Carnevale Siracusa - Siracusa memorie ricordi

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
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Carnevale Siracusa

anni 50 > socialità Siracusa

Quando il " Carnevale veniva festeggiato " e la gente siracusana e non partecipava alla manifestazione, con tanti carri allegorici in bella mostra




Perché si festeggia il carnevale ?
Il Carnevale ha radici molto antiche. Si tratta di una festa di origine cristiana che aveva luogo il giorno prima dell’inizio della Quaresima quando, come da prescrizione ecclesiastica, veniva fatto divieto di consumare carne, tant’è che la parola deriva dal latino carnem levare ossia “eliminare la carne”.
Il periodo del Carnevale si colloca infatti tra l’Epifania e il giorno che precede il Mercoledì delle Ceneri (martedì grasso). Il termine carnevale fu introdotto solo alla fine del XIII secolo dal giullare Matazone da Calignano.
Testimonianze documentarie farebbero risalire il carnevale già all’VIII secolo d.C. in concomitanza con i saturnali un ciclo di festività facenti parte della religione romana in cui ci si lasciava andare ai piaceri del cibo e del corpo. Durante tutto il periodo dei saturnali veniva messo in atto un sovvertimento delle gerarchie e degli ordini sociali che portava allo scambio di ruoli e al camuffamento della propria identità. Da qui l’uso delle maschere. Un momento in cui era lecito rompere gli schemi e lasciarsi andare alla dissolutezza. Il carnevale, portatore di caos e scompiglio, segnava anche l’inizio di un rinnovamento che avrebbe accompagnato gli uomini fino all’anno seguente. (testo e foto Matteo Masoli)

CARNEVALE COM’ERA DI ORESTE REALE DOCUMENTO PDF

copertina articolo Oreste Reale



piazza delle poste locandina Betta - Lucca



Umbertino


piazza Archimede

                          
festival Arena Verga



Tra le feste popolari più attese e celebrate della Siracusa anni Trenta, ricordiamo, senza timore di fallacia, quella del Carnevale. Carnevale, quanta gioia per le vie della città. Siracusa piena è già di canzoni in quantità... Sono le parole di Turiddu Grillo musicate dal maestro Patania. Accoppiata felice che diede a Siracusa il privilegio di cantare il più bell'inno alla Trinacria: "Sicilia, Sicilia, canta na pastureda...,E chi non l'ha cantata?
Reminiscenze, riferimenti storici, inedite occasioni di divertite presenze in questo illuminante squarcio di siracusanità
"M'arrivoddu"
di Aldo Formosa
Rischiando retorica e nostalgia, un "cappelletto" sul Carnevale siracusano "com'era" si può fare. Affacciato su via Rodi, appena bambino, guardavo i carri affollati di mascherine che si preparavano al gioioso corteo. Me ne ricordo uno, bellissimo: l'Airone. Nel mio "m'arrivòddu" c'è ora la meraviglia di avere vissuto giornate dai momenti umanamente migliori: e non potevo saperlo. Persino il Carnevale, coi suoi prepotenti risvolti sociologici, oggi a Siracusa suscita — ben oltre le luminarie dell'avvenimento pagano — occasione di rammarico.
I nuovi dei che governano queste nostre calamitose giornate non consentono più — e c'è anche una sorta di grottesca giustizia in questo - di rivivere le tradizioni, i valori, i sentimenti, le francescane allegrie... "M'arrivòddu": ci si divertiva con poco, con la ingenuità dei buoni sentimenti. Ho reminiscenze in technicolor di avventurose mascherate vissute con tanta fantasia e pochi mezzi.
Indagare nell'habitat dove oggi il Carnevale celebra i suoi farneticanti riti di apparente e irraggiungibile felicità, tra una fauna alla assatanata ricerca dell'iperbole, significa rimestare nel torbido come si può fare anche nelle pagine di cronaca nera: abissale divario con altri momenti, con altra gente, che al massimo poteva vivere occasioni di cronaca rosa. Ecco: la nostalgia in agguato. Vabbe'. Un "cappelletto" deve avere misure non brevi e nemmeno lunghe. Questo può anche finire qui.

