Bialecka Anna - permanenzagalleriaroma

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
Arte e Artisti
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Bialecka Anna

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Bialecka Anna

Ritratti su commissione

Nata a Ostrowiec (Polonia) nel 1959.

Dopo il liceo classico ha frequentato l'accademia di belle arti della città di Varsavia e si è successivamente laureata in Filologia Russa nell'università della stessa città, senza mai tralasciare la sua passione per la pittura in generale e la ritrattistica in particolare.
Successivamente ha insegnato disegno nella scuola statale polacca.
Ha partecipato a mostre collettive esponendo i suoi lavori insieme al "Gruppo Dieci" di Ostrowiec in parecchie città della Swietokrzyski.
Da circa due anni si è trasferita in Sicilia. Vive nella campagna siracusana, dove ha avviato un'intensa attività di ritrattista.
Suoi lavori fanno parte di collezioni private di Siracusa, Roma e Città del Messico.
Anna Bialecka eseque ritratti su commissione.


Anna Bialecka, L’aura ricomparsa

Dinanzi ad un ritrattista che operi nel Terzo Millennio, vien da chiedersi prontamente quale coraggio lo spinga, quale segreta necessità lo induca a scegliere la via difficoltosa del ritratto pittorico, piuttosto che dedicarsi a generi meno irti di tranelli, e forse più facili da praticare.

Chi si misura nel 2007 con il ritratto, come la pittrice Anna Bialecka che espone delle sue opere in una mostra significativamente intitolata Ritratti siracusani, ha alle spalle millenni di tradizione (e questo vale praticamente per ogni soggetto d'arte). Ma a questo ogni ritrattista aggiunge anche il destro di critiche sempre pronte a scattare, magari non sempre benevole, anzi spesso dettate solo da motivi di verosimiglianza che poco hanno a che fare con lo spirito l'Arte – non fu pubblicato ad un secolo esatto da noi, nel 1907, un proclama degli Espressionisti tedeschi che affermava:"Il compito di ricercare una riproduzione esatta della realtà è oggi della fotografia. La pittura, sollevata da questa incombenza, potrà recuperare la sua originale libertà d'azione"?. La pittrice, che è stata insegnante d’arte in Polonia e vive da poco in Sicilia, esegue ritratti su commissione oltre che dipinti di vario soggetto: ma in tutto la sua personale impronta è netta, chiarissima; e proprio nel confronto/incontro con la fotografia trova una chiave di lettura efficace.


Walter Benjamin nella sua Petite Histoire de la Photographie si esprime in questi termini, riportando un giudizio dello storico dell'arte e della fotografia Camille Recht: "E perciò, quel che è realmente decisivo nella fotografia, è sempre la relazione del fotografo con la tecnica che utilizza. Camille Recht l'ha messo in chiaro con una bella metafora: «Il violinista, dice, deve intanto creare la nota, la deve cercare e trovare in un attimo, mentre il pianista batte con un tocco delle dita la nota che riecheggia. Il pittore come il fotografo hanno uno strumento a loro disposizione. L'uso del disegno e delle tinte corrisponde alla creazione del violinista, mentre il pianista condivide con il fotografo l'aspetto meccanico, sottoposto a delle rigide regole alle quali il violino sfugge. Alcun Paderewski raccoglierà mai la gloria né eserciterà la magia di un Paganini.»"

Ora, non si tratta certo di arrivare a giudizi così intransigenti come quelli di Recht, ma per cercare di illuminare le opere di Anna Bialecka il confronto con le affermazioni di Benjamin sarà fruttuoso.

Dice Benjamin che ci si rivolge al pittore per un ritratto come ad un fotografo che lavori ad una fototessera, o come ad una macchinetta a gettoni; oppure si cerca un prestigio che solo la pittura sa dare - un senso di nobiltà legato alla concezione antiquata che vuole l'opera del fotografo più semplice e quella del pittore più complicata, dimenticando che ambedue hanno ostacoli grandi e piccoli da superare.

Cercherò invece di mostrare come la pittura di Anna Bialecka sia, in senso preciso, neoromantica, in quanto mi riferisco a un’affermazione capitale per tutta la teoria del ritratto di epoca romantica, che viene dalle Lezioni di Estetica di Georg Friedrich Hegel: “Il ritratto dev’essere espressione della peculiarità spirituale, della particolarità del carattere. […] Con questa indifferenza verso l’unione che idealizza anima e corpo, il ritratto ha un ruolo essenziale per l’individualità più specifica del lato materiale, in quanto non cancella i tratti e le forme particolari, per sostituirli con linee più appropriate rispetto a quelle che effettivamente sono”.

