monumento ai caduti Siracusa
Siracusa anni 40
Il monumento ai caduti in Africa è stato progettato nel 1938 da Romano Romanelli e il vero titolo è Monumento al soldato e all'operaio in Etiopia come da ducumentazione sottoscritta dall'artista autore Romano Romanelli:
Precisazione sul nome del monumento a cura di Romano Romanelli
Tratto da “I SIRACUSANI” ANNO IV N.17 GNNAIO FEBBRAIO 1999 Fatti e misfatti di una colonizzazione per la conquista di un “posto al sole”
Lettura storica del cosìddetto monumento al lavoratore italiano in Africa Di Paolo Coriglione
L’opera, destinata alla città di Addis Abeba in Etiopia, è stata realizzata in epoca fascista per ricordare la campagna per la colonizzazione dell’Africa Orientale.
La conquista dell’Etiopia, portata a termine nell’arco di sette mesi (ottobre 1935 – maggio 1936), è la conseguenza pratica delle mire imperialistiche di Mussolini e della necessità di rilanciare il prestigio del regime fascista. La guerra di Etiopia fu accompagnata da una propaganda martellante che insisteva sulla necessità per l’Italia di avere un “posto al sole” e di trovare un sbocco economico per la sua popolazione. L’impresa fu condotta ricorrendo ad ogni crudeltà nei confronti delle popolazioni locali, incluso l’utilizzo di gas asfissianti.
Le vicende della seconda guerra mondiale e la perdita delle colonie ne fermano la partenza. Più tardi, nel 1952, il governo decide di portare l’opera di Romanelli a Siracusa, in Sicilia. Siracusa è scelta come destinazione dell’opera in quanto, durante il periodo fascista, il porto della città aretusea era considerato il più importante trampolino per le colonie.
Il fatto che il monumento sia espressione del periodo fascista, epoca da cui si vorrebbero prendere a ragione le distanze, suscita all’epoca perplessità e dubbi sull’opportunità o meno di montarlo. Dopo una lunga discussione su dove collocarlo fu lo stesso autore Romano Romanelli, ad individuare come luogo ideale lo slargo che si trova su piazza dei Cappuccini, proprio a picco sul mare. Romanelli dà disposizione anche su come deve essere montato, ovvero con la punta (la prua) rivolta verso il mare, in direzione dell’Africa Orientale. Il monumento, prima di trovare una destinazione, rimane a lungo abbandonato in depositi e magazzini, e così diversi pezzi che lo compongono sono rubati o addirittura distrutti.
Il monumento è costituito da una struttura solenne, articolata e retorica come molte costruzioni di epoca fascista. E’ realizzato in marmo di Carrara (i bassorilievi) e pietra bianca e ricorda la forma di una nave. Nella parte posteriore sono incisi i nomi delle località dei due fronti, fronte sud e il fronte nord, dove, tra il 1935 e il 1936, sono avvenute le più importanti battaglie della campagna italiana nell’Africa Orientale.
Il monumento comprende sei statue in bronzo che rappresentano i corpi militari dell’esercito italiano, della marina e dell’aviazione che hanno partecipato alla guerra coloniale; le truppe indigene dell'Africa Orientale Italiana (i cosiddetti àscari), che hanno combattuto al fianco degli occupanti, e i lavoratori italiani in Africa. Le statue in bronzo sono state realizzate da Romano Romanelli, ad esclusione di quella del lavoratore.
Il sesto bronzo raffigurante un lavoratore portava tra le mani un piccone che, in seguito ad un atto vandalico, è stato distrutto e gettato tra gli scogli. Il bronzo originale realizzato da Romano Romanelli è andato perduto negli anni in cui il monumento era conservato nei depositi della dogana. La versione attualmente presente nel monumento è stata realizzata da un allievo di Romanelli. Per rispetto nei confronti del maestro la statua è stata realizzata di dimensioni più piccole rispetto agli altri bronzi.
Del monumento fanno parte diversi bassorilievi che lo circondano orizzontalmente, realizzati sempre da Romano Romanelli su lastre di marmo di Carrara. I bassorilievi rappresentano scene di battaglia, mezzi militari, scene di lavoro, etc..
All’interno del monumento è stata realizzata una cappella votiva dedicata al legionario italiano caduto in Africa Orientale. Si tratta di una sala di quindici metri per cinque circa, rivestita alle pareti con lastre di marmo rosso. All’interno è presente una scultura che rappresenta un soldato caduto in Africa, di cui quasi tutti ignorano l’esistenza poiché la cappella è chiusa all’accesso del pubblico.