Siracusa aveva, negli anni Trenta, il più bel Carnevale dell'Isola: le sfila­te dei carri allegorici, la Fiera Festival, i balli e tutte le altre manifestazioni erano di tale importanza e classe da attirare gente di tutta la provincia e oltre. Non a caso la città di Siracusa primeggiava in questo settore di svago culturale; patria di Sofrone e di Epicarmo, inventori del mimo e della commedia. A voler esser pignolo posso far risalire il tutto ai mimigiambi siracusani del V secolo a.C. Dai frammenti e dalle notizie di Sofrone, emerge una identità di situa­zioni e di linguaggio fra il Corifeo dei giambi e la maschera siracusana del "dottore", fra il coreuta e "u tistuni", altra maschera caratteristica e singola­re del carnevale siracusano. Entrambi agiscono in uno spettaeolo improvvisato senza testo né canovac­cio, avente per palcòscenico la strada.

'U DUTTURI


Maschera di grandissimo effetto ma di difficilissima rappresentazione. Ci voleva una grande logorrea ed una vis comica eccezionale.
—   Venghino... prego, consulto gratisse - diceva il dottore con tuba e "sciasse" mentre saltellava con agile piede. - Due pillole di carburo di calcio al giorno e iniezioni di acido fenico sul cullo
—   Ecco la ricetta del professore, che scriveva il tutto su un foglio di carta igienica.
(Otto Razzi)
Vestiva in modo eccentrico: giacca a frac, marsina a tight bianca su pantalone nero oppure nera su pantalone bianco. Camicia con colletto inamidato tipo "sparato" e papillon grandissi­mo; cappello a cilindro o bombetta nera; occhialoni su grosso naso naturalmente rosso di sbronza; scarpe... abbondanti con ghette bian­che; gilet quadrettato dai cui taschini usciva
una catena ornata di talismani (cornetti ecc.). Appeso al collo un cartello con su scritto: "Cerco moglie, anche usata" oppure " sugnu siddiatu". Il nostro dottore portava un bastone con il pomo argentato. Dimenticavo: in una mano reggeva un colossale termometro che andava ficcando sotto 1"ascella della "vittima" occasionale. E correva, correva per una intera nottata, senza stancarsi.
Ricordo che una sera, usciti di casa in via Mirabella, spuntammo nella via del Littorio (oggi Matteotti) io, mia madre e Nannitta, la "criata". Ad un tratto, proprio all'altezza del panificio Minniti, ci bloccò Carmelo Gallitto, il "dottore " per antonomasia: «Signuruzza — abbracciò mia madre - cca siti? Iu stava venennu a casa. Chi c'è, chi fu?». Ed infilò sotto l'ascella della mamma un termometro di mezzo metro. Quando lo tirò fuori gridò spa­ventato: «Mih! Novantacincu! Chista è frevi di cavaddu... ma cavaddu di carrozza di mortu! », e giù una lunga lista di medicinali come: "petra pumici, scoccia di ova, naftalina e, dul- cis in fundu, "lavanna di spini di rizza".
'U TISTUNI
Chi sceglieva questo personaggio indossava camice bianco bordato di rosso, lungo fino i piedi; infilava il capo in una enorme testa di cartone pressato sormontata dal cilindro dei cuochi che aveva una sola apertura in corri­spondenza della bocca, e da cui il mascherato poteva respirare e vedere, ma non poteva par­lare; era quindi una maschera muta. In una mano teneva un grande coltello finto e nell'altra una "corda" di salsiccia ottenuta riempiendo calze di donna con della segatura. A gruppi di almeno quattro persone, "i tistuni" girovagavano in cerca del personaggio adatto alla burla che consisteva nel girargli attorno per tre volte mostrando la salsiccia e invitandolo, mimicamente, a degustarla (*).
Era un divertimento, una festa attesa per tutto l 'anno che alla fine, poi, dava un consuntivo soddisfacente. Gli affari andavano a gonfie vele per il turismo; lasciavano gli albergatori soddisfatti, così altrettanto il commercio. Quando poi, durante la festa, c'era la partecipazione dei " Cori di Val d'Anapo" la gente accorreva in massa j>er poter assistere allo spettacolo...
