pupi siciliani Giovana Marino - Siracusa memorie ricordi

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pupi siciliani Giovana Marino

PUPI SICILIANI ORIGINI E STORIA RACCONTATA DA GIOVANNA MARINO
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Francesco Puzzo (don ciccio) l’iniziatore della tradizione dei pupi siracusani

Marfisa


I PUZZO
Il fondatore della "famiglia" dei pupari siracusani fu Francesco Puzzo, da tutti chiamato Don Ciccio. Nacque a Siracusa il 16 maggio 1857 da Sebastiano e da Maria Formosa.
Con i suoi umili mezzi e con dialoghi scaturiti dalla sua mente per gente comune, richiamò assemblee di spettatori entusiasti del suo teatro, della sua abilità nel manovrare i pupi, della sua grande capacità di dare la voce ai Paladini, qualità che mettevano in risalto la semplicità e il senso poetico, la creatività e l'inventiva dei Siciliani.
Nacque in un periodo in cui Siracusa comprendeva anche la provincia di Ragusa, che divenne capoluogo nel 1927. In un territorio ricco di pupari con sede fissa o temporanea.
Nell'isola c'erano molti teatrini e nella provincia di Siracusa se ne registravano a Ragusa, Noto, Francofonte, Lentini, Sortino, Avo­la. Mentre, Canicattini Bagni, Solarino, Palazzolo Acreide, Cassaro, Feria, Carlentini, Buscemi, Buccheri, Melilli, Rosolini, Pachino, erano meta di pupari girovaghi, che venivano in occasione di fe­stività o determinati giorni della settimana.
Francesco Puzzo, stagnino, scultore, decoratore, aveva appreso l'arte di puparo da Giacomo Longo, proveniente forse dalla Calabria, che dal 1835 annualmente raggiungeva Siracusa nel periodo invernale. Attorno al 1877 creò il suo primo pupo alto 80 cm con armatura di latta. In seguito, tutti gli altri furono costruiti sempre più alti, con ricche armature in bronzo e in ottone.
In quell'anno fece il suo primo debutto nel suo teatrino in via Teocrito, oggi via Mario Minniti, con l'episodio tanto caro agli spettatori e cavallo di battaglia dei pupari di tutti tempi "Guido di Santa Croce". Fu tanto gradito che il pubblico siracusano seguì il suo puparo fino alla chiusura del teatro.
Il 29 aprile 1880 sposò Maria Bianca (Siracusa 1.4.1865-20.1.1942), che divenne la sua inseparabile compagna per la vita e per il teatro, facendo spesso anche la cassiera. Si stabilirono in un'abitazione di via Gelone, oggi via Vittorio Veneto, dove il 14 giugno 1881 nacque il primo figlio, Angelo, che collaborò alla realizza­zione scenica e il 14 novembre 1884, il secondogenito, Sebastia­no, che scomparve in giovane età.
Intanto nel 1882 Don Ciccio spostò la sua "opra", in via della Maestranza, dove gestiva un cafè-Chantant, "Eldorado", per trasferirla nel 1889 in via Logoteta in un magazzino che chiamò "Teatro Bellini". Il 2 marzo di quell'anno nacque Giuseppe, che fu in seguito puparo.