La qualità artistica dei bronzi e dei bassorilievi, la complessità dei simboli rappresentati e della forma architettonica, ne fanno un’opera d’arte che merita di essere tutelata e valorizzata. Un’opera d’arte che va difesa anche perché ci ricorda un periodo della nostra storia che mai più vorremmo si ripetesse.
(Nel testo sono riportate informazioni fornite dal dott. Marco Goracci durante una lezione svolta nell’aprile 2013 presso l’Istituto industriale “Fermi”).
Fin dalla sua collocazione, questo monumento è fatto oggetto di critiche e «li opinioni discrepanti fra ideologie politiche diverse. Ma è doveroso per tutti accoglierlo con comune animo riverente per le decine di migliaia di ragazzi che caddero combattendo eroicamente, convinti in buona fede di compiere il proprio dovere per la Patria.
Il gruppo scultoreo, oltre a rappresentare una testimonianza storica, è anche un'opera d'arte degna dell'autore Romano Romanelli, apparte¬nente ad una famiglia di grandi scultori fiorentini fra i più illustri, attivi nei secoli XIX e XX, famosi soprattutto all'estero (Romania, Stati Uniti, Inghilterra, Austria e Cuba). Romano Romanelli fu il maggiore rappresentante del gusto "romano" del Novecento, apprezzato come scultore monumentale classico nel periodo fra le due guerre, anche per l'aderenza del suo stile al "dramma religioso ed eroico della stirpe". Di lui sono famose le sculture di Ercole che strozza il leone a Firenze, monumento Scanderbeg a Roma, Busto di A. Soffici a Milano nella Galleria d'Arte moderna, ecc.
Degli eventi bellici in terra d'Africa sarebbe saggio non fare l'apologia perché i fatti che li provocarono, riferiti più avanti, lasciano alquanto perplessi e, direi, sconcertati per lo spirito e i modi coi quali furono compiuti.
La decisione di collocare a Siracusa questo monumento, in alternativa alla iniziale destinazione, superata per ovvii motivi, che era Addis Abeba, è stata, secondo il parere di molti, la più opportuna perché il nostro porto vide arrivi e partenze di navi da e per l'Africa, cariche di soldati italiani. La sua intitolazione al "Lavoratore Italiano in Africa" fu un suggerimento illuminato e saggio di Paolo Albani; altrimenti a chi si sarebbe dovuto intitolare? Alla "Maledetta avventura italiana in Africa" o all' "Inutile sacrificio di centomila Ragazzi italiani"?
L'opera si ispira alle nostre vicende coloniali che ebbero origine nel 1869, quando Vittorio Emanuele II acquistò da due sultanelli del luogo la baia di Assali per 6000 talleri (circa 30.000 lire di allora). Nel 1896 si accese la più grande, sanguinosa e decisiva battaglia coloniale della storia. In quell'anno, nella battaglia di Adua, sacrificarono la propria vita anche i ragazzi siracusani Alberto Storaci, Giuseppe Lanza e Sebastiano Mazzarella, ricordati in una lapide del 1° marzo 1905, posta sulla parete dell'attuale Istituto Tecnico Nautico "Gaetano Arezzo della Targia", in Piazza S. Giuseppe.
Quarant’anni più tardi (1935/36) le mire espansionistiche del regime fascista portarono alla grande e costosa guerra di colonizzazione dell’Etiopia, avvenimento al (piale si riferisce il nostro monumento.
II particolare della prua puntata verso quel Mar Rosso che fu speranza e amarezza per i nostri padri. Le sculture del Romanelli sono custodite in tutto il mondo come tesori d'arte, a Siracusa se ne fa scempio sotto occhi indifferenti.
Il "programma coloniale fascista", deciso nel '34 da Mussolini, aveva lo scopo di soddisfare i bisogni alimentari del paese che doveva dipendere da altre nazioni per molte materie prime. La "battaglia del grano" e quella delle bonifiche non erano bastate, per cui fu deciso di aggredire l'Abissinia. IVI a per l'azione di colonizzazione necessitava una suggestione popolare che fu fomentata col risenti¬mento della sconfitta di Adua quarant’anni prima e col far credere che l'Abissinia fosse terra ricca ili miniere d'oro, abitata da uomini selvaggi e belle donne. L'Imperatore d'Etiopia Hailè Selassiè in verità non era certo un selvaggio, essendosi formato in Occidente ed avendo proceduto già dal 1930 alla modernizzazione del paese. Si cantava faccetta nera, bella Abissina, aspetta e spera che già l'ora si avvicina, ecc. e nel '35 partirono i primi contingenti di soldati italiani. Quell'anno erano diffuse le note di ...io ti saluto, vado in Abissinia, cara Virginia... Il primo scontro fra Italiani ed Etiopici avvenne il 5 dicembre dello stesso anno per rivendicare i pozzi al confi¬ne fra la Somalia Italiana e l'Etiopia. Il 5 maggio del '36 Addis Abeba fu conquistata. Il Negus andò esule in Inghilterra.
