non è mai tale in assoluto, se non nell'apparenza, la composizione di tematiche che avrebbero avuto bisogno di filosofìe organiche alle spalle, per essere realizzate. Sironi le ha realizzate con il supremo sforzo della sua volontà, con la sua totalitaria immersione nel- la materia della pittura, senza lasciare nulla fuori, in un compimento eroico e sublime del gesto.

FRANCESCO GALLO
Critico d'arte

Mario Sironi: valori poetici e dimensione storica
di Luigi Tallarico

Una rassegna sulle opere di Mario Sironi appare, oggi, non soltanto necessaria sul piano critico ed estetico - e per questo va lato merito alla sensibilità del Presidente della Provincia Regionale di Siracusa - ma soprattutto indispensabile sul piano storico, onde collegare al nostro tempo italiano ed europeo la "straordinaria incredibile vitalità culturale degli anni Trenta", per ripetere le espressioni dello storico Federico Zeri. E stato proprio lo studioso del Rinascimento della Controriforma, che ha individuato i possibili riflessi sull'autenticità dell'arte delle immagini li culto, a correggere la distorsione attribuita all'opera di Sironi, un artista attento al valore esteti- o e alla portata storica dei fatti artistici, ribadendo - senza peraltro venire meno alle sue personali idee politiche e speculative - che "Sironi è un artista di straordinaria coerenza, un uomo che credeva in quello che dipingeva".
L'artista infatti, proprio per questo "grottesco manicheismo" (leggi: interpretazione riduttiva, in termini politici, della sua opera) è stato "la principale vittima di una specie di moralismo alla rovescia, che ha tentato di imporre la propria volontà contro quelli che erano dati di fatto precisi". "Questi dati di fatto" , ha soggiunto Zeri, "hanno confermato che Sironi è storicamente l'interprete della vitalità culturale dell'Italia tra il 1910 e il 1933", per avere accettato con una coerente translitterazione poetica "la spinta non solo del futurismo, ma anche dell'ideologia fascista, che viene fuori al futurismo". D'altra parte, le "importantissime conquiste" culturali di quel periodo (che hanno indotto di recente gli studiosi dell'Università West Coast di San Francisco ad approfondirle in un convegno dal titolo: "Fascinating Fascism") sono state poi, dagli antifascisti refoulés, sia italiani che europei, "deformate ad uso e consumo di un'ideologia del tutto sciocca e assurda".
In definitiva lo storico Zeri si è posto contro il perdurare di un antifascismo di comodo e negatore : dei valori storici, in una Italia in cui "si assommavano soltanto i dati di una realtà esterna, dimenticando che la storia d'Europa non può essere considerata a compartimenti stagni". "In conseguenza" prosegue Zeri "non possono che far ridere coloro che, dopo essere stati interventisti e aver provocato la morte di tante persone, si son messi a fare i pacifisti e gli antifascisti, cioè pretendevano che tutto tornasse come prima". "Si dimentica" ha detto testualmente Zeri "che il fascismo nasce come reazione a un paese molto fragile. Il fascismo ha tentato, ma era già nell'epoca in cui stava finendo la grande spinta della storia. Posso dire quindi che il fascismo, anche il fascismo di Sironi, è stato un fatto positivo, non negativo. Si potrà non essere d'accordo sul contenuto delle opere di Sironi, ma quello che conta è il valore formale, che senza negare i valori poetici si collega acutamente al tempo della storia". "Pertanto" ha concluso Zeri "distruggere la storia mi sembra che sia una cosa infantile, immatura, puerile, assurda! Io posso capire come nel- l'antica Roma imperiale si decretasse la damnatio memoriae ad un imperatore come Domiziano o come Commodo, ma si trattava di cancellare le immagini di un personaggio inviso, non di devastare dei monumenti o addirittura di rimuoverli, ciò è cosa grottesca, assolutamente da condannare". Le affermazioni di Federico Zeri sono una chiara risposta a chi ha creduto, ieri come oggi, di demonizzare Sironi e di murare i suoi monumenti, colpevoli di avere interpretato, con un alto valore estetico, proprio quella storia che è, in quanto è stata, e che trova le sue cause nei fatti e negli atti che l'hanno preceduta. Del resto in un'Italia in cui il potere pubblico non sa più ispirarsi all'idea di uno Stato come identità comune e vorrebbe abituarci a vedere in maniera strabica o a ridurre tutto all'alternanza dei bisogni e dei consumi, appare d'obbligo affermare che gli interessi e i punti di vista tra il Palazzo e la Comunità sono da ritenere affatto inconciliabili. Ne esce offesa la "degnità" vichiana, se è vero che per il filosofo napoletano "i governi debbono essere conformi alla natura degli uomini governati". Si tratta invece di un potere che non sa pensare in maniera unitaria, o se si vuole, secondo l'idea che ha ispirato a Sironi l'Italia Corporativa, nella contemperazione dei bisogni del Singolo con gli interessi della Nazione, ma solo un potere che agisce in senso settoriale, in termini di "gilda" difensiva di questo o di quel clan privilegiato, persino in termini di "famiglia" mafiosa, a protezione (violenta) di interessi tribali di categoria.