Nel 1890 da Siracusa andò ad Augusta, dove il 16 febbraio 1891 nella casa di via Principe Umberto venne al mondo Ernesto, il più valente, erede del talento e della passione del padre, da cui apprese la recitazione e la scultura, la scenografia e la pittura, lo sbalzo, la lavorazione della cartapesta. Avvalendosi anche delle tecniche apprese in seguito, frequentando solo per tre anni la scuola d'arte.
Nel 1893 il "Teatro Bellini" si trapiantò di nuovo a Siracusa e il 26 marzo dello stesso anno nella casa di via Landolina nacque Margherita, che divenne come la madre, la costumista. E tale fu fino a quando il marito Francesco Capodicasa (Siracusa 19.2.1889-5.7.1970) collaborò con il fratello Ernesto nella gestione dell'opera dei pupi in via Dante. Ebbe cinque figli, Francesco, Emanuele, Eugenio, Nuccia, Maria. Morì il 18 gennaio 1952.
Nel 1895 vediamo la famiglia Puzzo a Floridia, dove il 18 marzo dello stesso anno, arrivò il sesto figlio, Sebastiano. Qui Don Ciccio diede spettacolo in via Garibaldi. Nel 1897 lo ritroviamo residente a Siracusa in via Dione al numero 12, dove il 24 maggio dello stesso anno nacque Luciano, che fu anche lui puparo e poi il 24 ottobre 1901, Giovanni. In questi anni il nostro puparo oltre che nel capoluogo operò a Sortino e a Canicattini Bagni Il 2 gènnaio 1904, data di nascita dell'ultimo figlio, Salvatore, ritroviamo i Puzzo abitanti ad Augusta in via Chersoneso, oggi via Roma, dove nelle vicinanze c'era anche il suo teatrino.
Rientrati poco dopo a Siracusa, aprirono il "Teatro Bellini" al Ronco Gallo in via Dione fino al 1913, quando don Ciccio a se­guito dello scoppio della prima guerra mondiale e delle conseguenti crisi, mise da parte i suoi pupi e riprese le sue iniziali attività mai trascurate. Erano venuti a mancare gli spettatori, essendo gli uomini partiti per il fronte e non potendo le donne come gli ecclesiasti, partecipare agli spettacoli. Le prime per la mentalità vi­gente, gli altri secondo la loro regola, poi modificata.
Tuttavia conservò sempre il suo amore per il teatro dei pupi e la recitazione. Esigenza, che di tanto in tanto potè soddisfare.
Il suo repertorio, che prevedeva anche la farsa, era costituito da racconti sui Paladini e sui personaggi storici di grande effetto: Paladini di Francia, Guerino detto il Meschino, Sansone Ebreo, Santa Genoveffa, Il martirio di San Sebastiano, Muzio Scevola, I reali di Francia, La disfatta di Roncisvalle, Guido Santo, Traba- zio, Alessandro Magno, Guido di Santa Croce, Erminio della Stella d'Oro, Orientale delle Stelle, Pasquale Bruno, Giulietta e Romeo.
Annunciava le sue recite con cartelloni di m 3 x 1,80 orientati in senso orizzontale (battuto), dove dipingeva a tempera un solo quadro con più personaggi. Un altro cartellone più piccolo (invito) portava la scritta "Teatro Bellini di Marionette diretto dall'artista Puzzo Francesco. Questa sera darà l'istoria dei Paladini di Francia, ovvero..." e continuava con il sunto del fatto secondo le varie scene. Morì il 7 aprile 1936. Ma di lui continuano a parlare le opere a sua firma. Il busto scultoreo in gesso del senatore Edoardo Di Giovanni del 13.10.1920 nella bella casa di via Nizza, la statua di San Sebastiano nella chiesa di Santa Lucia alla Badia, realizzata su richiesta della congregazione dei portuali, il raffinato fregio sull'ingresso del mercato comunale di Avola, nonché i quaderni che fecero parte del materiale teatrale di Ernesto, le foto e alcuni oggetti personali, custoditi dai nipoti.
Dal suo primo debutto ad oggi sono passati più di cento anni e Don Ciccio è ancora vivo nel ricordo dei Siracusani. La sua passione per il teatro dei pupi fu portata avanti da una parte dei suo figli.
Angelo, Sebastiano, Giovanni
Angelo, Sebastiano e Giovanni, abbandonarono presto l'opera e si diedero al loro mestiere di decoratore, muratore, piastrellatore, divenendo ricercati per la loro bravura.
Il primo, in seguito, si stabilì definitivamente ad Augusta essendo la moglie del posto, dove morì il 24 aprile 1970. Gli altri due emigrarono in Libia, cercando di fare fortuna. L'uno a Tripoli nel 1935 e l'altro a Tobruk nel 1938.
Con l'entrata dell'Italia nel conflitto bellico della seconda guerra mondiale, Sebastiano ritornò a Siracusa verso il 1940, trasferendosi dopo il 1948 in Argentina e poi nel Venezuela, dove risiede la figlia Maria, sposata Gugliotti. Giovanni, poiché fu richiamato alle armi nel corpo della Marina Militare, rientrò nella sua città natale attorno al 1945 e qui rimase espletando il suo lavoro fino al suo decesso, avvenuto il 14 gennaio 1976.
Il Teatro Eden
Ernesto, Giuseppe, Luciano e Salvatore, verso il 1920 inaugurarono il "Teatro Eden" in via Gemmellaro, compreso tra i numeri 26-28-30. Il locale, che si trova a sinistra della strada venendo dalla "Porta Marina", ha tre ingressi. Due piccoli ai lati, che servivano, una, per entrare il personale e l'altra per la cassa, mentre quello centrale, più grande, per il pubblico. All'interno il teatro aveva il soffitto decorato in stile cinquecentesco e un'elegante tribuna in legno con ringhiera in ferro battuto. Il palcoscenico era ampio m 5x6 con un sipario riproducente la "Disfida di Barletta". Nell'angolo vicino alla cassa era situato un piccolo ristoro con i "passatempo" dell'epoca, noccioline, semi di zucca, caramelle, gassose.
Per l'occasione i quattro fratelli costruirono dei pupi nuovi con gli occhi di vetro, più alti di quelli del padre, più sfarzosi nei costumi e nelle corazze in bronzo, rame e in ottone bianco (plak- form). Gli spettacoli, che inizialmente facevano parte del vecchio repertorio, si avvalsero di una straordinaria messa in scena e di una palpitante recitazione. Venivano accompagnati dal suono di un pianino ed erano reclamizzati con cartelloni ricchi di disegni a tempera, che venivano sistemati a Piazza Pancali e in via Cavour all'angolo con via Gemmellaro.
Il "Teatro Eden" per la spettacolarità delle sue rappresentazioni segnò una tappa importante dell'opera dei pupi a Siracusa, divenendo parte integrante del costume stesso. Tanto è vero che il poeta dialettale siracusano Salvatore Bonanno in un suo componimento apparso in un giornale locale, canta la bellezza e la ricchezza del teatro dei Puzzo, con i suoi scenari di gran pittura, delle vesti e delle armature di pupi, la perizia nel manovrarli, nel dare le diverse voci, la qualità degli spettacoli.
Un altro esempio ci viene da Elio, Ugo e Aldo Vittorini, che allora avevano rispettivamente 12-11-8 anni.
Entusiasti dell'epopea cavalleresca, avevano riprodotto a casa con una scatola il prospetto del teatro, dipinto gli esterni e il fondale scenico. Avevano approntato dei pupi con pezzi di canna, costruendone la testa in cera e li avevano rivestiti con i ritagli di stoffa dei vestiti, che la madre si cuciva e per mezzo di sottili fili di ferro li animavano ripetendo i dialoghi ascoltati, frequentando il teatro, specie quello relativo alla sfida di Orlando e Rinaldo.
Elio conservò questo amore per i pupi. Nel suo studio a Mi­lano era appeso un grande cartellone, dono di un puparo palermitano.
Anche la sorella Iole, che ci ha fornito questo ritaglio di colore, ebbe modo nel 1924 di assistere ad una rappresentazione nel "Teatro Eden" preparata per la scuola. Allora aveva 12 anni e frequentava la seconda classe della scuola professionale "Principessa Giovanna di Savoia", in quel periodo ubicata al pianterreno della Camera di Commercio, perchè la costruzione non era stata ancora ultimata. E ricorda, che dopo avere visto "Guerino detto il Meschino" divenne un gioco imitare i pupi e declamare i pezzi più fantasiosi della storia e degli incantesimi della fata Alcina nell'ora di ricreazione.
Per tutte queste cose, il teatro potè competere con il nascente "Cinema Savoia", apertosi a Siracusa nello stesso anno dell'Eden, in via Caltanissetta, ora inesistente, e poi con il "Cinema Ideal" in via Landolina, sito nello stesso posto del'attuale "Cinema Ariston". Come ci racconta il primo operatore cinematografico del luogo, Giuseppe Agati (Siracusa 18.3.1906), medaglia d'oro alla fedeltà al lavoro. Purtroppo, dopo quattro anni circa di attività, la società si sciolse per incomprensione tra i fratelli, e il "Teatro Eden'" passò sotto la gestione del commendatore Oreste Risi, divenendo sede di spettacoli di varietà, di filodrammatiche e comici, a cui a volte prese parte anche Don Ciccio. Questo tentativo durò pochi anni (Siracusa Nuova 5.5.1930), sia per la poca professionalità delle compagnie invitate, sia perchè la gente era rimasta attaccata ai pupi con le sue storie cavalleresche. A questo momento liberatorio e rasserenatore, in cui poteva sognare e dare sfogo alla fine di una giornata faticosa, alle sue amarezze, inveiendo contro le male fatte del potere, dei traditori, degli ipocriti.
Luciano e Giuseppe
Nella nuova e difficile situazione che si era creata, Luciano e Giuseppe lasciarono i fratelli e andarono ad operare in provincia. Portarono con loro una parte dei pupi dell'"Eden" e girarono fra Augusta, Avola e Noto, dove si stabilirono con le famiglie.