Restarono i sottomessi che combatterono i Ras irriducibili nella lotta per la resistenza, e fu una vera strage.
L'errore più grave, di cui si parla poco, fu la fucilazione, nell'autunno del 1936, dell'Abuna Petròs, senza rendersi conto che fu uccisa la più alta personalità religiosa del clero copto etiope, in pratica il papa etiopico, che dopo avere ascoltato la sua sentenza di condanna a morte per fucila¬zione alla schiena, che doveva servire da "esempio salutare" per il resto del clero copto, estrasse dal petto la croce e benedì ieraticamente il tribu¬nale. (Giudice militare era il colonnello Damiani e avvocato il generale Olivieri). La colpa di cui l'Abuna Petròs si era macchiato fu l'attacco a Addis Abeba, presidiata dagli invasori italiani, nel luglio 1936 alla testa di un gruppo di patrioti Etiopi che si opponevano all'occupazione della loro terra. Altre migliaia di Etiopi furono fucilati e spesso, con Ras e alti ufficiali, furono massacrati anche donne e bambini. Furono fucilati anche i veggenti che predicevano la durata degli invasori per soli cinque anni (previsioni che si rivelarono profetiche). Fra i fucilati si contarono anche trecento monaci. Tutto questo avveniva sotto il governo del viceré d'Etiopia Oraziani. Con la nomina del Viceré Duca Amedeo d'Aosta, che sostituì Oraziani giudicato incapace, cambiò la politica repressiva. 11 27 gennaio del '38 fu isti¬tuita la legge razziale; cinema e locali pubblici furono vietati alla gente di colore. Fu uno dei primi effetti dell'amicizia appena nata fra Mussolini e Hitler.
Siracusa 1936. Il 75° fanteria in partenza per l’Africa Orientale.
L'obelisco più importante di Aksum, la capitale religiosa dell'Etiopia, simbolo della città sacra dove si facevano incoronare i re, fu sottratto nel '37, ad opera di Graziani, (che trafugò anche oggetti di inestimabile valore per gli Etiopici, fra l'altro anche trecento casse di libri miniati e religiosi) per essere trasportato a Roma e collocato in piazza di Porta Capena dove c'era il Ministero dell'Africa Italiana. Già nel 1947, in occasione del trattato di pace, l'Etiopia aveva chiesto la restituzione della stele, ma solo cinquant'anni dopo la Farnesina ne promise la restituzione. Oggi questo obelisco sembra destinato ad uno stato perenne «li ingabbiamento lì davanti al palazzo della FAO, alla luce anche delle condizioni poste recentemente dal sindaco di Roma, cioè dietro precise garanzie a che, una volta restituito all'Etiopia, non sia posto in un luogo a rischio per il conflitto con la vicina Eritrea. Condizione verosimilmente inaccettabile perché ogni paese ha pieno diritto di decidere sulle sue cose, pur rico¬noscendo che talune opere sono patrimonio di tutti gli uomini della terra. Alcuni (forse ancora legati agh ideali di una destra ormai sepolta) alla notizia che il nostro Presidente Scalfaro, in occasione della visita del novembre '97 a Addis Abeba, ha ribadito di compiere al più presto que¬sto atto "assolutamente voluto", si sdegnano definendo l'Aksum un trofeo di guerra da non restituire, opinione inaccettabile più che non condivisibile, se si pensa che l'Italia non dichiarò guerra all'Etiopia, ma l'invase con la forza per le sue mire espansionistiche, spogliandola di molti ricordi e preziosi reperti archeologici ad opera dello stesso Oraziani e di buona parte del milione di soldati italiani. E se gli Italiani costruirono in quella terra, strade, ponti, ospedali, scuole, ecc. non lo fecero certo per mera generosità verso quella gente, ma per interesse proprio, per farne la continuazione dell'Italia, una colonia ricca a beneficio soprattutto o solo degli italiani e quindi, attraverso il loro lavoro, per risollevare l'econo¬mia del nostro Paese.