Si inizi, ad esempio, a osservare il Ritratto di Wolfango Intelisano: i tratti sono decisi, il naso forte e le narici aperte pare vogliano indicare tensione, le labbra sono serrate così come il mento – negli occhi fissi si legge la ricerca di un pensiero che forse sfugge. Non c’è pace: il tronco volutamente non è centrato e segna, con la sua linea mediana, una diagonale con la perpendicolare del volto – è il gesto di Anna Bialecka per indicare un movimento, ma è la sua maniera di cogliere il moto spirituale di quest’uomo, considerando saggiamente la prossemica.

Ugualmente si potrà passare al Ritratto di Enrico Piazza senior: le spalle massicce, la tempra dello sguardo, ancora le labbra serrate, coperte dalla barba e dai baffi – tutto cospira a dimostrare la figura del patriarca, del capofamiglia di un tempo in cui i rapporti familiari erano differenti e le gerarchie, per quanto benevole, dovevano essere rispettate. Ma più dei tratti indicati, il volto quadrato e la radice del naso, larga e segnata da due rughe corrucciate, danno il carattere di quest’uomo, perfino più degli occhi profondi e incavati sotto le folte sopracciglia.

Sono tratti individuali, propri di quei singoli, e non tratti generali del malinconico o del patriarca: e sono tratti che la banale fotografia-ricordo o quella amatoriale non potrà mai rendere, anche se questa ha la libertà di cogliere momenti irripetibili. È dunque una questione di tempo, non solo di capacità tecniche, quella che separa la pittura dalla fotografia.

Ma ancora una volta le riflessioni di Benjamin ci conducono ad un confronto inevitabile con la fotografia per il ritratto pittorico. Riportando, sempre nella Petite Histoire de la Photographie, un giudizio dello storico dell’arte Alfred Lichtwark, dice: “«Non esiste nel nostro tempo alcuna opera d’arte che venga considerata altrettanto con attenzione quanto il proprio ritratto fotografico, quello dei parenti, degli amici o della persona amata», scriveva nel 1907 Alfred Lichtwark, conducendo in tal modo la ricerca dal dominio delle distinzioni estetiche a quello delle funzioni sociali; ed è proprio a partire da lì che se ne può seguire l’avanzamento. È significativo che il dibattito si sia più spesso appuntato attorno ad un’estetica della fotografia come arte, di contro al fatto che si è accordata minore attenzione al fatto sociale nettamente più consistente dell’arte come fotografia”. Allora anche il ragionamento, per non banalizzare, dovrà tenere conto dei ritratti “di famiglia” della Bialecka, da quelli per il Nipote di Enzo Poidimani o per il Nipote di Maria Buccheri, a quelli dei coniugi Valvo, Vincenzo e Giuseppina, o di Enrico Piazza junior, a quelli di Enrica Artusi e di Nino Giarratana.

In ognuno di questi ritratti almeno un particolare svela la dialettica intima della pittrice, che si muove quasi immancabilmente tra il polo del massimo rispetto del verosimile “fotografico” (sarebbe la lettura che ho dato con Benjamin) e l’altro polo della “connotazione spirituale” (che invece è sulla scia delle frasi di Hegel). Saranno le labbra dischiuse del compagno Enrico Piazza junior o l’identico sorriso dei Valvo (impareggiabile per renderne il carattere, il segno del tendine sul collo e la gola di Giuseppina Valvo), gli occhi intimiditi del Nipote di Enzo Poidimani o la smorfia sulle labbra del Nipote di Maria Buccheri. Non è un caso se il Ritratto di Marica Pelligrino segni infatti un punto di trapasso, e si ponga fortemente come uno dei più suggestivi della collezione che viene presentata in mostra: da un lato le ciocche di capelli bianchi, le rughe sul volto o vicino le orecchie hanno tutta la presenza concreta del verosimile; ma dall’altra parte un identico volgere dello sguardo e la linea spezzata formata dal volto e dal tronco, le due rughe sottili sulla glabella avvicinano questo ritratto a quello di Wolfango Intelisano, e anche qui vogliono significare un moto interiore della donna, una volizione fermata nel dipinto.

Ho usato appositamente l’espressione “fermare nel dipinto”, che è un misto di pittura e fotografia, per volgermi ad un altro elemento che mi ha fatto pensare ad Anna Bialecka e al suo modo di dipingere come neoromantico, nel senso di Hegel.

È evidente che un ritratto (sia esso fotografico che dipinto) ponga al committente e al creatore un problema di rispecchiamento e libertà: siamo ancora nel divario – non banale – tra utilizzo di una testimonianza verosimile e prestigio per un’opera d’arte.