Entrambi i fratelli oltre che dall'amore per i pupi e dall'interesse, erano legati da vincoli di parentela, avendo sposato due sorelle. Luciano si era unito con Rosa Insolia, da cui nacquero Francesco, Maria, Lucia, Margherita, Corrado, e Giuseppe con Maria Insolia da cui ebbe Francesco, Gaetano, Umberto, Lucia. Discendenti tutti, che nel cambiamento dei tempi e delle scelte lavorative, non seppero nè continuare, nè tenere in gran conto come meritava, l'attività artistica dei genitori.
A Noto diedero spettacolo nei locali di Palazzo Benso all'ango­lo tra via Salvatore La Rosa e Via Ducezio, da cui il nome "Teatro Benso", che fu successivamente meta di altri pupari della provincia siracusana.
Il teatro fu abbellito da una raffinata tribuna con palchetti, di un palcoscenico ricco da drappeggi e pitture di m 6 x 7. Aveva tre quinte e molti fondali scenici. Perchè tutto si svolgesse con ordine e signorilità, avevano dato un ingresso separato agli operatori, al pubblico e alla biglietteria.
I cartelloni pubblicitari, abilmente dipinti a tempera da Luciano, variavano per soggetto e dimensione secondo l'opera rappresentata. Per l'episodio della "La disfatta di Roncisvalle" il cartellone misurò m 6 x 4 circa. Questi venivano appesi nell'apposito spazio sulla parete del Palazzo Boscarino in corso Vittorio Emanuele 64, di fronte al Convitto Ragusa. Oppure come fu nell'ultimo periodo, giravano per la città montati su un triciclo. Avevano 50 pupi e molte testine di ricambio intagliate anche dal padre Don Ciccio, quando verso il 1929 fu loro ospite per qualche settimana.
Nelle recite Luciano dava la voce a tutti i personaggi parlando in italiano e in siciliano, secondo gli appunti presi scena per scena e manovrava con Giuseppe i pupi nei combattimenti fra i protagonisti, richiedendo ciò una maggiore perizia.
Per rendere più verosimili i vari momenti dello spettacolo, curavano gli effetti luminosi e i trucchi, già sperimentati con successo a Siracusa. Oltre ai riflettori usavano la "pece greca" o di colofonia e il "filo di magnesio" per creare atmosfere magiche. Negli scontri cruenti ricorrevano a sacchetti d'inchiostro rosso situati appositamente. Rimase impresso nella memoria del pubblico l'episodio "Il martirio di Tullio" per le frecce che appena lo colpivano, sembrava che il sangue uscisse dalle ferite.
Alla fine di ogni recita che non prevedeva la farsa, consuetudine dei fratelli Puzzo, si presentava un'apposita marionetta per annunciare il programma della serata successiva.
Intanto verso il 1930 i due fratelli avevano portato il cinema muto ad Avola e a Noto. Furono gli unici pupari in tutta la provincia di Siracusa che capirono l'importanza di questa nuova forma di spettacolo popolare al punto di appropriarsene e di alternarlo a quello dei pupi. Luciano accompagnava il filmato suonando il pia­noforte e facendone il commento. Diventato sonoro, avvertirono la necessità di trasferire il teatro dei pupi in via Ugo Bassi, ora via Roma al numero 138, dove ora sorge un nuovo palazzo, con un calendario di spettacoli che s'accordava con quelli cinemato­grafici. E poiché non c'era più bisogno di un commentatore, Luciano divenne l'addetto alla macchina di proiezione. Cosa di cui era geloso per motivi tecnici ed economici. Così non permetteva che altri la manovrassero.
Luciano avendo frequentato la scuola d'arte, aveva un'abilità sorprendente nella pittura e nella cartapesta. La sua perizia lo portò a lavorare ad Avola anche per la costruzione di un carro carnevalesco, tutt'ora ricordato. Raffigurava la regina di Saba in trono su una nave egiziana. Pitturò carretti di proprietari avolesi, netini e siracusani, che tenevano ad impreziosire il loro mezzo di trasporto, come si fa ai nostri giorni con le automobili riguardo il colore della carrozzeria, della tappezzeria, degli accessori.
Il suo laboratorio per questo lavoro era il cortile Ronchi in vico Lepre, 12. Così detto dal cognome del titolare dell'officina in ferro, che ivi esercitava con i suoi tre figli. Luciano lo aveva conosciuto appena arrivato a Noto, stabilendo un rapporto di amicizia e di stima tale da diventare con il vecchio Ronchi "compare a San Giovanni" come si diceva in gergo, facendogli tenere a battesimo nel 1933 l'ultimo figlio, Corrado.
Fu chiamato per restauri e decorazioni in molte case aristocratiche. Lavorò in alcune stanze del Palazzo di Villa Dorata, di Palazzo Astuto, Palazzo Feria, Palazzo San Giacomo, nella Cattedrale sotto la direzione dell'architetto Baldinelli, nel salone di Palazzo Ducezio, rivestendo con foglietti d'oro zecchino tutti gli intagli, e nel teatro comunale risanando il soffitto e le pareti laterali della boccascena.
Nel 1935 sotto il podestà Corrado Sallicano per la celebrazione del primo anno del Littoriale, fece dei grandi mascheroni e fregi in cartapesta per ornare la facciata del teatro all'aperto, approntato per l'occasione nello spazio attualmente adibito a campo sportivo.
Non risparmiò nè tempo, nè fatica, nella preparazione dei modelli di creta su cui fare colare il gesso per avere il calco e su questo modellare la cartapesta.
Assieme al cavaliere Francesco Accardo, poeta in vernacolo e artista della creta, costruì sempre su richiesta del podestà un pre­sepe meccanico, curando le parti lignee delle statuette e i paesaggi, che fu inaugurato nel Natale dello stesso anno nella Chiesa di San Corrado fuori le mura.
Nel 1936 come apprendiamo dalle date sui quadri, ritrovati nelle case dei figli a Noto e a Siracusa, realizzò le sue ultime tempere su vetro e su tela, ispirate a figure folkloristiche e a monumenti romani. Anche a questa data risale il quadro, m 1,60 x 2 circa, raf­figurante San Corrado nel ceruleo paesaggio campestre del suo eremo, che si trova a Noto nella sagrestia della chiesa di Santa Maria alla Rotonda in via Salvatore La Rosa.
Per le sue qualità artistiche gli fu conferito il titolo di "cavaliere". Riconoscimento, che ebbero anche Ernesto e Salvatore.
Una sera uscendo sudato dalla sala di proiezione, si buscò una bronchite, che trasformatasi in broncopolmonite, allora incurabile, il 16 settembre 1937 lo portò alla morte. La sua scomparsa colpì, tanto, Giuseppe da non volere più interessarsi dei pupi e del teatro. Finì così l'opera a Noto.
L'anno dopo il nipote Francesco che a volte aveva sostituito al pianoforte lo zio Luciano, sia per il teatro che per il cinema muto, aprì a Carlentini fino al 1945 il "Cinema Anzaldo". Dopo si trasferì in Argentina, dove è rimasto.
Nel 1943 Giuseppe rimase vedovo e nel 1946 sposò Maria Iacono. Cosa, che lo allontanò completamente dalla famiglia del fratello e poi anche da Noto. Nel 1956 dopo avere venduto i pupi, si stabilì a Caltagirone, dove si spense il 21 gennaio 1961.
I due fratelli avevano operato tanto bene soprattutto a Noto, che tutt'ora sono ricordati dagli anziani dei paese con ammira­zione e rispetto.
Salvatore
Dopo la chiusura del "Teatro Eden" e la separazione da Luciano e Giuseppe, Salvatore continuò ad aiutare Ernesto nel suo nuovo teatro di Via Dante, come pure nella costruzione di carri carnevaleschi e nelia pitturazione dei carretti, avendo anche lui una solida preparazione nei diversi campi dell'arte.
Nel 1937 si recò in Libia, a Bengasi, per lavoro e ritornò a Siracusa intorno al 1940 a seguito dello scoppio della seconda guerra mondiale. Qui riprese il suo mestiere di decoratore e restauratore, costruendo occasionalmente pupi di piccole dimensioni per turisti, che assieme ai carrettini siciliani e alle cartoline, furono e sono ancora i souvenirs più richiesti.
Presso la famiglia Corsini, eredi dei grandi musicisti e concertisti Luigi e Raffaele Corsini, che ci ha ospitato per avere questi dati, troviamo mobili, cornici, stampe del 1700, oggetti di metallo, in porcellana, gesso, cartapesta, legno, rimessi a nuovo da Salvatore Puzzo, come risulta anche dalla firma che soleva apporre, quasi sempre, in ogni suo lavoro.
Fra gli oggetti abbiamo notato un pupo di 30 cm in legno con armatura di latta, che dal leone sull'elmo possiamo chiamare "Rinaldo" e una riproduzione in gesso del teatro greco di cm 15 x 10, dono alla famiglia, a cui era legato dall'età di 14 anni per diversi lavori eseguiti nel tempo.
Altre sue opere in gesso e in legno si possono vedere nella sua abitazione. Lì, tenute dalla moglie come il più caro ricordo, ci sono una copia del San Sebastiano della cappella all'angolo di via Gemmellaro con via Ruggero VII, un'urna con Cristo deposto, e un pupo di buon intaglio di circa 80 cm. Come pure i riconoscimenti e i ritagli di giornale che parlano di lui e dell'arte teatrale dei Puzzo.
Morì il 14 gennaio 1979 a seguito di un incidente stradale.
L'opera in via Pace
Intanto nel 1925 durante la particolare stasi della vita teatrale dei fratelli Puzzo, a Siracusa si registrò la presenza di un'opera dei pupi in via Pace, oggi via del Collegio, a quel tempo chiamata ancora in gergo "a scinnuta ro cannuni", poiché di là passavano i mezzi militari spagnoli a difesa delle mura e della "Porta Marina".
Il teatro era ubicato nelle prime porte a destra della strada salendo dal Passeggio Adorno. I cittadini, che ci hanno fornito le notizie al riguardo e che ci hanno portato sul luogo, dicono che era di Don Ciccio. La cosa, visto che non entrava in concorrenza con i figli, potrebbe essere vera. Conoscendo anche la dinamicità di quest'uomo, l'interesse che aveva conservato per i pupi, e per il tipo di realizzazione teatrale, che si concludeva con l'atto comico. Poi, perchè è assodato che per tutto il tempo in cui operarono i Puzzo, nessun puparo forestiero mise mai piede a Siracusa.
