palazzo Carcere Borbonico - palazzi di pregio

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
Palazzi di pregio
Vai ai contenuti

palazzo Carcere Borbonico

C

Il carcere borbonico, sito in Siracusa, attuale via Vittorio Veneto, già mastrarua, venne edificato dopo alterne vicende, con inizio lavori nel 1853, completati nel 1854, come risulta dalla data incisa nel prospetto sopra la chiave di volta del portale di ingresso sulla quale è scolpito a rilievo l’occhio che dal popolino gli valse il nome di: “a casa cu n’occhiu”.

Non ci è pervenuta alcuna spiegazione per l'interpretazione di questo simbolo e si suppone relativa alla presenza del tribunale all’interno dell’istituto, prima di essere trasferito altrove, e potrebbe simboleggiare l’occhio vigile della giustizia, ma potrebbe rappresentare anche l’occhio del detenuto che guarda la libertà o semplicemente essere invece la raffigurazione dell’occhio apotropaico, scaramantico, raffigurato nelle barche siracusane, nel buzzetto siracusano in particolare, utilizzato dai pescatori e marinai a protezione dalla loro incolumità.

 


per saperne di più clicca sull'immagine per il file pdf



cortile interno
 




testo di Mariarosa Malesani
All’inizio dell’800 l’insufficienza di locali per contenere un grande numero di detenuti rese necessaria la costruzione di un carcere a Siracusa. Il Governo Borbonico era orientato alla costruzione di Carceri Centrali in tutto il regno delle Due Sicilie poiché si diffondevano i movimenti rivoluzionari con aumento di persone che
erano portate a delinquere.
Dopo una estenuante diatriba per stabilire il luogo adatto si decise di costruire il carcere in via Gelone ( oggi via Vittorio Veneto), ma in attesa fu usata la Casa Cardona al n° 1 di piazza San Giuseppe.
L’ingegnere Alì ricevette l’incarico di progettare la costruzione nel 1827, ma passarono 26 anni prima che si desse inizio ai lavori perché ci furono eventi infausti che rallentarono l’esecuzione degli stessi. Nel 1837, oltre ai moti liberali che portarono alla perdita del titolo di Capoluogo di Provincia che passò a Noto, ci fu un’epidemia di peste e nel 1848 ancora i moti. Questi ultimi diedero la spinta finale all’esecuzione dei lavori per il grande numero di detenuti. Nel 1849 l’incarico di seguire i lavori passò all’ing. Luigi Spagna che redasse un nuovo progetto, partendo comunque da quello dell’Alì. La costruzione è rettangolare all’esterno e ottagonale all’interno per permettere di abbracciare simultaneamente la vista di tutto il complesso.
Particolare è l’occhio in rilievo scolpito nella chiave architettonica dell’arco d’ingresso che valse all’edificio la denominazione di “ a casa cu n’occhiu”.
Ma non ci è stata lasciata alcuna spiegazione per interpretare questo simbolo e quindi si possono fare tre supposizioni. La prima riguarda la presenza del tribunale all’interno dell’istituto, prima di essere trasferito altrove, per cui simboleggia l’occhio vigile della giustizia. La seconda rappresenta l’occhio del detenuto che guarda la libertà. La terza riporta alla raffigurazione dell’occhio apotropaico scaramantico che troviamo anche sul buzzetto siracusano, messo dai pescatori-marinai a protezione dalla loro incolumità.
Poteva ospitare 250 detenuti che fecero il loro ingresso nel 1856 ed era stato concepito con teorie avanzate per quel periodo. Dall’anno della inaugurazione alla chiusura del 1991 sono cambiate le teorie sulla redenzione e sulla rieducazione dei detenuti e per questo molte sono state le modifiche dei locali interni.
La prima fisionomia rispecchiava l’idea di un carcere rigido ed inflessibile che rieducava con il lavoro interno e la pratica del culto. C’erano due cappelle ( una per gli uomini e l’altra per le donne), locali adibiti per il lavoro dei detenuti, aule scolastiche, lavanderie, docce e bagni. Poi di volta in volta vennero adeguati gli spazi ai nuovi dettami della psicologia carceraria, anche se la struttura era poco modificabile.
Dopo la legge sulla riforma penitenziaria del 1975 venne destinato uno spazio per i detenuti in regime di semilibertà.
Sono stati detenuti,tra l’altro i terroristi palestinesi che dirottarono la nave da crociera Achille Lauro negli anni ’80, controllati a vista da dieci agenti ciascuno.
I detenuti lavoravano prevalentemente alla fabbricazione di cappelli di paglia.
Come in molte altre storie il destino appare uguale per l’inizio e per la fine,
infatti il carcere è sorto nella stessa area del Castello di Casanova, un carcere demolito dal terremoto del 1693, e viene chiuso nel 1991 dopo il terremoto del 13 dicembre del1990 che lo aveva reso inagibile.
Come si può valorizzarlo? Ricordando che è uno dei pochi edifici di epoca borbonica e che è una solida costruzione penso che sarebbe opportuno valorizzarlo come sede di Archivio di stato, pinacoteca, museo del mare, centro studi archimedeo…..Data la mancanza di strutture pubbliche non c’è che l’imbarazzo della scelta..
Io dissento dall’idea di farne un albergo a quattro stelle ( perderemmo la proprietà di un simile bene) o alloggio per studenti universitari poiché la sua struttura non è facilmente modificabile.
Meditate sul fatto che Siracusa è già stata “scippata” del Porto, del traghetto per Malta, delle poste, fra poco anche della ferrovia, del teatro greco…abbiamo lasciato piano piano che gli stranieri ricchi comprassero i negozi e le case più belle di Ortigia, non sarà nostro nemmeno il porto turistico… che tristezza per una città unica al mondo. Ci svendono in nome della modernità. Ma alla città e ai suoi cittadini che cosa viene in cambio?



