troppa razia sant'antoniu - parole siracusane

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
Parole siracusane
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troppa razia sant'antoniu

Tuccitto perchè si dice
Troppa 'razzia San 'Antoniu!
Tratto dal testo di Carmelo Tuccitto "palori a tinchitè" Editore Morrone-Vignette di Francesco Rodante

Il rapporto dei siciliani con i santi, per la semplicità e ingenuità della loro fede, è stato sempre particolare. Nel momento del bisogno, più che a Dio, sono ancora tanti quelli che si rivolgono ai santi forse perché pensano che, essendo stati anch'essi mortali, possano capirli meglio. Tra la gente meno evoluta manca il concetto dell'intercessione, del santo come mediatore tra il devoto e il Signore. Il santo è visto come uno del popolo, dotato però di poteri taumaturgici che esercita a sua discrezione.
Tra i credenti sono molti ad avere un santo protettore con cui stabiliscono un rapporto personale di venerazione e di culto in cambio di un aiuto: Si nun fussi ppi lu nostru 'ntentu nun si dicissi 'n patrinostru a 'n Santu. Come se fosse il toccasana di ogni male, al santo protettore, oltre a favori speciali nei momenti di maggiore difficoltà o di calamità naturali, si chiedevano e si chiedono ancora persino le cose più futili.
Sino alla prima metà del secolo scorso in Sicilia la richiesta di una grazia al santo patrono era collettiva quando, in situazioni eccezionali, gli abitanti di un paese venivano minacciati dalla lava o da carestie, dal flagello della siccità o dalle inondazioni, dai terremoti o da epidemie. Tanti ritenevano il santo, scelto come patrono della loro comunità, come l'unico dispensatore di grazie, come l'unica entità spirituale in grado di operare miracoli a favore della collettività. Se nella convinzione popolare il santo si rifiutava di accogliere le richieste dei fedeli, si arrivava al punto di castigarlo o di destituirlo da patrono, scegliendone un altro.
È storia che a Limena, in provincia di Messina, quando, nonostante le preghiere collettive, un periodo di siccità si prolungava, i liminesi giravano la statua di San Filippo d'Agirà con la faccia rivolta contro il muro così come fino a qualche decennio fa i maestri punivano gli alunni negligenti.
Corrisponde al vero anche l'episodio accaduto a Caltanissetta quando i contadini, esasperati per la prolungata siccità, prima sostituirono al simulacro di San Michele le ali d'oro con quelle di cartone e poi lo immersero in una vasca piena d'acqua.
Nel blasone popolare la stessa cittadina di Feria è detta Paisi di Giuda, jittau Cristu 'nt ' 'a 'bbiviratura per avere i suoi abitanti, durante una processione, buttato il simulacro di Cristo in un abbeveratoio e ve lo lasciarono sino a quando non arrivò la pioggia.
Nel 1893 i palermitani, dopo sei mesi di siccità, si caricarono la statua di San Giuseppe e la depositarono in un campo privo di vegetazione allo scopo di mostrare al santo il danno provocato dal suo mancato intervento e indurlo ad operarsi per fare cessare il flagello.
Nel contesto dell'acqua si fa risalire in Sicilia una delle versioni sull'origine del detto dialettale Troppa 'razzia Sant'Antoniu. Per iscritto si tramanda un aneddoto secondo il quale in un centro siciliano, ma non si specifica quale, la siccità si protrasse più del solito e, per implorare la pioggia, si indisse una novena a Sant'Antonio Abate. Non sortendo la novena alcun effetto, i contadini per punizione rinchiusero, come avevano fatto altre volte, il simulacro del Santo nello sgabuzzino della stessa chiesa. Sempre secondo il racconto, avvenne che al secondo giorno di prigionia si scatenò un temporale con lampi e tuoni così forti e frequenti da indurre subito i devoti a rimettere il santo sull'altare maggiore. Seguì l'offerta e l'accensione di ceri di ringraziamento per la concessione della pioggia. Nonostante tutto il temporale non cessò, anzi si trasformò in diluvio. A questo punto i devoti dovettero pregare Sant'Antonio affinché facesse cessare la pioggia che, oltre ad avere inondato i campi, minacciava di allagare le loro abitazioni.
A differenza degli episodi prima riportati che sono storicamente accertati, la mancata indicazione del luogo e del tempo in cui sarebbe scoppiato lo sdilluviu ci induce a pensare che il detto sia nato tra il popolo siciliano appositamente per trasmettere questo monito: "Non bisogna dare più di quanto ci viene richiesto altrimenti il favore si può trasformare in danno".
Ad avallare l'ipotesi dell'intenzionale messaggio proverbiale è l'esistenza dello stesso detto non solo nei vari dialetti, ma anche in lingua italiana. Ogni versione presenta un'origine diversa, solo il significato e il destinatario sono gli stessi.
L'identica scelta di Sant'Antonio Abate si giustificherebbe con la convin-zione popolare che questo Santo, oltre ad essere invocato espressamente per guarire dall'Erpes Zoster, volgarmente inteso come Fuoco di Sant'Antonio, esaudisca più degli altri santi le preghiere dei devoti. Infatti in Sicilia un tempo si diceva Cu'pigghia Sant'Antoniu ppi avvucatu, di certu è sarbatu che vuol dire "Chi sceglie Sant'Antonio per avvocato celeste sicuramente si salverà".
All'origine dello stesso detto in lingua italiana, come risulta dal testo per la scuola Parole intorno a noi, ci sarebbe l'episodio capitato ad un uomo che, non riuscendo a montare a cavallo, a causa della sua bassa statura, invocò Sant'Antonio perché gli concedesse la grazia di montare in sella. Dopo avere supplicato il Santo, ci riprovò e, questa seconda volta, non solo riuscì a farcela, ma addirittura per lo slancio finì per terra dall'altra parte del cavallo. In quell'occasione l'uomo avrebbe pronunciato la frase, diventata proverbiale, Troppa grazia Sant'Antonio!
Solo perchè Sant'Antonio Abate è protettore dei maiali, per Salvatore Camilleri la versione siciliana più verosimile sarebbe quella riconducibile ad una contadina che, per pagare un debito, abbia pregato Santo Antonio affinchè la propria scrofa, che era gravida, mettesse al modo dieci maialini. Ne nacquero venti. Si racconta che la donna, non potendo badare da sola a tutti e venti, si sia rivolta al Santo esclamando il solito: Troppa 'razzia Sant'Antoniu!
A Siracusa, quando la pioggia si protraeva per diversi giorni, l'androne del mio condominio era sempre infangato nonostante che il mio portinaio lo pulisse in continuazione. Il poverino non faceva che ripetere: Veru è ca ha' chioviri, ma no 'a sdilluviari'
E questo un adagio che in Sicilia qualcuno ancora usa in senso figurato ogni volta che ci colpisce una calamità naturale, una disgrazia qualsiasi o un sopruso.
(1) In dialetto la S, premessa ad un verbo o al sostantivo che da esso deriva, non sempre ha valore privativo, in sdilluviari (piovere in maniera torrenziale, e sdilluviu pioggia strabocchevole) ha funzione rafforzativa come in sdisiccari (dimagrire molto), sdirramari (sfoltire in modo deciso), sdirrubbari (precipitare violentemente), sditi muri (lavare più volte), sdisanurari (disonorare con violenza) e così via.


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