Certo sono passati molti anni, da quando gli intervistati sedevano in quella sala, ammaliati dai colloqui infuocati e dalle gesta audaci dei cavalieri. Il loro ricordo si è annebbiato, tuttavia hanno parlato di pupi bellissimi, di un grande sipario con una scena di Paladini duellanti, che si alzava su spettacoli formidabili e su farse assai divertenti, da riderne ancora.
Il Teatro San Giorgio
Il 15 settembre del 1926, come leggiamo in "Siracusa Nuova" del 17 marzo 1930 fra le righe delle "Vicende storiche del teatro delle marionette" illustrate da Michele Minniti, redattore del settimanale, Ernesto Puzzo assieme al cognato Francesco Capodicasa, inaugurò il "Teatro San Giorgio". Continuando così, la gloriosa tradizione della famiglia, con pupi, copioni e tecniche, che meravigliano tutt'ora. I primi per l'eccellenza dell'intaglio e il cesello delle armature, i secondi per la delicatezza e l'intreccio delle storie, gli ultimi per la genialità dei trucchi.
Il teatro era ubicato in via Dante, oggi via dei Santi Coronati, nei locali compresi tra i numeri 20-24 di Palazzo Bonanno, ora sede di una succursale delle Poste e Telecomunicazioni, proprio di fronte alla fabbrichetta Coppa di gassose, in disuso già da molti anni, situata all'angolo con via dei Montalto e all'attigua chiesetta di San Giorgio, da cui il nome, allora sede della congregazione dei muratori, che si riunivano la domenica. Attualmente di questo monumento del 1200 rimane soltanto il fine portale alquanto malconcio.
Sul muro esterno all'angolo del palazzo, era stata realizzata la piccola apertura della biglietteria, a cui era addetta la sorella Margherita collaborata dalla moglie di Ernesto, Francesca Gentile (Siracusa 25.9.1885-8.7.1956), che portavano con loro i ligli più piccoli. Per essere più vicini alla sede del teatro, la famiglia Puzzo dalla via Maniace, dov'erano nati i figli Francesco, Maria, Oreste, si era trasferita in via Tommaso Gargallo, 69-71 (oggi 61-63).
All'interno oltre alla sala, elegante nei colori delle pareti e degli affreschi sul tetto, era stata costruita una tribuna dalla linea baroccheggiante, decorata con puttini e fiori. Una stanzetta laterale serviva da ristoro. Il palcoscenico m 7 x 8 circa era capace di contenere 12 pupi in scena ed era sormontato da due ponti di maneggio,che potevano ospitare 6-7 "marnanti" ciascuno. Aveva tre quinte, 30 fondali scenici, che venivano tirati e abbassati con corde, un grande sipario esterno con aperture laterali di velluto con pitture floreali e un altro interno di tela, che si alzava, dove era raffigurato sempre a tempera un paesaggio lussureggiante di vegetazione.
Tutto era stato preparato per accogliere nella giusta cornice i magnifici pupi creati dal genio di Ernesto, rivestiti dall'abilità di Margherita, armati dalla maestria di Francesco Capodicasa. I più belli che si poterono vedere nel tempo. La precisione dell'intaglio delle teste con gli occhi di vetro e i colori del viso, gli abiti sontuosi in velluto con ricami, merletti, passamaneria, per gli interni, le potenti corazze sbalzate in ottone per i combattimenti, fecero di queste marionette dei veri gioielli.
Ad essi Ernesto dedicò tutta la sua attenzione, la sua arte, le sue finanze. Trascurando spesso la pittura e la decorazione che erano in fondo il suo mestiere, oltre che fonte di guadagno, venendo così a soffrire la famiglia. E di questo, spesso la moglie si lagnava, come ci ha raccontato il figlio Oreste, specie quando lo vedeva rattristato per le controversie incontrate nel lavoro teatrale, dimostrando un profondo amore per il marito, rispetto e considerazione per le sue cose e le sue aspirazioni.
I pupi 80 in tutto, fra cui la Marfisa dell'Azienda Provinciale Turismo e quelli acquistati dal puparo sortinese Ignazio Puglisi, furono costruiti in via della Maestranza nel cortile della casa di Francesco Capodicasa, dove aveva un'attrezzata bottega.
Francesco Capodicasa era "lattuneri" (da "lattuni" cioè lastra di metallo). Era un meccanico specializzato. Infatti era capofficina nel pastificio Conigliaro in via Arsenale, distrutto dalle bombe incendiarie durante la seconda guerra mondiale. Ora al suo posto sorge un grosso fabbricato tra i numeri 34-46.
Per Ernesto fu il migliore collaboratore per modellare e realizzare, sbalzi, incisioni, ornamenti, saldature da certosino, relative alle armature. Come pure per i trucchi e i giochi di luce, che procurarono specifiche emozioni per una più entusiasta partecipazione del pubblico.
Della maestria del Capodicasa fanno anche testo i giocattoli meccanici e alcuni oggetti in miniatura di ottone e di ferro, fra cui un fucile "modello 91" funzionante, della lunghezza di 25 cm.
Il repertorio era ricco e vario. Alle storie già rappresentate dal padre e nel "Teatro Eden" furono aggiunte: La vita e la morte di Santa Lucia siracusana, Nascita del Bambino, Dolores e Straniero, Rinaldino, Gerusalemme Liberata, Valentino e Germana, I quattro cavalieri della morte (riadattamento da Orientale dalle Stelle), Azzeo Leone, Germana della Fiamma, Guelfo di Negroponte, Tramoro di Medina, Febo e Rosaclerio (riadattamento di Trabazio), Pia dei Tolomei, Haida, di sua invenzione come il pupo, di cui abbiamo trovato la foto e una parte del dramma riportato in "Una serata all'opera dei pupi" sul settimanale "Ortigia della Domenica" del 30 settembre 1928.
La recitazione, che era quasi sempre in italiano, ricadeva solo su Ernesto, che come Luciano, dava la voce a tutti i personaggi anche a quelli femminili. Mentre nei combattimenti aveva, generalmente, come avversario il fratello Salvatore, che era manovratore assieme a Emanuele Capodicasa, Capodieci, Alessi, ed altri contattati per gli spettacoli. Fra i giovani che aiutavano dietro le quinte c'era anche Saro Vaccaro, a cui si deve l'apertura dell'attuale "opera dei pupi" in via Nizza, che nella sua semplicità espressiva continua questa tradizione esclusivamente siciliana.
I trucchi formidabili nella loro ideazione e risultato, lasciavano sbalorditi gli spettatori. Sia quelli impiegati nelle cruenti battaglie, che nella trasformazione delle marionette, nella creazione di atmosfere magiche, atti ad accogliere spiriti del bene e del male.
Appositi ganci permettevano, nel momento del colpo di spada, il distacco della testa del pupo, come di parti dell'armatura. Morbide scatole, fatte di gomma (pezzi di camera d'aria) e munite di saracinesca, a cui era legata una cordicella invisibile al pubblico, venivano sistemate sul petto e sull'addome dei personaggi della storia, per cui nei duelli nell'attimo del colpo finale, le cordicelle venivano tirate, la chiusura si apriva e l'inchiostro rosso schizzava dal cuore o fili di lana rossa, debitamente in ingarbugliati, uscivano come visceri dallo stomaco.
Nel "Guerino detto il Meschino", l'opera che ebbe più successo, giocando sul colore e le diverse intensità luminose e sulla sistemazione di un fuori centro, con cui poteva avvenire la trasformazione, fu possibile architettare la serie degli stupefacenti incantesimi della fata Alcina. Si poteva passare da una grotta a un incantevole giardino con vasche zampillanti d'acqua e fiori, da questo a un salotto dove si svolgeva una danza di 40 ballerini con pupi di 80 cm per motivi di spazio, che nel rigirarsi divenivano scheletri. E così tutto il susseguirsi di altre magie, che consentivano al "Teatro San Giorgio" di avere sempre più larghi consensi, come leggiamo nelle cronache di "Siracusa Nuova" del 1930 e 1931.
Tanto che il teatro veniva frequentato da intellettuali fra cui il professore Luigi Malerba, i presidi Paolo Rio del liceo scientifico e Bonafede Recupero del liceo classico, da autorità locali, da attori come Angelo Musco e Umberto Melnati da nobildonne, da studiosi e artisti anche forestieri, che riproducevano a disegno i pupi, gli scenari o aspetti delle recite. Gli spettacoli duravano due ore. Nei giorni feriali ne era previsto uno solo dalle ore 20 alle 22,30. La domenica si davano due repliche. Una dalle ore 16 alle 19, l'altra iniziava un'ora e mezza dopo. Il tempo necessario perchè i manianti si riposassero, reintegrando le energie con un buon bicchiere di vino, com'era consuetudine, e rimettessero ogni cosa a posto per ricominciare.
Venivano accompagnati da musiche al pianoforte eseguite dal maestro Giuseppe Ricci (Siracusa 11.10.1868-30.10.1959), il quale suonava molto bene anche l'organo e l'armonium in tutte le chiese di Siracusa, essendo l'unico organista dell'epoca.
Divenuto cieco a 33 anni a seguito di un glaucoma ad entrambi gli occhi, allora incurabile, raggiungeva il teatro accompagnato dalla nipote materna Giuseppa Galeano sposata Agati (Comiso 14.10.1909), che attualmente abita nella stessa casa dello zio in via Tommaso Gargallo, 55 al primo piano. A volte quando era occupato a suonare altrove, lo sostituiva l'altra nipote Anna Maria Galeano, sposata Onorato (Siracusa 29.9.1906-12.10.1978).