Fu costruito, tra il 1782 e il 1798, dall'architetto siracusano Natale Bonaiuto, nel luogo in cui sorgevano le officine dei ceramisti  ai quali venne assegnato in cambio, per la costruzione delle nuove officine, un terreno a S. Orsola.
La necessità di costruire questo nuovo edificio carcerario si presentò in seguito al terremoto dell' 11 gennaio 1693 che distrusse completamente il vecchio castello arabo-normanno, parzialmente adibito a carcere.
Si tratta di  un edificio severo a pianta quadrata,   di grande mole, molto compatto e tuttavia elegante, perchè alleggerito dall' inserimento dell'ordine gigante ,posto su basamento bugnato, e dalle volute delle finestre che, con il loro chiaroscuro, disegnano e scandiscono il ritmo della facciata. Questa è  coronata da un cornicione con, al centro, lo stemma della città.
L' edificio rappresenta un raro esempio  di  tipologia carceraria settecentesca ed è stato testimone di importanti eventi storici come,ad esempio,  i tumulti contro i giacobini a seguito dei quali  furono rinchiusi in esso molti nobili calatini.
Rimase destinato a carcere fino al 1890; in seguito,nel 1899,fu adibito a monte di pietà, subendo gravi manomissioni;  infine è diventato sede del Museo Civico la cui fondazione ufficiale,  nel 1914, si fa risalire all' opera di don Luigi Sturzo.
In ogni città, o quasi, appartenuta al Regno delle due Sicilie, non manca , sopravvissuto ai tempi ed alle guerre, un edificio che dappertutto viene definito “carcere borbonico”. Nessun altro edificio, seppur costruito nello stesso periodo, ed adibito a fini istituzionali, gode di tale aggettivo. Non un museo, una villa, un teatro, un’accademia, un ospedale, una scuola; solo le carceri.
Triste eredità degli effetti della lettera di William Gladstone, dove il leader dei liberali inglesi, reduce nel 1851 di una supposta visita al carcere di Nisida, definisce il sistema carcerario ed in genere giudiziario del Regno, “la negazione di Dio eretta a sistema”, subito ripresa e diffusa da quanti tramavano ai danni del governo borbonico. Viene ignorato il fatto che nel 1852 lo stesso Gladstone si rimangiò molto di quanto aveva scritto e confessò di essere stato anch’egli raggirato. A supporto riportiamo quanto Domenico Razzano scrisse: “Gladstone tornato a Napoli nel 1888 1889 fu ossequiato e festeggiato dai maggiorenti del così detto Partito Liberale, i quali non mancarono di glorificarlo per le sue famose lettere con la negazione di Dio, che tanto aiutarono la nostra rivoluzione; ma a questo punto Gladstone versò una secchia d’acqua gelata addosso ai suoi glorificatori. Confessò che aveva scritto per incarico di Palmerston, con la buona occasione che egli tornava da Napoli; che egli non era stato in alcun carcere, in nessun ergastolo; che aveva dato per veduto da lui quello che gli avevano detto i nostri rivoluzionari”. Questa ritrattazione non ebbe, però, alcun effetto di recupero. La lettera e la frase in essa contenuta continua ad essere il leit motiv che descrive la giustizia borbonica fino ai giorni nostri.
In una trasmissione televisiva, infatti, curata dall’ineffabile Angela junior, incentrata (finalmente) sul Regno delle due Sicilie, sui suoi primati civili e culturali, sulla sua supremazia sui mari, arrivando al sistema giustizia il conduttore non riesce a superare i luoghi comuni che per un secolo e mezzo hanno contribuito a trasmettere l’idea di un regno e di un governo occhiuto, poliziesco e oppressivo, dove non aveva luogo il minimo rispetto delle libertà individuali e dove al sistema carcerario era quasi preferibile una condanna all’inferno. L’aggettivo più diffuso che affianca i nomi è “famigerato” (Maniscalco, Filangieri, Ruffo etc.) e Ferdinando II venne definito Re Bomba per aver consentito il bombardamento di alcune baracche a Messina, dove si erano rifugiati delinquenti comuni durante i moti de ’48, mentre Vittorio Emanuele II, dopo aver fatto bombardare fino alla distruzione Sestri Levante e parte di Genova, venne gratificato dell’epiteto di Re Galantuomo.