A causa di questa cinquantennale deformazione di una ideologia che ha creato un sistema e un probabile regime, non si sa più discernere tra l'ideologia consolidata e il valore del messaggio lanciato all'Italia da quel geniale artista che è Mario Sironi, e per il quale, come non vi è una "disciplina formale" e "una concretezza di stile" per ogni soggetto, così non vi è nei molti una "gerarchia" di valori, se essi debbano poi soggiacere alla funzione di corrispettivo, a beneficio degli interessi egoistici delle categorie privilegiate. Diceva infatti Sironi che il bisogno di appartenere "solo a se stessi" comporta per l'arte "il tono dello straccione e del rivendugliolo" oppure il "valore non concreto, ma astratto" per gruppi elitari. Si deve forse a questa settorialità se i riduttori della grandezza e della complessità dell'arte sono portati a conclamare "con democratica prepotenza che lo scopo dell'arte è una umana espressività, indipendentemente da ogni concetto di superiore e sostanziale gerarchia o disciplina formale". Ed è per questo che i nuovi gruppi privilegiati continuano a tagliare i ponti con la storia del nostro comune passato, nella convinzione che solo così si potenzia il proprio "buonismo" e la propria "individualità", mentre invece si accresce soltanto la sradicata settorialità dei gruppi e l'ipocondria dei popoli. Una ipocondria documentata nella recente Biennale di Bonito Oliva, che, come si sa, ha radunato le espressioni scombinate degli allogeni, dei nomadi di tutto il mondo, cioè degli "stracquati" come nel Sud chiamano gli sradicati, i deracinés, credendo così di avere abolito i caratteri peculiari dei popoli, la memoria delle origini, la continuità della storia. Ha invece affermato Sironi che proprio "per questo abbiamo chiesto, noi e non loro, il ritorno alla parete e alla decorazione: meglio un buon decoratore che centomila quadrettisti".
Quei "quadrettisti" a cui si demanda il compito di ornare i "salotti borghesi" e i luoghi deputati al decoro di "chi vuoi continuare a fare lo scaccino sull'altarino del proprio io sensibile e della propria malinconica concezione dell'arte". Ossia "a chi riconduce l'arte ai vecchi e arruginiti schemi, incapace di comprenderne dei nuovi maggiori". In- somma a chi "vorrebbe misurare Mosè col metro del sartore". Mentre invece viene confermato da Sironi che "la pittura murale, come il bassorilievo, dall'affresco all'arazzo, dal pavimento alla vetrata e al mosaico, è decorazione, così come sono decorazione i catini immensi di Ravenna, le stanze di Raffaello, le sculture dei portali gotici". Si ribadisce cioè che "quadri e tavole furono per lungo tempo composizioni relative, rifinite all'ombra di antiche leggi murali e perciò legate al bisogno di vita civile, al decoro sociale, all'insegnamento reli- gioso e del sacro di una comunità che si serve del- la memoria storica come promozione al credere e al vivere. Non come erudita citazione o arredo culturale del singolo. E nemmeno come stilema estetico, astrattamente considerato come pelle de- gli angeli, per i più sensibili o per i malinconici visualisti della purezza astratta. "Si è trattato invece di sollevare la pittura dagli impegni meschinamente - pur se squisitamente - intimistici e privati, di levarla dal chiuso degli appartamenti, per restituirla ai grandi spazi, alle navate dei templi, alle aule dei palazzi pubblici".
