Greci - Storia

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
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Greci

Greci
Fondazione di Siracusa-dove sbarcarono i coloni greci
Sul culto religioso praticato nei tempi antichi in Siracusa, non esiste documentazione ma è certo però che i primi greci che si insediarono nel nostro territorio portarono dèi e cerimonie religiose dalla madre patria, Corinto.
Essi adorarono il Sole, la Luna, il Cielo e le stelle che, dallo studio del loro movimento periodico, chiamarono «Thei», dal verbo «thein» che vuol dire correre; tale attività o movimento fu il primo attributo della divinità, e da «thein» derivò la voce greca «Theos», che vuol dire Dio.
Le divinità adorate dai primi siracusani furono Celesti, Terrestri e Infernali.
Le principali erano: Giove, governatore del cielo e regolatore delle stagioni; Apollo, sovrintendente alla bellezza del genere umano e ritenuto l'inventore delle scienze e delle arti; Vulcano, domatore di tutto e insigne artefice; Athena, dea della sapienza, guardiana delle città e portatrice della lancia d'oro; Cerere, dea delle messi e nutrice dei popoli; Giunone, detta «Telia» perché presiedeva ai matrimoni; Marte, dio della guerra; Mercurio, il dio astuto, negoziatore, ingannato¬re e condottiero; Artemide, dea della caccia e protettrice delle partorienti; Venere, dea della bellezza per antonomàsia; Vesta, dea protettrice della città e per questo fu detta «Patroa»; Nettuno, dio del mare.
Oltre alle dodici divinità maggiori, i siracusani adoravano altre divinità secondarie, entità tra gli dèi e gli uomini. Adoravano anche i semi-dèi — individui nati da un Nume e da un mortale — e gli eroi, uomini che acquistarono fama di benefattori dell'umanità.
Nel corso della giornata gli antichi siracusani pregavano a tutte le ore e le preghiere venivano indirizzate alle divinità, ad ogni necessità specie all'alba e al tramonto. Colui che impetrava l'intervento degli dèi diceva le orazioni all'impiedi e, dopo avere congiunto le mani e baciato il dorso della mano destra, stendeva le mani al cielo; tale implorazione poteva avvenire anche in ginocchio o in prostrazione, secondo il fervore della preghiera.
Le persone che partecipavano alle pubbliche cerimonie si adornavano di corone e di collane di fiori e reggevano ramoscelli d'ulivo e di alloro. Il ministro del rito iniziava la cerimonia chiedendo ad alta voce «tis tede», chi è qui? i presenti rispondevano in coro «polli cagathi», cioè molti e buoni, allora il sacerdote diceva: preghiamo. Dopo le libagioni venivano recitate le preghiere che la circostanza richiedeva. Simile cerimonia veniva praticata nelle imprecazioni, durante le quali s'implorava ad alta voce lo sdegno dei Numi contro il colpevole di qualche misfatto; gli dèi venivano imprecati anche per ottenere la rovina dei colpevoli.
Nella Pentapoli, le imprecazioni dei genitori, dei sacerdoti e dei re venivano considerate le più efficaci e le più potenti.
Le libagioni consistevano in particolari cerimonie dette «spondae»; con esse veniva dato inizio a tutti i sacrifici praticati all'inizio della giornata, all'arrivo di un forestiero e nelle ore di riposo. Il sacerdote dopo avere gustato del liquore contenuto in un recipiente ne versava un pò a terra e anche sul fuoco sacro o sull'altare.
Il liquore adoperato era di buon vino e la coppa, che lo conteneva, doveva essere colma fino all'orlo: perché il non riempirla veniva considerato un affronto agli dèi.
Le libagioni venivano iniziate dagli uomini più distinti per essere continuate poi, via via, da tutte le altre persone e non avevano altro scopo che quello di conciliare una scambievole benevolenza.
Con la decadenza dei costumi vennero in seguito i giuramenti; fino a quando i costumi si mantennero puri non fu avvertita la necessità di pronunziare giuramenti.
Ai giuramenti più solenni venivano unite libagioni: venivano sacrificati caproni, agnelli e cinghiali che, dopo essere stati scannati, venivano distribuiti a tutti i presenti. I siracusani usavano anche prestare giuramento in diversi modi: tuffando in mare alcuni ferri roventi; giurare dopo avere ridotto a pezzi un bue o tenendo una fiaccola in mano, oppure avvolgendosi nel mantello di porpora di Cerere; congiungendo le mani, ecc.
Un esempio in versi di giuramento è quello fra Menelao e Paride, in un passo della morte di Ettore:
«Meschiaro il vino, e limpid'acqua e pura Alle mani apprestar. Ciò fatto, A (ride Trasse il coltello eh'e'portava appeso Al poderoso brando, e dalla fronte La crescente lanugine recise De' sacri agnelli: e questa poi fra i Duci Distribuissi da' Ministri. Allora, Stese al Cielo le braccia, il Re de' Greci Fra l'augusto silenzio alza la voce...»
Tav. X - Vittorio Lucca, Siracusa xreca - Vita pubblica e privala — «l'Eco di Sicilia» editore
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