Ritornando alla trasmissione, il buon Angela si adagia bovinamente sulla più trita retorica risorgimentale, ignorando che sotto i Borbone fu compiuta la prima riforma carceraria che tenne conto dell’umanità del condannato, considerando che i luoghi di detenzione dovevano essere anche luoghi di redenzione, e che comunque si doveva passare dagli incivili e inumani luoghi dove i condannati soffrivano la reclusione nella più bieca ed inumana promiscuità, ammassati in locali senza servizi igienici e dove convivevano molte volte donne, bambini e uomini. Si rese evidente la necessità di assicurare locali adeguati per spazio e cubatura, igienici e dove i condannati separati per sesso e molte volte per tipologia di reato avessero anche assistenza sanitaria, religiosa, e un’attività lavorativa
I “famigerati Borboni” realizzarono un regime penitenziale fra i meno disumani d’Europa, e progettarono, prima d’ogni altro stato europeo, una riforma in tal campo che teneva conto delle esigenze elementari dei carcerati e della necessità di educarli, al fine di permettere loro di iniziare una nuova vita, una volta espiata la pena. Se tale riforma che Tessitore chiama utopia non diede luogo agli effetti desiderati, ciò fu dovuto essenzialmente all’ostruzionismo della burocrazia ed alle continue rivoluzioni che il Regno dovette subire dal 1820 al 1860 e all’arretratezza della mentalità locale.
Essi furono fra i sovrani europei che per primi avviarono una riforma carceraria e si distinsero fra tutti dando prova di maggiore sensibilità rispetto per esempio agli stessi governanti inglesi, i quali si limitavano ad approvare i progetti dei riformatori, guardandosi bene, tuttavia, dal metterli in atto, con la conseguenza che le loro carceri, malgrado una propaganda mirante a tesserne gli elogi, risultavano le più terribili e disumane di tutta l’Europa.
Nel 1817 Ferdinando I di Borbone emetteva un decreto sulle carceri assolutamente all’avanguardia per i tempi. Il provvedimento prevedeva, innanzi tutto, la costituzione di una speciale Commissione per ogni valle, che vigilasse sul regolare funzionamento delle carceri, sulla salubrità e sicurezza dei locali e sulla qualità del cibo somministrato ai prigionieri. Inoltre, conteneva norme relative alla concessione di appalti che provvedessero, all’interno delle carceri, alle più elementari necessità dei detenuti, come la pulizia, la rasatura, il lavaggio della biancheria sporca, il ricovero dei malati in apposite strutture sanitarie. Ogni prigione sarebbe stata, inoltre, fornita di un cappellano, di un medico e di un cerusico. Un successivo decreto del 1822 introduceva per la risoluzione dei procedimenti giacenti, l’istituto della tran-sazione, l’odierno patteggiamento, tra il pubblico ministero e il reo, nel contesto di un procedimento abbreviato.
Il regime borbonico si dimostrò all’avanguardia, nel settore, soprattutto per la progettazione e poi per la costruzione del primo carcere che si rifaceva ai criteri architettonici suggeriti dal Bentham: si trattava del carcere palermitano dell’Ucciardone inaugurato nel 1840.

Torna ai contenuti