Ma nonostante le perduranti incomprensioni, iniziate già durante il tempo degli atti sironiani, e nonostante il convincimento che al fondo dei suoi contenuti vi è una carenza spirituale da "coscienza infelice", come Ugo Ojetti aveva definito le opere da cavalletto del suo primo periodo, l'artista delle "Periferie urbane" ha invece da sempre denunciato il malessere provato dai molti rispetto ai pochi privilegiati, specialmente la diminuizione spirituale in cui il capitalismo ottocentesco della prima fase aveva mantenuto il lavoratore. Quel lavoratore assente e pur tensivamente presente nelle periferie urbane e nelle fabbriche spettrali. Ma Sironi ha anche da sempre avvertito - con le opere murali - che ai lavoratori riscattati per volontà di Patria non era più consentito il pietismo e l'autolesionismo, ma era invece d'obbligo misurarsi con "le figure e le espressioni dell'antichità", per riportare la Patria delle arti e della tradizione all'espressività del nostro tempo, ossia "a contatto e a misura" ha scritto Sironi "con le superstiti grandezze". In effetti, con le opere murali, dalla vetrata della Carta del Lavoro, eseguita per il Ministero dell'Industria, già delle Corporazioni (realizzato su progetto di Piacentini e Vaccaro), all'affresco delle Opere e i giorni, eseguito per la V Triennale, dall'Italia Corporativa, la maggiore opera pubblica di Sironi, fino all'affresco per l'aula magna dello Stu- dium Urbis, ritornano i miti e i riti decorativi della grandezza antica, nonché i temi connessi al concetto gentiliano della creatività del lavoro, inteso da Sironi come proposta per la civiltà della partecipazione, non più come fatica o dannazione biblica, tanto meno come rapporto utilitario ed economicistico. "Considerate gli antichi e i moderni" si legge nello Zibaldone "e vedrete una gradazione incontrastabile e notabilissima di grandezza".
Guardando agli antichi e ai moderni Sironi poneva le basi della rinascita della pittura monumentale, tesa a far scoprire il proprio tempo emergente alle forze popolari, fuori della produzione di una quadreria dominata dall'estetismo solitario e destinata a sostenere il decoro borghese. Mario Sironi infatti puntava sui muri della città per rendere vivo e persuasivo il messaggio rivolto alle moltitudini che abitavano i grandi agglomerati urbani, e compiere così quel legamento storico che se era emulativo nei confronti degli antiquissima signa della tradizione italiana, era soprattutto operativo nei confronti di un presente corrusco di storia. Un presente, occorre dire, consapevole della conquistata grandezza e del primato che presto l'Europa riconoscerà all'arte italiana del XX secolo.
Volere pertanto oggi scomporre le opere sironiane in termini di "episodi crudeli" e di "cupo sarcasmo" - da una parte - o di "miti retorici e vuoti" — dall'altra - significa non vedere il disegno unitario che sta alla base dell'intera opera sironiana. Ma significa oltre tutto portare avanti i luoghi comuni, nati da una letteratura semplicemente dissenziente. Significa dare credito alle contrapposte tesi, nate dall'insospettabile monografìa di Massimo Bontempelli (1952) o dalla fin troppo sospettata disquisizione ideologica di Mario De Micheli, dalle quali viene fuori un Sironi in egual misura impegnato o disimpegnato, dedito ai "colorismi" metafìsici e decadenti o ai segni marcati e irrelati dell'espressionismo. Sicché l'operazione di ricondurre la solitudine di Sironi nel rifugio spoglio dell'arcaismo o nel museo dei primitivi italiani, ha fatto il paio con quella che vuole Sironi "angosciato" e "cupo", provvisto di "una risentita aggressività, che arricchisce di nuove sfumature... le deformazioni caricaturali", che vanno "al di là della forma" e come proposito di mettere a nudo "le cicatrici della sua anima".
In effetti già Roberto Tassi, esasperando la visione bontempelliana, si era incaricato di coinvolgere la solitudine di Sironi in quella disumanizzazione e in quella "disposizione di spirito" evasiva e pronta ad "arrendersi", come poco dopo affermerà Maurizio Calvesi, il quale, equivocando sui termini orbato-orbace, ipotizzerà una "resa" spirituale di Sironi, il cui lenimento si ritroverebbe nel "rifugio" atemporale, ossia nel tempo senza tempo dell'opera. Senonché, l'equivoco espresso da Roberto Tassi secondo cui Sironi "non penetra nella vita, non ne patisce o ne gode il bene e il male, ma, chiuso in una visione astrattamente pessimistica, la rifiuta come stimolo o come materiale complesso di lavoro, non ne intende quindi la infinita molteplicità di rapporti e di germinazione", si allarga o si restringe a seconda del punto di vista ideologico dei recensori, avendo l'opera perduto il suo riscontro semantico. Con la conseguenza che il giudizio critico perde il riscontro dei momenti e degli atti della storia, nella sua continuità.