(Mario Pistorio).
La sfilata dei carri durava dal primo pomeriggio sino alla mezzanotte. Il corteo partiva da piazza S. Lucia, alla Borgata, e percorrendo via Piave, viale Regina Margherita, Corso Umberto, la Mastrarua, via Roma e via Minerva, arrivava in piazza Duomo dove c'era la sede dell'O.N.D. Intanto per le vie d'Ortigia impazzava il carnevale con lanci di coriandoli, stelle filanti, confetti, cioccolatini e spruzzi di acqua di Colonia (più acqua che colonia). Allorché qualche coppia di forestieri bene "azzimati" e "tisi tisi" capitava a tiro di un gruppo di giovani festanti, veniva accerchiata e fatta oggetto di lazzi e frizzi esilaranti. Guai poi a passare sotto qualche balcone con in testa il cappello. Da su calava un filo trasparente (u fil'i sita) al cui capo era legata una molletta di quelle che si usano per sciorinare la biancheria. Un complice a terra s'incaricava poi di agganciarla alla tesa del cappello dell'incauto passante. Il poveretto si vedeva d'un tratto portar via il cappello fra le risate degli astanti e il rimprovero della moglie: "T'ava rittu jù ri sciri senza cappeddu. Peggiu ppi tia!".
Mentre i baccanti intonavano la canzone di Turiddu Grillo: UE tornato Carnevale, ogni scherzo vale. Del doman nulla si sa!".
Chiudeva la sfilata il carro di "Re Cannaluàri". Era alto, grosso, brutto e beato; era "malufattu e maluvistutu"; con una mano teneva per il collo un fiasco di vino, con l'altra una gigantesca salsiccia; fra i denti stringeva un grosso sigaro; sul panciotto, al posto della catena dell'orologio, da un taschino all'altro, reggeva appesa una corda di "caddòzzi di sasizza"; una collana di salsicciotti attorno al collo completava le sue decorazioni... Alla mezzanotte del martedì grasso, si eseguiva la sua condanna, povero "Cannaluàri", per i suoi mille peccati era stato inesorabilmente condannato, senza appello, al rogo.
Alla Marina o sui Ponti bruciava miseramente, in pochi minuti, mentre dal sigaro, dagli occhi, dalle orecchie, dal naso, da tutte le parti, sparava "suffarèddi" colorati...
(Enzo Siena)
LA FIERA FESTIVAL
Epifania tutte le feste se le porta via." Sarà stato questo detto popolare a spaventare la gente sino a costringerla ad inventare il Carnevale? Eh sì, deve essere stato proprio così, perché il periodo carnevalesco, nella Sicilia orientale, comincia proprio dopo la festa "de tri Re" e più precisamente il dodici gennaio, per rispettare il ricordo doloroso "di l'unnici innaru vintunuri" (dell'undici gennaio alle ore ventuno) del 1693 quando le province di Siracusa e Catania furono sconvolte da un terribile terremoto.
Per tradizione antica tre erano le date da rispettare nel mese di gennaio: il sei, Epifania; il diciassette, S. Antonio e il venti S. Sebastiano, tanto che solevasi dire:
"Doppu li tri Re tutti ole!— Ppi Sant' Antoni, maschiri e soni ! - Ppi San 'Mmastianu, maschiri 'zi chianu". A Siracusa, subito dopo il dodici gennaio, s'incomincia a costruire " u festivallu" ovvero la fiera festival di carnevale.
L'organizzazione e l'iniziativa erano dell'OND sino al 1940 e dell'ENAL nel dopoguerra.
Il carnevale cominciava già dopo l'Epifania, quando con i pochi spiccioli raccolti nelle "tombole"familiari mettevano nei salvadanai le venti lire per le maschere di carnevale!... A pochi era concesso, allora, un "vestito di carnevale": costava parecchie centinaia di lire noleggiarlo nel 1951 in via Cavour o in via Dione, dove i negozi eli abbigliamento si trasformavano per un mese in "trovarobe", musei del costume, sartorie specializzate e simili...
(Corrado Cartia)
L'organizzazione e l'iniziativa erano dell'OND sino al 1940 e dell'ENAL nel dopoguerra.