Al pianoforte, nel tempo libero dal lavoro di regista, attore e sceneggiatore, si metteva pure Ernesto, che oltre all'arte puparia e alla pittura, aveva curato la musica, imparando a suonare ad orecchio ma in maniera eccellente, come pure altri strumenti, violino, chitarra e mandolino. Le sue capacità musicali lo portarono a fare l'accordatore. Dimostrando che niente fu difficile a quest'uomo per la sua grande sensibilità e versatilità in ogni settore dell'arte.
Le rappresentazioni erano pubblicizzate da cartelloni, che Ernesto pitturava a tempera con scene, particolari e decorazioni, che attiravano l'attenzione. Venivano cambiati ogni giorno. Era­no grandi m.3 x 2,50 ed essendo di carta venivano attaccati con chiodi a un telaio ricoperto di sacco, provvisto di sbarra per il trasporto. Venivano affissi a Piazza Pancali sul muro accanto alla gioielleria Cianci, dove c'erano i relativi ganci e nel Largo 25 Luglio sul muro della caserma sita nel Tempio di Apollo, oggi ine­sistente. I cartelloni venivano preparati nel locale del teatro, meta costante di Antonio Lampognana, che divenne suo discepolo, e di Corrado Maranci, il quale seguendo la sua inclinazione, cercava di suonare il pianoforte.
Ernesto, accortosi di ciò e sapendo che la famiglia non poteva farlo, gli permise con il suo "core paladino" di avere un buon numero di lezioni. Il suo gesto generoso fu premiato dall'impegno del giovane, diventato poi, un maestro di musica ricercato come pianista e fisarmonicista, compositore di brani di successo.
Questo altruismo si manifestò anche nei confronti della comunità, mettendo il suo teatro a disposizione di filodrammatiche siracusane e della provincia, come di compagnie di operetta che venivano da Catania. Riscuotendo per ciò, apprezzamento pubblico come leggiamo nella cronaca dell'epoca sotto il titolo "Teatralia" (Siracusa 22.7.1929).
L'armonia e la perizia artistica evidenziata nei cartelloni, lo portò alla pitturazione di carretti sia del luogo che di Catanesi, come racconta anche Emanuele Capodicasa e sempre per lo stesso motivo, durante l'ultima democratica campagna elettorale del 1919, allestì il manifesto con il "cavallo libero" contrassegno del partito socialista, che fece molto scalpore.
Con l'avvento del fascismo, il governo cominciò a considerare l'opera dei pupi come espressione artistica e fece in modo che la stampa legata al regime s'interessasse di questa forma di teatro. Tanto che fu portata nelle colonie italiane in Libia e in Eritrea.
In questo clima di riqualilicazione del teatro dei pupi ebbe inizio, come leggiamo in "Siracusa Fascista" del 22 giugno1931, la prima "Disfida Regionale dei Pupi Siciliani" indetta dall'Ispettorato Superiore dell'Organizzazione Nazionale Dopolavori e le marionette figurarono nell'esposizione della Fiera Campionaria di Tripoli, allo scopo come diceva il comunicato stampa di contribuire a mantenere desta la passione del popolo per i pupi, fatta d'ingenua fede e di candido entusiasmo".
Ernesto Puzzo con Francesco Capodicasa, come rileviamo dai giornali siracusani, partecipò al concorso e fu presente alla mostra tripolina dal 1928 al 1931 con la "guerriera regina Marfisa", dove fu premiato con medaglia d'oro e riscosse larghi riconoscimenti con i suoi episodi sui Paladini di Francia ("Ortigia" febbraio 1928, "Siracusa Nuova" 5.5.1930, "Siracusa Fascista" 30.3.1931).
Nello stesso tempo si fece un censimento da cui risultò che in Sicilia esistevano 50 teatrini "dove i Paladini carolingi battagliavano furibondi contro mostri orripilanti e contro schiere trucibalde di affumicati Musulmani infedeli" davanti a un pubblico estasiato perchè vedeva il trionfo della giustizia sull'inganno e il sopruso.
L'opera dei pupi si faceva interprete del carattere dei Siciliani, di questo popolo amabile e gentile, orgoglioso e fiero, che si agita e si anima, si esprime con i gesti e con le parole, che mima tutto ciò che dice, che sente prima con il cuore e poi con la ragione, che si spazientisce ed urla di gioia e di collera. Sintomo di una prorompente vitalità e sensibilità come non è possibile ri­scontrare in un'altra parte della terra.
Fine del teatro dei Puzzo
Dal 1935 Ernesto Puzzo raramente tornò ai suoi pupi e al suo teatro. E ogni cosa fu immagazzinata in un locale di via Tommaso Gargallo, 63 (ora 55) vicino alla sua abitazione. Col passare degli anni vendette una buona parte del materiale al puparo Ignazio Puglisi di Sortino. Finita la sua carriera di puparo, iniziò un nuovo ciclo artistico per il vitalissimo Ernesto.
In vista della visita di Benito Mussolini ebbe l'incarico dal segretario generale dell'amministrazione provinciale Mangia di preparare il plastico della "Casa del Marinaio", che sorgeva dove ora è il Circolo Juvenilia in via Arsenale. Essendo breve il tempo a disposizione, si fece aiutare dal figlio Oreste, che come il padre aveva il talento della pittura e della decorazione, che lo ha portato ad essere un insegnante nelle scuole medie statali e ad affermarsi come pittore.
Insieme lavorarono giorno e notte. Il plastico fu ultimato e fu esposto nella vetrina del negozio Sesta in via del Littorio (oggi, corso Giacomo Matteotti), con gli apprezzamenti delle alte gerarchie e dei cittadini.
Preparò per alcuni anni nella sua abitazione un presepe meccanico con statuine in terracotta, che lui stesso portava nel forno Minniti, ubicato nello stesso cortile della sua casa, oppure presso la fornace del "quartararo" (vasaio) Domenico Nicastro (Avola 17.1.1909-Siracusa 15.8.1984) in contrada isola, via Lido Sacramento, oggi adattata a ristorante.
Il presepe ricco di paesaggi era tanto bello, che in quei giorni di dicembre, come ricorda ancora il figlio Oreste, essendo la loro abitazione vicino al Tribunale (ora, sito in piazza della Repubblica), era meta di avvocati e funzionari, giudici e dello stesso presidente, allora dottore Lupis.
Realizzò anche diversi presepi con pezzi di carbone fossile, già usato dalla ferrovia quando la locomotiva andava a vapore, in gergo chiamati "cacazza", che gli forniva il capo stazione della linea Siracusa-Ragusa-Vizzini, Giovanni Onorato (Siracusa 12.7.1903), il quale ne aveva uno, andato poi distrutto.
I pezzi di carbone pitturati con colori diversi, secondo quello che dovevano raffigurare, diventavano grotte, giardini, case a due piani con scalinate e illuminate. Questi venivano incollati fra di loro con il gesso in modo da formare un pezzo unico, su cui venivano adattate le statuine secondo l'ambiente.
Riprodusse in legno per un'altezza di circa un metro il simulacro argenteo di Santa Lucia a cui aveva dedicato la recita omonima, che aveva avuto tanto consenso da essere ripetuta 40 sere consecutive, anche alla presenza dell'arcivescovo Carabelli e del capitolo metropolitano al completo.
La scultura come hanno riferito parecchi cittadini, era tanto pregevole che nella settimana con inizio il 13 dicembre, dedicata ai festeggiamenti della patrona di Siracusa, veniva esposta come le opere di Beppe Assenza, nelle vetrine dei negozi di stoffe di Risi e di Accolla in via della Maestranza.
Grande fu l'attività di Ernesto nel settore della cartapesta durante i carnevali siracusani. Tra il 1938-40 e poi tra il 1946-48, costruì nei magazzini di via Malta, oggi inesistenti, figure animate in cartapesta, che furono premiate. Ricordiamo l"Airone" con le ali mobili, il "Tandem" guidato da una donna e il giovane dietro che guardava impaurito, il "Mondo" con il segno del regime, che girava attorno al sole, "Re Carnevale" su un drago Nel 1943 a seguito dello sbarco degli Anglo-Americani durante la seconda guerra mondiale, il comandante Smith lo chiamò per abbellire i locali dell'Upim in corso Giacomo Matteotti e il Caffé Bianca nel piazzale delle Poste, per adibirli a circolo e a ritrovo per ufficiali.
Insieme al figlio Oreste dipinse a tempera 64 quadri di vario soggetto per l'Upim. Nel Caffè Bianca (poi chiamato Caffè delle Poste, attualmente chiuso) riprodusse dentro i riquadri interni già esistenti, i monumenti della città.
Successivamente sempre per conto del capitano Smith lavorò a Catania presso il Caffè Lorenti in via Etnea, ubicato dove ora è La Rinascente, che ne fece un circolo per gli ufficiali. Qui, sempre con il figlio, raffigurò paesaggi londinesi dentro cornici a imitazione gesso, arricchiti da festoni floreali.
Ernesto a 51 anni e Oreste a 20, misero in risalto tutta la maturità e la freschezza del loro poligrafismo.
Dopo questa parentesi, Ernesto il cui pensiero era sempre rivolto ai pupi, si mise a costruire a periodi, ma fino alla fine, marionette di piccole dimensioni come souvenirs e carettini siciliani, che erano capolavori di falegnameria, di sbalzo e di pittura, di cartapesta e di finimenti.
Nel 1948 l'Ente Provinciale Turismo (oggi Azienda) allestì una manifestazione pubblica in riconoscimento dell'arte di Ernesto Puzzo e del suo amore per l'opera dei pupi.
Ernesto mori il 9 aprile 1965, ma il ricordo della sua forte personalità e il racconto perenne della sua fantastica attività come quella dei suoi continuatori, lo rendono ancora vivo e presente fra i Si­racusani di oggi. E così sarà fra le generazioni future, finché ci sarà un poeta, un innamorato delle cose belle, semplici e vere della vita.