Non si può infatti ignorare che mentre nelle opere murali Sironi aveva di fronte una "società ordinata, operosa, senza tensioni ne dialettiche", secondo il giudizio di Federico Zeri; nel cosiddetto "desolante" panorama architettonico delle "Periferie urbane", oppure nella lacerata condizione umana delle "Apocalissi", Sironi è protagonista e spettatore di due diversi spettacoli della storia, che rappresentano, sia nei primi che negli ultimi suoi lavori, la condizione drammatica dei due dopoguerra. Nel primo scenario della storia, infatti, Sironi è consapevole che il lavoratore è alle prese con il mondo industriale nella sua fase di rapacità ed egoismo e che lo relega nelle periferie insalubri e fuori del centro urbano. Mentre nell'ultimo scenario i lavori di Sironi evocano le "Apocalissi", l'Apocalisse di Giovanni che della storia arcanamente indica il giudizio ultimo: la catastrofe, o piuttosto, come forse avrà pensato Sironi nei suoi ultimi giorni prima della morte, una fiammeggiante catarsi.
Ma prima di lasciare alle immagini il giudizio su Sironi, è forse opportuno affrontare la sua biografìa per conoscere da vicino questo artista, finora più discusso che conosciuto, più giudicato che apprezzato per il valore della sua arte. Mario Sironi era nato il 12 maggio del 1885 a Sassari dove il padre, nato a Como come Sant'Elia e Terragni, cioè di formazione lombarda, si era recato per la costruzione di quel palazzo comunale, in quanto ingegnere del Genio civile. La madre, Giulia Villa, era oriunda toscana come suo padre Ignazio Villa scultore e architetto, autore della statua di Archimede a Siracusa e di un pregiato palazzetto di stile neo-gotico in via del Prato a Firenze. Si deve al nonno di Sironi l'invenzione dell'orologio universale che segna le ore di tutti i paesi del mondo. Nel 1886 Mario Sironi si trasferisce a Roma con la madre, donna di rara sensibilità e di aristocratica bellezza e che aveva fatto della sua casa il ritrovo degli artisti, dei critici e dei giornalisti più noti del tempo. Frequentavano infatti la casa romana di Sironi, nei "magici" pomeriggi domenicali, tra gli altri. Balla e Boccioni, Prini e Cambellotti, Costantini e Spadini, Rambelli e Cardarelli, Marinetti e Bragaglia, Rosso di San Secondo e Lucio d'Ambra, ma anche artisti e musicisti stranieri, residenti o di passaggio.
Mario Sironi "eredita" dal nonno materno, uomo chiuso e severo, "l'amara tristezza che mi rode in eterno la vita" come più tardi, e dopo il crollo del '45, scriverà al fratello Ettore. A Roma avvia gli studi di ingegneria, che abbandona prestissimo per dedicarsi alla pittura e per frequentare l'Accademia di Belle Arti. Nello studio di Balla (1903), stringe amicizia con Boccioni e Severini, sicché nel 1914 è proprio Boccioni che lo chiama a far parte della direzione del movimento futurista. In quella occasione, Marinetti scrive a Severini che Mario Sironi "uomo simpaticissimo, un carattere rettissimo e generoso... prende il posto di Soffici con un ingegno cento volte superiore". Infatti Sironi scrive a Severini (31 maggio 1915): "sono stato ammesso a far parte del gruppo futurista. Speriamo di portare un contributo. Ho tutta la fede e l'entusiamo e una coscienza di ferro". Firma il manifesto futurista Orgoglio italiano.