Il carnevale cominciava già dopo l'Epifania, quando con i pochi spiccioli raccolti nelle "tombole"familiari mettevano nei salvadanai le venti lire per le maschere di carnevale!... A pochi era concesso, allora, un "vestito di carnevale": costava parecchie centinaia di lire noleggiarlo nel 1951 in via Cavour o in via Dione, dove i negozi eli abbigliamento si trasformavano per un mese in "trovarobe", musei del costume, sartorie specializzate e simili...
(Corrado Cartia)
La realizzazione di questa struttura era soggetta alle autorizzazione di legge: municipale e prefettizia. Il podestà consentiva la chiusura parziale di un largo o di una piazza, purché venisse assicurato il libero transito ai veicoli, che allora erano a trazione animale per la mag­gior parte. In origine il festival si faceva "o spiazzu" ovvero in piazza Archimede ma, con la realizzazione della via del Littorio (corso Matteotti), il traffico, che prima si svolgeva per la Mastrarua e via Maestranza, venne convo­gliato per quella arteria, e il Festival si trasferì nel piazzale della Posta, ovvero "o fossu ". Ci pensava, manco a dirlo, sempre l'ottimo don Severino Di Mauro rispettando sempre le mede­sime regole di prima.
Ogni casotto veniva "affittato" ad un casottiere, generalmente un proprietario di esercizio com­merciale. Ce ne erano di quelli dove si "tiravu- nu" articoli mangerecci (ed erano i più) e quelli dove la merce messa in palio era prevalente­mente costituita da articoli casalinghi, come pentole, piatti, tritacarne e affini. Il casottiere, stando all'interno e sempre in piedi, agitava un sacchetto con numerini da uno a novanta, facendo tintinnare i "giannetti" per attirare i clienti. Il gioco era detto "sutta novanta", e si regolava così: il giocatore estrae­va dal sacchetto tre numeri, se la somma non superava il novanta, aveva vinto e si portava via l'oggetto "tiratu", dopo aver pagato la posta che generalmente era l'equivalente di un quinto del valore commerciale. Ma la cosa ovviamente era di grande difficoltà, se si considera che ben due terzi dei numeri superano il trenta.
Era un modo semplice e suggestivo di tentare la fortuna, spendendo poco e cercando di guadagnare un salammo, una mortadella, una bottiglia di acqua di colonia "Felce azzurra" o un profumo "Etnisca"per uomo, "Capriccio"per signora, o una boccettina di olio "Venus", la brillantina di lusso... Tra i commestibili più in voga c 'era il "Cinzanino", una bottiglietta di Vermouth dal contenuto di 100 grammi più o meno...
(Salvatore Maiorca)
Molto frequentati ed interessanti erano poi i casotti che organizzavano un gioco a sorteggio, detto "carìu" (cascò), che consisteva nell'estra­zione di un numero facendo cadere il bussolotto che lo conteneva. Generalmente si metteva in palio un oggetto che faceva comodo alle donne di famiglia: un tritacarne, una pentola di rame smaltata, un servizio di piatti, eccetera. Il casottiere vendeva un certo numero di biglietti numerati sino a coprire almeno il doppio del valore della posta. Ad ogni numero corrispon­deva un fogliettino numerato che andava messo dentro un bussolotto a forma di pallina. Quando restavano pochi bigliettini invenduti il casottiere gridava: "Chistu l'uttimu è. Se nuddu u voli mu tegnu ju ca chistu nesci di sicuru". A vendita completata le palline venivano messe in un bacile che veniva con arte agitato come si fa col setaccio per separare la farina dalla crusca.
— Carìu!... Carìu! — gridava per far più trepi- tante l'attesa, mentre le palline roteavano sotto la spinta centrifuga finché, finalmente, una sola uscita fuori dal bacile, cadeva per terra: Carìuuu!" .