IL FOLKLORE
La storia millenaria di Siracusa e della Sicilia intera è segnata dal mito e dalla leggenda, dall'arte e dal folklore, che ne fanno un centro ricco di monumenti e di opere, d'interesse per lo stu­dio e la ricerca, di attrazione turistica.
L"'opera od opra dei pupi" costituisce un aspetto caratteristico del folklore siciliano, di un mito poetico legato alle usanze, alla mentalità, allo spettacolo popolare.
Nelle sue rappresentazioni sceniche rivivono fatti e costumi della Sicilia antica, ancora oggi, presenti nel paese.
La sua forma di seduzione, che pare sconfiggere anni e mode, che torna ad ispirare i nuovi spettatori, è capace di coinvolgere nel tempo ciò che è ormai fuori dal tempo, nella civiltà presente ciò che appartiene al passato.



E in questo continuo rifarsi, in questa perenne attualità, il folk­lore (dall'inglese folk "popolo" e lore "dottrina") acquista un suo universale valore.
L'uomo cerca continuamente il suo passato, come ricordo d'in­fanzia di un popolo, di un ritorno alle radici, per trovare identità e nuova linfa. E questo rinnovo e ritorno costituiscono l'essenza di tutta la sua storia, della sua civiltà, della sua umanità.
I frammenti delle vecchie concezioni del mondo diventano ele­menti di una nuova mentalità, si fanno patrimonio irrinunciabi­le, fermento e base del pensiero e delle azioni della società contemporanea. E questo accompagna l'uomo nel mistero della nascita e in quello della morte, nei suoi sogni e nei suoi amori, nei suoi desideri, nella perenne lotta fra il bene e il male.
Così l'opera dei pupi con le sue storie e con le sue rappresen­tazioni, caratterizza nell'uomo e soprattutto nel popolo siciliano quella ricerca costante dei motivi e degli aspetti della sua esistenza, che costituisce la sua stessa ragione creativa.
Le storie prendono spunto dalle vicende eroiche relative ai Pa­ladini di Francia. Si collegano alla poesia epica, che narra tra real­tà e fantasia le imprese, la forza e il coraggio dei cavalieri.
Poesia che ebbe origine in Francia e poi si sviluppò in Germa­nia, in Spagna e in Italia tra l'XI e il XIII secolo nell'arco storico del conflitto tra il mondo islamico e l'Europa cristiana, in cui si svolsero le crociate in terra santa contro i Mori (Turchi o Sarace­ni o Musulmani), perchè Gerusalemme e la Palestina tornassero nelle mani dei governi cristiani.
Forse in Sicilia si sviluppò con i Normanni, che certamente fa­vorirono la diffusione del mito di Rolando (o Orlando), alimen­tando così la materia del "cuntu" (racconto), in una terra che era stata sempre teatro di scontri e incontri di popoli, di civiltà, di fedi religiose e politiche diverse. E in questa terra la "Chanson de Roland" si arricchì di altri personaggi fra cui l'astuto Rinaldo, che divenne cugino di Orlando, formando una coppia indivisibi­le in tempo di pace come di lotta, anche "l'uno contro l'altro armati".
In Sicilia le città rinomate per avere dato vita a un teatro dei pupi di tutto rispetto sono Palermo, Catania e Siracusa, su cui ci fermeremo a parlare.