Dopo essere stato a Parigi con Boccioni, e successivamente in Germania, ritorna in Italia allo scoppio della grande guerra e si arruola volontario. Viene aggregato al battaglione ciclisti insieme a Marinetti, Boccioni, Sant'Elia, Erba e Funi, combatte sull'Altissimo e con i futuristi partecipa all'assalto e alla presa di Dosso Casina. Sciolto il battaglione ciclista, passa al genio e la fine della guerra lo vede ufficiale in prima linea. Nel frattempo collabora come disegnatore alla rivista «Gli Avvenimenti» di Umberto Notari. Nella stessa rivista Doccioni (febbraio 1916) elogia "i disegni sulla guerra del pittore Sironi" e scrive: "Ai piagnucolosi glorificatori di tutto ciò che viene dall'estero, tengo a dichiarare qui che le illustrazioni del pittore Sironi superano per potenza plastica, per interesse drammatico e per spirito ironico, le più celebri e le più copiate illustrazioni di qualsiasi giornale o rivista europea o americana".
Nel 1919 Sironi, pur restando ancora legato al futurismo, manifesta le sue attenzioni metafìsiche. Nel 1920 firma il manifesto futurista Contro tutti i ritorni in pittura con Dudreville, Russolo, Funi. Comincia a sviluppare il tema delle "Periferie" o "Paesaggi urbani", premessa alla nascita della poetica del Novecento. Rientrato a Milano è infatti tra i fondatori del "Gruppo dei sette pittori moderni" che, nel 1922, raccoglierà gli artisti che si chiameranno poi del "Novecento", tra cui Succi, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig e Oppi, nonché gli scultori Martini e Wildt, gli architetti Muzio e De Finetti, il pittore Carrà, "transfuga" dal futurismo e dalla metafìsica. Saranno questi artisti, insieme ad altri occasionali partecipanti, a dare consistenza alle mostre che Margherita Sarfatti e il direttivo del "Novecento" organizzeranno con successo in Italia e in Europa, dal 1926 fino al 1929. Entra a far parte del corpo redazionale del Popolo d'Italia, del quale curerà l'edizione mensile della «Rivista illustrata del Popolo d'Italia», diretta da Giorgio Pini. È responsabile della critica d'arte in quel quotidiano e ne disegna le vignette satiriche e illustrative della prima pagina. Nel 1930 e nel 1933 fa parte del direttorio della quarta e quinta Triennale: quest'ultima verrà definita "l'edizione regina", in quanto "fu la più grande mostra della pittura e scultura murale: un altro motivo di gratitudine per Mario Sironi che la realizzò" (in Corriere della Sera del 29 settembre 1975).
La quinta Triennale, inoltre, rimane memorabile negli annali dell'ente milanese anche perché pone a confronto diretto l'arte italiana moderna (1933) con tutti i rappresentanti dell'architettura e della scultura mondiali, tra i quali Le Corbusier, Kan- dinsky, Klee, Gropius, Mies van der Rohe, Wri- ght. Nel 1927 Sironi si occupa dell'organizazione professionale degli artisti, facendo parte del direttorio sindacale. Partecipa alla XVI Biennale veneziana del 1928 e da quest'anno in poi allestirà padiglioni di mostre in Italia e all'estero, fra i quali quelli della "Mostra della Rivoluzione fascista nel suo decennale", ideando la famosa Galleria dei Fa- sci, che è da annoverare - secondo il riconoscimento odierno degli storici - tra i capolavori espositivi dell'architettura moderna. Allestisce le sale dell' "Aviazione nella grande guerra" e del salone d'onore della "Mostra nazionale dello sport", nonché il padiglione di Barcellona e Colonia con l'architetto Muzio (1928-1929), anticipando le strutture tutto-vetro. Allestisce infine la sezione "Italia d'oltremare" nel padiglione italiano della "Esposizione Universale di Parigi" del 1937. Partecipa al Maggio fiorentino ed inizia l'attività di scenografo, con grande successo. Affresca l'Aula Magna dello Studium Urbis (la prima città universitaria realizzata a Roma) con L'Italia tra le arti e le scienze e prepara anche per la "Esposizione di Parigi" il mosaico dell'Italia Corporativa. E da ricordare anche il balcone scolpito in porfido del Palazzo del Popolo d'Italia (ora Palazzo dell'Informazione) a Milano, per il quale partecipa alla progettazione con l'architetto Muzio, nonché il mosaico della Giustizia tra la legge e la forza nell'Aula di Corte d'Assise del Palazzo di Giustizia, a Milano. In questi anni si pone alla testa, anche in sede teorica, di un movimento per le grandi decorazioni murali di valore civile, religioso e politico. Insieme a Cagli e Campigli, Carrà e Funi invoca "Muri ai pittori". Realizza la grande vetrata della Carta del Lavoro per il Palazzo delle Corporazioni, ora Ministero dell'Industria e Commercio, in via Veneto a Roma, nonché gli affreschi della Casa Madre dei Mutilati di Guerra (entrambi su invito di Piacentini) con Il Duce a cavallo e Il Rè a cavallo. Tutti e due i capolavori sono stati murati al tempo delle togliattiane "radiose giornate", mentre il ripristino dell' Italia tra le arti e le scienze, oltre tutto incautamente condotto, ha menomato — per pura faziosità politica - l'autobiografìa dell'opera, alterando non solo i simboli, ma tutti i rapporti cromatici.