Il "carìu" era un gioco d'azzardo di marca catanese, perché faceva perdere fior di quattrini, soprattutto a quelli non bacia ti dalla fortuna. Non poche volte, per la ribellione di madri e mogli, ne veniva disposta la chiusura...
(Baldassare Salinàro)
C'erano ancora i casottoni dove si approntava un vero e proprio casinò con roulette e tanto di tappeto verde, fìches e croupier con paletta. Ma il casettone che più di tutti attirava l'attenzione era, senza dubbio, quello dei colori. Occupava ben quattro e anche cinque box. A vederlo di fuori era uno spettacolo, con le sue lampadine colorate che si accendevano e si spegnevano a seconda del colore vincente. Interessante era il tavolo dove si svolgeva il gioco, costituito da una lastra di marmo spessa, bordata ai quattro lati con sponde gommate per respingere la palla. Nel marmo erano stati praticate numerosissime buche, vere e proprie calotte sferiche, profonde appena un centime­tro o poco più, perfettamente tangenti l'una all'altra. Ad ogni fossetta corrispondeva un valore, sicché, se le fossette erano cento e i colori dieci, per ciascun colore dieci possibilità di vincita.
Il giocatore poteva accedere al locale ma doveva stare a debita distanza dal tavolo per non turbare minimamente il perfetto equilibrio. Bisognava accedere alla cassa e comprare un biglietto o più del colore desiderato. Chiaro che il gestore non dava inizio al gioco se la vendita dei biglietti non era equilibrata. Quando tutto era pronto, si «lava il via trionfalmente. Ricordo ancora la voce modulata ed elegante del gestore degli anni Trenta e Quaranta, il raf­finato cavaliere Oreste Risi, quando invitava la signorina assistente a liberare la pallina d'avo­rio. "Signorina, fuori la palla !". La pallina entrava nel tavolo passando e ripas­sando sulle buchette senza fermarsi, per decine di volte, su e giù, avanti e indietro, battendo sulle sponde e ritornando in gioco. Alla fine, dopo che si era "annacata" sulle ultime fossette dando l'illusione della vittoria a più di uno, si fermava vibrando con tremore quasi umano. Allora si udiva un urlo di gioia:" Accaiò !" in tal caso era una palla "signurina". Se però, dopo aver dato l'illusione di "accaiari" nella fossetta desiderata, ne usciva per premiare un altro colore, quella pallina veniva dichiaratamente bollata come "sdisonesta".
Ma la gente non andava al festival solo per gio­care o, come si costumava dire, "pi tirari sutta novanta", ma anche per passare una serata in gioia spensierata e semplice gaiezza, tanto non c'era niente, o quasi, da temere. Non c'erano borseggiatori né gente maleducata. Quelli che si comportavano scorrettamente venivano allontanati dal personale di servizio. Tutto questo sino al 1957. Dopo arrivarono i "guastatori" con le docce di borotalco, acqua colorata, schiuma da barba e persino depilatore spruz­zato sulle pellicce. Così morì il Carnevale sira­cusano, sepolto sotto una valanga di volgarità. Perché poi racconto queste cose? Perché suscito rimpianti nei cuori della gente per bene di un certa età? Forse ho ancora la speranza d'incontrare, in una sera di febbraio, per le vie d'Ortigia, un novello dottore Carmelo Gallitto con tuba e frac, termometro e siloca, mentre corre, corre... fendendo l'aria col nasone finto: "Largu ca passa a scienza!"    
  
(*) — Anche in questa maschera si possono individuare i riferimenti storici che conducono ai riti dell'antica Grecia, quando l'atto di girare attorno aveva un significato scaramantico. Ricordiamo Achille che cavalca i mirmidoni, tre volte attorno a Patroclo. Nel culto Attis, a Ceo, a Sparta e a Delo, si girava attorno all'oggetto per salvarlo dagli spiriti e metterlo sotto la protezione degli dei.

locandina 1955























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