aviri u sciassi - parole siracusane

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
Parole siracusane
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aviri u sciassi

Tuccitto perchè si dice
Aviri 'u sciassi e 'a canna amiricana
Tratto dal testo di Carmelo Tuccitto "palori a tinchitè" Editore Morrone-Vignette di Francesco Rodante


Nel passato i siciliani, al fine di rendere più facilmente accessibili deter-minati concetti astratti inerenti al comportamento umano, si servivano di modi di dire dialettali intessuti di immagini concrete a cui tradizionamente attribuivano significati simbolici. Il carciofo, ad esempio, era simbolo della vanità e della boria (Sintirisi cacocciula), la palla quello della fandonia {Nun mi ciintaripalli!). Per indicare l'indolenza ricorrevano alla voce sciassi.
Vediamo perché l'espressione Aviri 'u sciassi letteralmente ha il significa-to di "possedere un abito maschile da cerimonia" e in senso figurato quello di "Avere noia".
Sciassi è un francesismo e deriva da HABIT DE CHASSE (Abito da caccia). Anticamente era denominata sciassi la giacca a coda di rondine che, durante una battuta di caccia, indossavano gli accompagnatori del signore. Nel passaggio dal francese al nostro dialetto, dell'espressione originaria habit de chasse è rimasta solo la voce chasse che nel siciliano ha mantenuo il suono mentre nella grafia è diventata sciassi.
Per i nostri padri sciassi era la forma scherzosa e quasi ironica di frac, un indumento che una volta solo i ricchi potevano permettersi il lusso di vestire. Poiché lo sciassi indicava la posizione sociale di chi lo portava, negli anni Cinquanta a Siracusa, durante il carnevale, veniva indossato per sfottò da Carmelo Gallitto che impersonava la maschera siracusana: 'u dutturi.
Col tempo però la voce sciassi ha subito un peggioramento semantico passando dal significato originario di "lussuoso capo di abbigliamento" a quello metaforico di "indolenza", "voglia di non far niente". Il cambiamento semantico del termine fu causato dal comportamento abulico dei benestanti che quell'abito indossavano.
I ricchi, vivendo di solito di rendita, difficimente si vedevano lavorare. Nelle ore in cui le classi subalterne erano impegnate nei lavori dei campi o nelle botteghe artigiane, essi oziavano nei circoli a loro riservati o si incon-travano per le vie principali, pomposamente vestiti come se andassero ad una cerimonia e accompagnandosi ad un bastone da passeggio fatto con canna di bambù da cui il detto popolare Aviri 'u sciassi e 'a canna amiricana.
Sciassi e canna amiricana diventarono così il segno distintivo di chi, rifuggendo da qualsiasi attività lavorativa, vivacchiava nell'indolenza.
Se i ricchi potevano permetterselo, purtroppo c'era anche qualcuno che, non avendo risorse adeguate, cercava di imitarli ostentando un'eleganza affettata e un benessere di facciata. Quando si recava al teatro, così come i ricchi, aggiungeva allo sciassi e alla canna amiricana il cilindro, un cappello alto di feltro, in dialetto detto tumminu (dal latino TUMULUS = tumulo, dal nome del recipiente di legno a forma cilindrica che serviva come unità di misura per granaglie). Tale comportamento nasceva dalla presunzione di avere capito il senso della vita e di non condividere l'utilità del lavoro. Il detto caro al poltrone era Si 'u travagghiu facissi beni lu urdinassi 'u dutturi. E continuava a non fare nulla, a spassarisilla.
Da spassiari, andare su e giù per il corso, deriva la voce spassu che in Sicilia indica ancora il tempo in cui, per necessità o per scelta, si è senza lavoro. Sciassi divenne sinonimo di fracchizza (fiacchezza), di quella indolenza che in tante zone della Sicilia continua a chiamarsi lagnusia.
All'indolente che, sollecitato ad impegnarsi anche nella più piccola delle incombenze, rispondeva sempre Mi siddia, si rimproverava di aviri 'u sciassi. Di chi invece fingeva di lavorare, mentre era indifferente a tutto e a tutti, si diceva che Ammuttava 'u fumu cà sdanga (dal gotico STANGA= barra di ferro).
A torto l'indolenza esistenziale si attribuì, come connaturata, al carattere del siracusano, lo si accusò di mancare di iniziative e di subire l'intraprendenza soprattutto dei catanesi, affidandogli l'epiteto di sciruccatu (dall'arabo SHULUQ = scirocco, vento caldo di mezzogiorno che, provenendo dal Sahara, specie nel mese di settembre si abbatte sulle nostre coste e, secondo alcuni, influenzerebbe negativamente il carattere dei siracusani rendendoli pigri).
Don Ferdinando dell'amministratore del mio condominio, che lo accusava di non svolgere a dovere le incombenze del suo portierato, soleva dire: Chissu havi 'u sciassi cchiù ìongn di chiddu min! (Quello è più fiacco di me!).


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