amicu cirasa
Tuccitto perchè si dice
L'amicu girasa
Tratto dal testo di Carmelo Tuccitto "palori a tinchitè" Editore Morrone-Vignette di Francesco Rodante
Vi siete mai chiesto di che tipo sono i vostri amici? I nostri padri, che erano diffidenti per natura (Amici e vardati!), facevano una distinzione netta perché la parola "amico" allora veniva usata spesso e in modo improprio.
Erano chiamati Amici di salutu o di cappeddu le persone che si conoscevano in modo superficiale e con cui ci si limitava ad uno scambio di saluto. Costoro, rispetto agli amici intimi, erano più numerosi: L'amici di salutu cci nn 'è tanti, ma chiddi di lu cori picca e nenti. Le persone con cui si era in confidenza si salutavano con una stretta di mano: Sfritta di manu è signu d'amicizzia.
Si denominava Amicu di bbuttigghia o di cannata (anfora di terracotta, dall'arabo QENNÌNAT per influenza del turco = QANNAT) chi nelle osterie riusciva a scroccare qualche bicchiere di vino e Amicu di bbon tempu quello che approfittava del periodo di prosperità finanziaria del suo benefattore. Da entrambi bisognava stare alla larga, Amicu di bbon tempu e di putia nun è bbona cumpagnia, un detto che equivale all'altro che recita: L'amicu di lu to'vinu nun l'aviri ppi vicinu. Questo tipo di amicizia, essendo falsa e interessata (có'ntentu), era a termine: Cu' havi pani e vinu campa filici e cu'cadi 'npuvirtà perdi l'amici.
Per i nostri padri l'amico doveva essere sincero Unni cc'è rradicata la malizzia allignari (attecchire) nun cci pò mai l'amicizzia, e fattivo:
L'amicu vern nun dissi ma fici. Si riteneva durevole solo l'amicizia vera: L'amicu nun servi ppi 'na vota sula.
Nella ricerca di un amico bisognava rifuggire dalle persone che amavano troppo gli animali perché di solito non mostrano altrettanto amore per il prossimo, anzi non lo sopportano affatto: Cu' è amicu dijatti e cani è nimicu di li cristiani.
Una volta contratta, l'amicizia non doveva essere troppo intima altrimenti sarebbe finita presto: Amicizzia stritta dura picca.
Considerata la caducità dell'amicizia si raccomandava di Nun diri tantu bbeni di l'amicu pirchì quannu nni voi diri mali nun si ' cridutu e di non rivelargli ogni cosa: Nun diri a lu to' amicu quantu sai pirchì forsi gnornu nimicu l'avrai. Anche se dopo una lite ci si riappacificava, non ci si sentiva più amici come prima: Amicizzia ricunciliata è minestra quariata (riscaldata).
Connotazione negativa aveva la locuzione L'amicu girasa (L'amico ciliegia, dal latino CERASUS, a sua volta dal greco KERASOS = ciliegio). Ancora oggi, quando qualcuno vuole alludere o indicare, senza nominarla esplicitamente, una persona moralmente ripugnante e ben conosciuta per la sua spregevolezza, con ironia continua a chiamarla L'amicu girasa. Scherzando si usa, sempre evitandone il nome, anche nei confronti di chi è noto per non valere nulla.
La locuzione trae origine da "Amico Ciliegia" che è la denominazione in lingua di un insetto parassita che, attaccandosi furtivamente alla polpa di questo frutto, lo guasta. Nell'immaginario popolare il comportamento dell'amico vile e traditore richiama quello di questo verme.
Il baco della frutta dai siciliani è stato addirittura paragonato all'odio del cuore umano. Commentando il detto L'odiu 'ntó cori di l'omu è comu lu vermi 'ntó fruttu, Santi Correnti così scrive: "L'esasperazione, che nasce dalle amicizie tradite, genera l'odio che qui viene identificato, con efficace immagine, col verme che sta dentro un frutto ed esprime bene il rodio in-terno dell'uomo che odia il suo simile, dopo averlo amato come amico".
Per i nostri padri, quando si aveva bisogno di un consiglio, era preferibile rivolgersi ad un amico anziano perché ritenuto più obiettivo e capace di dire la verità senza infingimenti: Nun cc'è megghiu specchiu di 'n amicu vecchiu.
A Francofonte per indicare gente infida si diceva: Cumpari di Lintini e amici di Catania.
Nel gergo della mala, se erano chiamati Amici i componenti della "famiglia", si denominavano Amici di l'amici tutte le persone ad essa collegate: avvocati, semplici agenti di polizia o uomini politici influenti su cui contare per ottenere un favore. Poteva essere Amicu di l'amici anche un medico che, senza sporgere denunzia, si prestava a curare un ferito appartenente ad un'organizzazione criminale.
Nonostante le diffidenze, i siciliani preferivano gli amici ai parenti: Megghiu 'n amicu ca cientu parenti perché più affidabili, specie quando si concludeva un affare, Ccu l'amici pattu (basta la parola, un accordo verbale), ccu li parenti cuntrattu (l'accordo deve essere scritto). A conferma di questa loro convinzione dicevano: Li parenti mi li desi Ddiu, l'amici mi li scegghiu ju.
Invece chi non si fidava né degli uni, né degli altri, era solito affermare: Li veri amici e li veri parenti su'li quattru tari ccu l'ali janchi cioè i soldi che permettono di superare le difficoltà quotidiane. (Nel periodo borbonico i tari avevano impressa sul recto un'aquila con le ali spiegate. Sul pezzo da quattro tari le ali sembravano bianche perché era coniato in argento).
Don Ferdinando, per dimostrare che l'amicizia si manteneva solo se al dare dell'uno corrispondeva l'avere dell'altro, usava questo modo dire rimato: Quannu cc 'è lu pigghia e te ' (prende e dai) / 'amicizzia allura cc 'è. Quannu cc 'è lu pigghia sulu l'amicizzia va a jfa ' 'n culu che a me un giorno così commentò: Prifissuri, 'i manu hannu 'a essiri rà stissa lunghizza, mai una cchiù longa (per prendere) e l'autra cchiù curta (per dare).