È sempre Benjamin a fornirci lo spunto per la riflessione, quando parla del “valore di esponibilità” e del “valore cultuale” delle opere in uno dei suoi scritti più famosi, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, dove afferma: “Nella fotografia il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale. Ma quest’ultimo non si ritira senza opporre resistenza. Occupa un’ultima trincea, che è costituita dal volto dell’uomo. Non a caso il ritratto è al centro delle prime fotografie. Nel culto del ricordo dei cari lontani o defunti il valore cultuale del quadro trova il suo ultimo rifugio. Nell’espressione fuggevole di un volto umano, dalle prime fotografie, emana per l’ultima volta l’aura. È questo che ne costituisce la malinconica e incomparabile bellezza. Ma quando l’uomo scompare dalla fotografia, per la prima volta il valore espositivo propone la propria superiorità sul valore cultuale”.

Allora il ritratto è “utile”, “ben fatto”, “bello”, non solo perché riproduce fedelmente le fattezze del soggetto che ritrae; ma anche e forse più, perché ferma sulla tela una caratura morale, un moto dell’anima che non dura solo un attimo (sarebbe il risultato migliore di una fotografia), ma che romanticamente caratterizza il personaggio rappresentato: si guardino affiancate le due versioni del Ritratto di Renata Italia. A non conoscere le occasioni esterne e particolari del soggetto, e la genesi dei due dipinti, li si direbbe raffiguranti due diverse persone: e qui il dissidio della maestria di Anna Bialecka tocca un vertice sommo, perché la verosimiglianza e la caratterizzazione morale sono nelle due versioni sempre alla pari, e il coraggio di questa ritrattista che non ha l’ausilio tecnico della fotografia, ne esce ancor più vittorioso. Difatti dai due quadri esce prepotente quella che i pittori, e Benjamin nella sua opera, hanno chiamato aura, la luminosità della figura, intima e personale e non-ripetibile.

Parlando del grande fotografo Atget, Benjamin scrive: “Atget […] cercava ciò che si perde e che si nasconde, ed è per questo che le sue immagini aspirano l’aura della realtà come l’acqua in un battello che affondi. Perché, cos’è in fondo l’aura? È un singolare incontro di spazio e di tempo, unica apparizione di qualcosa di lontano, per quanto sia vicino. Riposando in un giorno d’estate, a mezzogiorno, seguire una catena di montagne all’orizzonte, o un ramo che getta la sua ombra sullo spettatore, fino a che l’ora o l’attimo abbiano parte alla loro apparizione – questo è respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo. […] Unicità e permanenza sono così strettamente unite in una tale fugacità in un caso e riproducibilità nell’altro. Sottrarre l’oggetto al suo contorno, distruggendone l’aura, è il segnale di una percezione per la quale il senso dell’uguaglianza si è sviluppato in modo tale che questa [percezione] viene applicata indistintamente all’unicità dalla riproduzione”.

Il filosofo tedesco sta parlando di fotografia e pittura, ma noi riconduciamo subito il discorso sulle opere della Bialecka: è innegabile la perizia tecnica con cui la pittrice opera e crea; e osservando attentamente i suoi dipinti vediamo sorgere l’aura di quelle figure proprio con un meccanismo simile a quello descritto da Benjamin. Ma c’è molto di più.

Tutti i lavori presentati nella mostra Ritratti siracusani emergono da un fondo scuro e si illuminano a segnare profili, l’emergere dei tratti del corpo e del volto – spesso il soggetto non affiora nemmeno completamente, ma ormai lo sappiamo: è la ricerca anche di un particolare spirituale, a muovere l’artista polacca, quindi non c’è bisogno di mettere ogni tratto sotto un riflettore.

Eppure qualcosa c’è di più profondo in queste opere: collegando tessera a tessera lungo il discorso pittorico, vediamo adesso con facilità che attorno ai volti, ai corpi dei ritratti, si leva una luminescenza non solo metaforica, ma reale: è il fenomeno tecnico della “accumulazione luminosa” o “aura” che avveniva durante le lunghe sedute di posa richieste dai primi apparecchi fotografici secondo la quantità di vapore acqueo che la macchina riusciva a cogliere attorno ai corpi dei soggetti  in posa – e la vediamo non solo nei ritratti, ma anche in dipinti di altro tema, sia esso un busto di cavallo, un arco monumentale o un vaso di rose.

L’aura dunque riappare: dalle fotografie, per i progressi tecnici, scomparirà presto, e sarà ricreata volutamente per “antichizzare” il risultato con diversi artifici tecnici fin dal 1880.

A noi interessa invece l’altro aspetto di questa luminescenza che Anna Bialecka fa scaturire dalla tela: è il connubio, ancora una volta romantico, di un attimo di luce che investe, e allo stesso tempo promana dal soggetto per dettare al pittore e allo spettatore il proprio carattere particolare. Un connubio tra fotografia d’antan e ritratto pittorico che lascia felici proprio perché non è uno scimmiottamento condotto con perizia per raggiungere con i pennelli risultati “ottocenteschi”, ma la proposta contemporanea di una ricerca romanticamente pronta a seguire il tempo di oggi.
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