Dopo il crollo del 1945 e la sconfìtta italiana ed europea, Sironi - come Ezra Pound - si chiude in un muto e disperato silenzio. Riprende la pittura da cavalietto, che aveva abbandonato per gli affreschi e per le opere pubbliche murali. In questo periodo espone solo all'estero, da Copenaghen a Oslo, da Boston a San Francisco, dal Colorado a Baltimora. Nel 1954 gli vengono conferiti il premio "Luigi Einaudi" dall'Accademia di San Luca a Roma e la medaglia d'oro del Ministero della Pubblica Istruzione per i benemeriti della cultura e dell'arte. Il 13 agosto del 1961, in una Milano vacanziera e deserta, e in una casa presa in affitto alla periferia di Milano, muore il più grande pittore italiano di statura europea.
L'esame biografico e critico sull'unità sironiana di arte e politica viene da noi perseguito, nonostante che, nell'odierna rassegna, gli organizzatori non siano stati in condizione di esporre le opere pubbliche e quelle murali, per l'ovvia considerazione che si tratta di lavori inamovibili; ma l'indagine appare oltre tutto necessaria per quel bisogno, avvertito da più parti, di colmare il grave ritardo che ha tenuto lontano i nostri critici d'arte dalla ricerca storica. D'altra parte questa ricerca ci interessa molto da vicino, perché ad essa è legata la nostra condizione di popolo, proprio perché il pensiero italiano delle origini, da Gioberti a De Sanctis, ha cercato uno sviluppo non certamente in sede concettuale e speculativa, ma piuttosto sul terreno concreto della politica, perché legato alla forza morale, alla tensione civile, ai contenuti politici di un popolo in cerca dell'unità, prima, e di un primato nazionale ed europeo, dopo. Da qui l'affermazione di Gentile, che aveva, in definitiva, recepito il messaggio di Gioberti e di De Sanctis: la politica non è speculazione teorica e intellettiva, ne potere personale o economicistico: è legata invece alla Polis, cioè alla "attività concreta dello spirito in quanto Stato" nell'interesse della comunità.
D'altra parte la cultura italiana, anche quella dell'Umanesimo e del Rinascimento, non era affatto prodotto della scienza, nata cioè da "cervelli dotti", al contrario essa era sorta "dal desiderio di rinascita di un'epoca ormai invecchiata che voleva trasformarsi e rinnovare". E ciò in quanto i protagonisti del pensiero italiano — nei secoli - non avevano certamente ammassato "un faticoso accumulo di vecchie rovine", ma aveva- no proceduto "ad una nuova costruzione, secondo un nuovo progetto" che si condenserà nel binomio di arte-vita. Nell'anelito di questa unità culturale, i referenti di pensiero sono da individuare nell'attualismo genriliano (l'Umanesimo del lavoro diventa con l'attualista e futurista Bottai materia istituzionale e nasce la legge sulla "carta del lavoro"); nei manifesti del futurismo (il suo fondatore sale gli scranni dell'Accademia d'Italia, accademia senza accademia, definita da Gentile "presidio delle grandi tradizioni ideali della Patria"); nell'interpretazione della Scienza nuova vichiana in termini metafìsici. In conseguenza a Sironi, figlio del futurismo e della metafìsica e saldamente legato al pensiero di Nietzsche e di Sorel, ma anche di Gioberti e di Gentile, viene riconosciuto il ruolo di protagonista e di interprete di tutta un'epoca, vissuta nel clima politico degli anni Trenta, ma depositarla dei valori permanenti della nostra civiltà artistica, ancora validi alle soglie del Duemila.

LUIGI TALLARICO
Storico dell'arte
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