Questo gruppo scultoreo fin dalla sua collocazio¬ne nei pressi della piazza dei Cappuccini avvenu¬ta nel 1968, non fu fruibile per circa un ventennio perché immerso in un groviglio di sterpaglie e immondizie fino a quando nel 1986 vi fu realizza¬ta una piazzetta più degna, bella e gradevole nei suoi movimenti a terrazze su due quote di livello. La caratteristica pavimentazione è di effetto e il disegno (solo in quanto tale) del verde è armonioso. A rendere più incantevole il luogo, contribuisce il belvedere sul mare azzurro che lambisce Ortigia. All'orizzonte, oltre il Mediterraneo, l'Africa. Accedendo al sito e osando lo sguardo sulla scultura del Romanelli, i pensieri riportano indietro nel tempo, ai ricordi sfumati di chi adolescente negli anni quaranta, vedeva quelle statue dentro le casse di legno, giacenti in un angolo della zona di Grottasanta, che allora suscitavano curiosità mista a turbamento. Attraverso qualche tavola divelta, la fertile fantasia d'adolescente vi vedeva all'interno morti nelle loro bare. Ora quei "morti" sono diventati statue raffiguranti marinai, fanti, aviatori, ascari e operai in tuta con stivali e picconi, tutti a bordo di una nave con la prua puntata verso quel Mar Rosso che fu speranza e amarezza per i nostri padri. Sull'opera muraria si vedono bassorilievi ispirati a scene di guerra e di lavoro; gli stessi motivi si ripetono nei bassorilievi della porticina. Non vi si legge alcuna dedica specifica, ma le date e le località africane, tutte teatro di azioni belliche, incise sul prospetto, rendono inequivocabilmente chiaro il significato del monumento: un monumento che ricorda l'inutile eroismo italiano nella dolorosa "avventura africana", durata fra vittorie e sconfitte, più di settant'anni e culminata negli ultimi trentacinque mesi di guerra, fino al maggio 1941, con un epilogo catastrofico. Com'era costume nel periodo del regime fascista, erano diffuse canzoni patriottiche di sapore propagandistico, come quella che si ascoltava spesso nel '41 che rassicurava "...e la fine dell'Inghilterra incomincia da Giarabub" ma proprio in quell'anno iniziò la disfatta dell'Italia che ad opera proprio dell'Inghilterra perse tutte le Colonie, lasciando sui campi di battaglia oltre centomila morti e gli immensi sacrifici di mezzo secolo. Il 5 maggio 1941 il Negus rientrò a Addis Abeba e molti lavoratori italiani lasciarono quel posto al sole per tornare a casa. I soldati, fatti prigionieri, furono in gran parte trattenuti nei campi ili concentra¬mento del Kenya, fino al termine del conflitto. L'Italia fascista lasciò in Etiopia molte opere, strade, ponti, scuole e ospedali, ma anche morte e distruzione, un prezzo pesante che non può né deve essere giustificato, perché gli Etiopi stavano bene così com'erano, e non avevano alcun bisogno delle opere dell'Italia fascista, e a quale prezzo... I fatti storici riferiti potrebbero presentare una chiave di lettura controversa, ma di certo in que¬sto non c'è alcuna influenza ideologica, sono fatti desunti da fonti di insospettabile rigore scientifico, da documenti scritti e filmati, nonché da testimonianze attendibili perché espresse nei diversi momenti politici succedutisi nel corso della nostra storia recente.
Osservando oggi questo monumento e leggendovi la storia si cade in una confusione di sentimenti e di ideali: mestizia, rabbia, riconsiderazioni di ideali politici alla luce dei fatti e delle loro conse¬guenze. Esso nacque come espressione dell'ideale politico del ventennio fascista, ma oggi va interpretato come simbolo dei gravi errori di un triste periodo storico e appare come monito per le future generazioni a che non siano ripetuti gli stessi errori. Il suo sito dovrebbe essere soprattutto un luogo sacro di riflessione e di religioso silenzio, nel rispetto delle decine di migliaia di ragazzi italiani che perirono combattendo in buona fede e di altre decine di migliaia di patrioti Etiopi che caddero per difendere la propria terra; ma oggi l'opera muraria della scultura presenta evidenti segni di atti vandalici, l'impianto per l'illuminazione è distrutto, di verde c'è solo l'erbaccia, molte lastre di marmo sono divelte, tutto il gruppo scultoreo è imbrattato da scritte dissacranti, attraverso la porticina d'ingresso al vano interno si notano i segni inequivocabili della droga; un fetore indefinibile esalante dall'interno completa lo squallore di un'esecrabile profanazione. Fino a che non si proceda ad un doveroso restauro, conviene precludere questo luogo all'accesso e alla vista dei turisti, per coprire la più sporca delle vergogne che disonora Siracusa e i suoi cittadini
altre iscrizioni vedi lapidi commemorative Siracusa