PREISTORIA E STORIA

Dalle notizie storiche contenute nei testi di diverse epoche, ap­prendiamo che i pupi a Siracusa hanno avuto antichi antenati. Leggiamo nel Convivio dello storico ateniese Senofonte (430-354 a.C ), discepolo di Socrate, che un puparo siracusano soleva al­lietare i convitati del banchetto nelle aule e nelle sale di Callia con rappresentazioni di opere di pupi. Dice anche che in una cir­costanza similare Socrate preferì alla recita dei pupi, la loro dan­za. E il Siracusano eseguì una pantomima musicale dell'incontro di Arianna e Dioniso.
I ritrovamenti archeologici di Ninive e di Babilonia, hanno do­cumentato che i Babilonesi conoscevano il teatro delle marionette. Come pure gli Egiziani, i Cinesi e i Giapponesi, dove sono tenute in gran conto ancora oggi. Il termine K'uei lei, K'uei lei tzu, derivato dal greco Kùkla, con cui viene chiamata la marionetta, ci fa pensare ad un'importazione di origine europea.
Il filosofo Aristotele (384-322 a.c.) ne fa una descrizione succin­ta e completa. I Greci la chiamavano "neurospata" cioè tirata per mezzo di nervi. Anche presso i Romani troviamo spettacoli e ter­mini, che si riferiscono alle marionette.
Abbiamo "oscilla", "simulacra", "imagunculae", "pupus", nomi che ci permettono di comprendere che le rappresentazioni rea­lizzate con i sacrifici simulati di un'immagine in onore di Satur­no e di Bacco o Dioniso, avevano carattere religioso.
Le marionette si differenziano dai "burattini" sia per essere a figura intera di legno e azionate per mezzo di fili, sia per i linguaggi e i repertori, poiché questi venivano utilizzati in genere, per spettacoli satirici e farseschi, comici e grotteschi.
I burattini (da buratto, nome di una stoffa) sono fantocci for­mati da una testa, di solito di legno, alla quale è congiunta una veste completa di ogni particolare, manovrati dal basso dal burattinaio, che dà loro vita con una mano o per mezzo di bastonci­ni di legno o di osso. Cosa che vediamo ancora oggi, guardando ai teatrini ambulanti o semistabili delle maschere di Pulcinella e Arlecchino in Italia In Europa le marionette si affermarono tra il XVI e il XVII secolo. Venivano adoperate in occasione di spettacoli sacri e nelle corti feudali. E forse il loro nome deriva proprio dalle raffigurazioni della Vergine nelle cristiane rappresentazioni delle opere dei "ma­rionettisti". Immagine a cui si sono ispirati, specie a quel tempo, artisti e cultori di ogni livello, scultori e pittori, musicisti e poeti, maestri vetrai e teologi. D'altra parte "mariettes" o "mariolettes" erano chiamate le figurine di legno o di cartone raffiguranti la Ver­gine e i piccoli oggetti di devozione.
In Sicilia si affermò l'opera dei pupi con un repertorio eroico - cavalleresco formato da marionette vistosissime, che a differen­za di quelle che abbiamo esaminato, apparvero ricoperte di ar­matura e alte più di un metro.
La parola "pupo" (pupus, cioè bambino) apparve ufficialmen­te verso la fine del 1700, come si evidenzia in una richiesta rivolta al "Presidente del Regno" perché concedesse a un puparo "il per­messo di piantare un piccolo casotto, onde seguire il suo spettacolo di burattini, di pupi a filo, a uso in Lombardia".
Nella domanda appare chiaro il tentativo di spiegare come fos­sero i pupi, termine generico con cui nell'isola si chiamavano pure le bambole, le statuine di legno, di argilla, di cera, di zucchero.
Più tardi, dalla fine della seconda guerra mondiale negli studi di etnologia e di sociologia, i pupi acquistarono definitivamente il loro nome legittimo, anche se nel linguaggio del Ministero dello spetta­colo continuano ad essere omologati nella denominazione di bu­rattini.
Il pupo armato giunse probabilmente dalla Spagna, dove erano famose le rappresentazioni delle "titeres", essendo allora la Sici­lia come il napoletano sotto il dominio spagnolo, costituendo il Regno delle due Sicilie. Pare che sia stato lo stesso Viceré di Na­poli, il castigliano Don Rodriguez Ponce de Lèon a portarle nel 1646.
Queste marionette, sfarzose nelle luccicanti armature e caval­leresche fino alla parodia, entusiasmarono la nobiltà napoletana, che fece allestire dei lussuosi teatrini. A seguito delle insurrezio­ni contro il mal governo, il popolo occupò i locali e poi si appro­priò di questa forma di spettacolo.
Ebbe inizio così, una nuova fase dell'opera dei pupi. Pur predominando gli usi spagnoli e l'elemento moresco, acquistò una propria fisionomia in relazione ai contributi personali del pupa­ro, ai sentimenti e al costume del popolo, al rapporto con la real­tà sociale e storica della Sicilia.
Da Napoli il teatro delle marionette si sviluppò a Palermo, poi a Catania e infine a Siracusa.
In Sicilia, in questa terra di fragranza naturale e di gioia artistica, l'opera dei pupi raggiunse il massimo splendore nel 1800 per tanti motivi tecnici e interpretativi, che via via andremo a scopri­re per tracciare la storia dei pupi a Siracusa. La quale assieme al "cuntastorie", che si spostava per le città e i sobborghi, costituì una delle più diffuse forme di spettacolo popolare fino all'avven­to del cinema, soppiantato ai nostri giorni dalla televisione.
Fra i pupari assurti a leggenda e di cui parlarono in seguito alcuni giornali e si occuparono gli storici, ricordiamo Gaetano Greco, Ferdinando Lucchese, Domenico Scaduto e Alberto Canino a Pa­lermo, Gaetano Crimi, Giovanni Grasso, Angelo Musco, Giuseppe e Fortunato Pasqualino, Emanuele Macrì a Catania, la famiglia Puzzo, Vincenzo Mangiagli e Ignazio Puglisi a Siracusa. Di questi tratteremo la storia e nel farlo scopriremo uno spaccato di vita associativa ed economica, artistica e culturale della città e dei suoi abitanti. Ricostruiremo un momento magico dove diavoli e mostri, streghe e fate con le loro cattiverie e i loro incantesimi, gli angeli con il loro potere divino, sbarrano e spianano la via agli eroi senza paura, armati di fede e di giustizia per vincere i mali dell'epoca.
L'opera dei pupi con i suoi racconti non rimase a livello di puro intrattenimento, ma divenne anche se involontariamente, motivo di insegnamento di vita, perché rappresentava e continua a farlo, quello che l'uomo vorrebbe essere. Al contrario delle marionette, che sono un'imitazione caricaturale delle debolezze umane. Ogni cosa è ben delineata, ogni personaggio è ben definito. Il male è male, Il bene è bene. Il bene alla fine trionfa sempre.
Inoltre il pubblico non fu mai elemento passivo, fruitore inerte dello spettacolo, ma partecipava attivamente allo svolgersi degli avvenimenti con passione e forza, tanto da divenire parte deter­minante dello spettacolo stesso.
Tutto ciò permise all'opera dei pupi di configurarsi nella sua fondamentale espressione etico - morale, in tutta la sua vivacità e suggestione tragicomica.

I PUPI E IL TEATRO

Siracusa rappresentò un punto di incontro tra il teatro dei pupi della Sicilia orientale e quella occidentale, dando vita ad un'opera con caratteristiche proprie.
Come in tutti i centri siciliani, i pupari del siracusano traman­davano il mestiere da padre in figlio, costituendo una vera e pro­pria "famiglia", una "scuola" da cui nasceva "l'opra o l'opira" al completo. Dalla costruzione del pupo al vestiario, dalle arma­ture alle scene, dalla stesura del copione ai cartelloni, dalla reci­tazione all'invenzione di nuovi espedienti e soluzioni tecniche, tutto era frutto della genialità e del lavoro manuale dei pupari e dei loro familiari.
I pupi erano e sono ancora, i figli di legno del puparo. Non a caso tutt'oggi, negli strati popolari il bambino al vezzeggiativo è chiamato pupo o pupetto. Nel tempo questo nome assunse il si­gnificato di persona poco seria, senza carattere, di situazione poco chiara, che sta tra il sembrare una cosa e l'esserne un'altra.
Come per incanto nascono da pezzi di legno che l'artigiano si procura e lavora con amore e maestria, affinché il pupo risulti ben fatto in ogni arto, equilibrato e maneggevole nel suo insieme, in grado di rendere efficace il personaggio che rappresenta. E quando finalmente è soddisfatto della sua opera, subentrano le donne del­la famiglia che lo vestono con sensibilità e buon gusto.



Ogni pupo è un personaggio particolare a cui la "famiglia" ha infuso forza e virtù per affrontare con coraggio e imponenza ogni incontro, ogni avventura ed imprevisto, ogni sfida e "singolar tenzone".
I pupi dei Puzzo sono ricordati per la loro perfezione e bellezza, per l'intaglio del volto, la colorazione dei contorni e gli occhi di vetro che fu loro esclusiva prerogativa, come per la lavorazione delle armature, delle decorazioni e delle vestimenta.

   


Le armature erano in rame, in bronzo e in ottone, lavorate ad alto e basso rilievo. L'abbigliamento e il mantello erano di raso pesante e di velluto finemente ricamati in oro e argento. Basta vedere l'unico esemplare rimasto a Siracusa e conservato presso l'Azienda Provinciale Turismo.
Si tratta della bella "Marfisa", la donna guerriera, protagonista dei poemi del Boiardo "Orlando innamorato" e dell'Ariosto "Orlando furioso". La finezza dell'intaglio, che eccelle nei tratti del volto, la minuziosa lavorazione dell'armatura a mano e a stampo, l'eleganza del portamento data dall'altezza e dal peso, fanno davvero dire che i Puzzo furono artisti ineguagliabili. Costituirono una realtà artistica nel campo della marionettistica siciliana. Marfisa con la sua fiera femminilità, come ieri è costantemente presente in numerose mostre nazionali ed estere dal richiamo turistico e a testimonianza del grado di sviluppo di quest'arte in Sicilia.
I pupi siracusani, rappresentati principalmente da quelli dei Puzzo, sono più alti e possenti di quelli palermitani e catanesi. Misurano m 1,40 - 1,45 e pesano 45-50 kg. Hanno ginocchia mobili con ginocchiera sbalzata.



