Parri spagnolu
Un interessante articolo del nostro amico Aldo Formosa su libertà Sicilia gestito dal direttore Giuseppe Bianca.
Qui la pagina ufficiale: http://www.libertasicilia.it/siracusa-ce-lo-spiega-salvatore-zesaro-che-ogni-giorno-il-nostro-dialetto-discende-pari-pari-dallo-spagnolo/?fbclid=IwAR2uJ2APgdMiEyuchWSyPcHytcEmiyO0tPHpDyRx5IyIdS_9TOipXpQEihw
Pubblicato da Emanuele Romeo nel 2005, questo “Parri spagnolu?” di Salvatore Zesaro, rileggendolo, diventa sempre una occasione strana e coinvolgente nell’apprendimento di parole, espressioni, motti della nostra quotidianità che trovano riscontro con lo spagnolo.Ci sono attinenze mai immaginate, somiglianze sorprendenti, derivazioni che non ti sarebbero mai venute in mente. Il sottotitolo, per la precisione, di questo aureo libretto recita: “Sull’origine spagnola di voci dialettali siciliane”. Più esplicito di così.
Proviamo a sfogliarlo questo libretto che finisce anche per essere molto divertente. In bell’ordine alfabetico sfilano le parole a cominciare da “abollado”. Chi non è stato mai “abbuddàtu” sott’acqua? Dal primiero significato di “ammaccato”, il termine collaterale è “abollar” ancora più esplicativo.
E che dire di “aburujado”? C’è bisogno di dire che la derivazione siciliana è “mburugghiàtu”? E ancora: “acabar”, che significa finire. Come “accabbàri” appunto.
Chi, da bambino, nel periodo carnevalesco non ha mai giocato coi grandi agli indovinelli? Si, proprio alla “nivinàgghia”. Che deriva pari pari dallo spagnolo “adivinaja”.
Non c’è da vergognarsi a non sapere queste cose. Non occorre “affruntarisi” che in spagnolo significa “afrentarse”. Così come “afrentoso” vale il nostro “affruntùsu”. Per non dire di “alanzar” che significa graffiare nel nostro “allanzàri”.
Cadendo in un sonno profondo usiamo dire “alluppiàtu”. Proprio così: in spagnolo è “alopiado”. Se ci fanno saltare la mosca al naso spesso finiamo col minacciare reazioni. E cioè “amminazzàri”. Avete indovinato: in spagnolo si dice “amenazar”.
Dovete affilare il taglio di un coltello? Lo portate ad “ammulàri”. Appunto: “amolar”. E se vi viene voglia di acciuga? Di una bella “anciòva”? Eccolo lì: si dice “anchòva”. E se vi volete appoggiare a qualcosa, non fate altro che “appujàri”. Come dire “apojar”.
E per dire albero, usate l’arcaico “arbulu”? Infatti lo spagnolo è “arbol”.
Se poi in certe situazioni cercate di “arripizzàri” la questione non fate altro che usare un “arrapiezo”. Se poi vi volete “assittàri”, non fate altro che “asentar”. E se vi capita di avere un lavoro “attrassàtu”, avete usato il verbo “atrasàr”.
Il cocchiere, si sa, usa la “zotta”. Che si chiama “azote”. E se poi non potete stare fermi, vuol dire che avete u “surfuru”. E cioè “azufre”. In siciliano, si sa, il palato si chiama “balatàru”. E in spagnolo? Ma è chiaro: si chiama “baladar”.
Tra i tanti, ne conoscete certamente un “babbàzzu”. Che poi sarebbe “bobazo”. E se vi va di scherzare, ”babbiàri”, vuol dire che volete “bobear”. Vi capiterà qualche volta di voler dare a qualcuno che se lo merita un “buffazzuni”, ma finireste col dargli un “bofeton”. Il vostro braccio,”frazzu”, si chiama “brazo”. Vostra nonna la forchetta la chiamava “bruccetta”? Per forza, veniva da “brocheta”. Quando con gli amici vi va di fare “caciàra”, non fate altro che “chachara”.
Quando a Siracusa piove a dirotto e siccome gli scolatoi sono intasati, ogni strada si trasforma in “canaluni”. Insomma: “canelon”. E il comò di casa che chiamate “cantarànu”? Altro non è che lo spagnolo “cantarano”. Se il tabaccaio sta a pizzo di “cantunèra” è perché si tratta di una “cantonera”. Se dal macellaio chiedete il “capuliàtu”, volete il “capolado”.
Una sghignazzata è “scarcaniàta”? Come dire “carcajada”. La macelleria, a proposito, che si chiama anche “carnizzèria”, vuol dire “carniceria”.
Vi viene voglia di “cirasa”? Avrete voglia di “cereza”. Quel cesto di canne intrecciate che chiamate “cufinu” altro non è che un “cofin”. Quello che ci vorrebbe per qualcuno, e cioè la “frusta”, nel senso di “curbàsciu”, si dice “corbacho”. E la sarta? Si, proprio lei, la “’custurèra”. Ovvero “costurèra”.
E che dire della serva? Non tanto in senso moderno, ma in quello gattepardesco di “criata”. Perché anche a Siracusa fino al secolo scorso la serva era chiamata appunto criata. E se “criata” era, appunto, dallo spagnolo “criada” proveniva.
A questo punto, tanto per fare smuovere l’appetito, le esemplificazioni fin qui addotte possono anche bastare. Ma il bello, il meglio, il sorprendente, e persino il divertente sta tutto lì, nel libro “Parri spagnolu?”.
Ed è d’obbligo fare i complimenti a Salvatore Zesaro, alla sua intraprendenza.
Perché non sarà stato facile fare le opportune ricerche, andare a scovare questo po’ po’ di roba: ci sarà voluta una pazienza notevole, ma soprattutto una passione da certosino.
E dunque complimenti a Zesaro come se piovesse, ed all’editore Romeo che ha avuto il fiuto di mettere in vetrina un libro sicuramente di notevole interesse.
di Aldo Formosa
09 Agosto 2019 | 06:48