I Paladini portano, generalmente, lo scudo di forma tondeggiante; le cerniere e le trafitte, che univano la corazza, erano fissate in modo che durante il combattimento si potevano disinnescare, sicché la corazza del colpito sembrava ridursi in pezzi. Rendendo così, la scena più reale e nello stesso tempo spettacolare.
I Paladini si riconoscono tra di loro oltre che dal colore della tunica, dall'emblema araldico posto sull'elmo, ripetuto sullo scudo. Orlando porta l'aquila. Tuttavia sul suo scudo a volte, appare una croce, come pure sul petto della corazza. Astolfo ha un tubo da cui esce una piuma, Guido di Santa Croce la croce, come pu­re Ruggero, saraceno diventato cristiano per amore di Bradamante, il cui blasone come per il fratello Rinaldo è il leone, Genoveffa ha la cerva, Carlo Magno porta la corona imperiale.
I Saraceni hanno sull'elmo la mezza luna, portano la scimitarra e i pantaloni alla zuava in forti colori. Tutti i reali per distinguersi hanno lo stemma montato su una corona. Fra i Paladini, Orlando ha la spada ricurva come quella dei Saraceni, la famosa "Durlindana". Rinaldo impugna la "Fusberta" a serpentina. Tutti gli altri hanno quella di tipo tradizionale.
L'opera dei pupi rappresentava un'epopea cavalleresca intrisa di fatti tragici e sublimi, creati apposta per esaltare i migliori sen­timenti umani ed in primo luogo quelli dell'onore e della giusti­zia. Per questo si rivela la più spontanea espressione dell'indipendenza spirituale conservata dai Siciliani nonostante le vicende politiche dell'epoca.
I Paladini erano gli eroi impavidi, che ad onta di ogni pericolo correvano per difendere e proteggere il debole, l'oppresso. Era­no un simbolo della giustizia sociale ed inconsapevolmente del­la pari opportunità fra l'uomo e la donna.
Fra i Paladini dal coraggio virile, troviamo figure femminili in- terpetri dei due aspetti del "pianeta donna". Angelica, che im­persona la bellezza e il fascino della donna debole e indifesa, vista secondo la cultura tradizionale. Bradamante, Genoveffa e Marfisa, che personificano un tipo di donna spregiudicata, in grado di essere un'audace guerriera, di combattere con la stessa fierez­za e autorevolezza, forza e impeto degli uomini per difendere e affermare gli stessi comuni principi.
Purtroppo tali esempi non potevano avere presa sulle donne del tempo, che non frequentavano questo genere di spettacolo. Le aristocratiche preferivano la lirica, l'operetta, la commedia, che rappresentavano quasi sempre una donna succube o vittima. Le popolane, relegate quasi sempre in casa, uscivano solo per le vi­site ai parenti e per le funzioni religiose.
I  Saraceni contro cui combattevano i Paladini, impersonavano gli intrusi, gli invasori, gli oppressori. E il pubblico si esaltava con vivo interesse specie nel momento finale del duello, quando soc­combeva il malvagio. Scena, resa ancora più entusiasmante dalla perizia manuale e vocale del puparo, ricca di sottintesi e di allu­sioni locali, che erano ben compresi dai presenti.
II teatro adoperato per la messa in scena delle opere, fatto per sedurre gli occhi, lo spirito e la fantasia, disponeva di un palco­scenico, le cui misure variavano secondo i pupari.
Quello dei Puzzo era tanto ampio da potere ospitare filodram­matiche. I pupari animavano le marionette dall'alto di un ponte posto dietro il fondale scenico come i Catanesi, o da dietro le quinte ai lati come i Palermitani, o come i Siracusani a differenza degli altri, dall'alto di uno o due ponti posti sulla scena.
I pupi erano muniti di un'asta di ferro alla testa e al braccio destro, e di una cordicella alla mano sinistra per muovere lo scudo. L'asta di ferro sulla destra era fissata tra l'elsa della spada e il pu­gno secondo lo stile catanese, e vi era anche una cordicella che serviva per uscire la spada dal fodero.
Con questi accorgimenti i manovratori controllavano i loro mo­vimenti secondo le varie situazioni, a cui accoppiavano un lin­guaggio appropriato ad ogni personaggio, mantenendo un continuo contatto con il pubblico, che in certi momenti diventa­va esso stesso attore.
Alla fine di ogni spettacolo per riposarsi e placare gli animi fra i partigiani dell'uno e dell'altro Paladino, venuti in disputa du­rante i furibondi combattimenti, veniva data la farsa con maschere di strafalcioni (Nofriu, Virticchiu, Peppenino e altri), che poteva­no avere riscontro anche nella realtà locale.
I pupi adoperati erano sempre di legno, avevano un aspetto tron­fio ed erano molto loquaci. Con la loro prosopopea accumulava­no i più solenni errori sopra qualunque argomento con gran spasso e delizia degli spettatori. E ciò secondo l'antica consuetudine tea­trale dei Greci, che dopo la tragedia avevano il pezzo satirico.
I COPIONI E I CARTELLONI
Una particolare attenzione meritano i copioni, che avevano
il compito di tenere avvinti gli spettatori nei loro lunghi "cicli" e i cartelloni, destinati a pubblicizzare lo spettacolo, ad attrarre gli spettatori e a tenere testa, così, alla concorrenza.
I pupari erano artigiani che pur non possedendo una prepara­zione culturale a giudicare dai loro manoscritti o "quaderni", tracciavano i loro canovacci, stilavano i loro racconti ispirati dall'ideale di giustizia, che in ogni tempo è stata un'esigenza, un'aspirazio­ne e un desiderio mai realizzato del popolo siciliano.-

Rappresentavano temi per lo più dei Paladini di Francia, che non erano frutto di pura invenzione, ma erano ricavati dai romanzi del genere cavalleresco di autori come Giusto Lodico, Emanuele Bruno, Giuseppe Leggio, Saverio D'Andrea, o erano costruiti sul­la base di ricerche storiche.
Usavano parole o battute caratteristiche, molte delle quali sono rimaste nel gergo popolare. Avevano metodi personali nella traspo­sizione scenica attraverso un canovaccio, che era un elenco delle scene secondo il loro susseguirsi e nel modo di raccontare i fatti.
Divennero famosi l'amore e la gelosia con cui custodivano i co­pioni e acceso era anche il campanilismo, soprattutto dei pupari siracusani nei confronti di quelli catanesi.
I pupari rappresentavano le loro opere secondo un program­ma, che a volte durava un gran numero di puntate, susseguen­dosi per vari mesi. Come la maglia di una catena gli episodi esaurivano l'azione nell'ambito della propria puntata ed erano le­gati insieme dal filo dell'epopea dei Paladini, di cui "cuntavano" (raccontavano) le gesta.
Va precisato che il repertorio non si limitò a queste storie, ma comprese in qualche modo tutta l'epica del mondo, dalla Bibbia all'Iliade, dalla vita dei santi fino alle imprese garibaldine dopo lo sbarco in Sicilia. Tant'è che nella Casa Museo di Palazzolo Acreide (Siracusa) si conserva un pupo vestito da "garibaldino".
La classe cosiddetta colta, come oggi non è riuscita a prendere sul serio la manifestazione artistica dei fumetti, così allora non prese in considerazione l"'opra". Questa espressione che veni­va dall'anima e dal sentimento del popolo e non dalla cattedra o dai salotti, che era un moto spontaneo e individuale e non frut­to di moda o di potere. Tuttavia non disdegnò di aiutare e di for­nire libri e notizie, perché il puparo costruisse i suoi racconti, ne di farsi rappresentare lo spettacolo in privato, ne di assistervi di tanto in tanto nel suo locale, fra l'irrequieto pubblico fatto di adulti, ragazzi e militari, consumatori
instancabili di "calia e simenza" (ceci abbrustoliti e semi di zucca), riposte in un cartoccio di carta- paglia o di giornale, acquistate dal venditore che circolava nella sala con il suo cesto di canne intrecciate o con la sua cassettina al collo durante gli intervalli.
Lo stesso stile semplice e ingenuo dei copioni, traspariva an­che nei cartelloni, esposti nei luoghi centrali del paese e negli angoli delle strade vicine al teatro.
Erano grandi e pesanti fogli di carta in posizione orizzontale ("o longu"), attaccati a un riquadro della stessa dimensione, che ri­producevano a tempera la scena più suggestiva e più movimen­tata. Le loro misure variavano secondo i pupari.
Erano per lo più dipinti da pittori locali amanti dell'opera dei pupi, che vi profondevano tutto il loro zelo. Tra i pupari del sira­cusano solo i Puzzo ieri, come i Vaccaro oggi, pitturavano i loro cartelloni.
I cartelloni venivano corredati da un altro foglio di carta bianca di proporzione minore, chiamato "u nvitu (l'invito), su cui veni­vano riassunte a stampatello le vicende dello spettacolo del giorno.
Erano preparati dagli stessi pupari con un linguaggio fiorito e mirabolante, cercando di interessare il pubblico.
Questi nel loro insieme costituiscono fra le manifestazioni dell'arte popolare, un documento importante sul piano etnografico e artistico. La loro sgargiante policromia, dove dominano i gialli, i rossi, i blu oltre mare, i verdi, colori che ritroviamo nelle ve­sti indossate dai pupi e nei costumi folkloristici, li contraddistin­gueva.
Fra i Paladini raffigurati nella loro armatura con le spade sguai­nate, a volte si intravedevano draghi e mostri, maghi e demoni, castelli e paesaggi intrisi di mistero, che accendevano la curiosi­tà e spingevano la gente a conoscere i fatti e il modo con cui l'eroe avrebbe portato a termine la sua impresa, uscendone vittorioso.








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