mura arcaiche
Le mura arcaiche di Siracusa
Sulla mappa totale di Francesco Saverio Cavallari i contorni delle mura arcaiche ipotizzate da Roberto Mirisola.
colore rosso le mura di fortificazione arcaiche; colore verde le mura di fortificazione del 463a.C.; in colore blu le mura di fortificazione del 415/414
Premettiamo che le fortificazioni arcaiche di Siracusa, sia nell'isola sia e in maggior grado in terraferma, devono essersi formate via via nel lungo periodo che va dalla fondazione all'età diomenidèa. È a quest'ultima che riteniamo risalga un organico sistema difensivo; ma, pur riconoscendo l'esistenza di difese precedenti, definirne consistenza e fasi costituisce, nella scarsità dei dati archeologici e storici, una impresa basata soprattutto su argomenti induttivi.
Tuttavia, prendendo come base quanto accertato dalle ricerche geologiche, geografiche, archeologiche e da noi proposto con la tav. IV16, riteniamo di poter sostanzialmente dare per valido e attendibile quanto segue e proponiamo con la tav. VIII.
A N e a NW Ortigia era in origine separata dalla terraferma mediante un braccio di mare più ampio dell'attuale canale. Da una parte scavi e sondaggi effettuati presso il palazzo delle Poste e nella vicina piazza C. Battisti (sondaggi eseguiti per il Piano particolareggiato di Ortigia, 1984, e collegati al Piano regolatore del Comune di Siracusa) e ancora nella angolazione tra Riva Garibaldi - viale Mazzini fino alla Porta Marina dall'altra parte, mostrano in quei punti mare poco profondo e melmoso. Il margine NW dell'isola doveva pertanto corrispondere all'incirca alla linea oggi espressa da via dei Mille e il suo prolungamento in via Riva della Posta.
Su tutto il lato occidentale dell'isola la costa doveva essere di poco più avanzata rispetto all'attuale17, mentre invece l'area della città era notevolmente più estesa su tutto il lato orientale18.
In terraferma una lunga e relativamente stretta area paludosa (la Syrakò) e una seconda molto più ampia (la Lisimelìa) occupavano la fascia costiera, lasciando al loro interno scoperta una zona, ovviamente più elevata, che corrispondeva all'incirca a Piazza Marconi, a buona parte del cosiddetto Foro Siracusano e del promontorio proteso a SE verso Ortigia tra via Bengasi - Rodi, corso Umberto, viale Montedoro. Un esile dosso, più o meno in corrispondenza dell'attuale passaggio a livello all'inizio di corso Gelone, determinava una strozzatura nella palude Syrakò e assicurava un passaggio verso NNW lungo il proseguimento del dosso, sul quale oggi sale tutto il corso Gelone, sino alle falde dell'Epìpole.
Un altro dosso divideva il settore occidentale della Syrakò dalla palude Lisimelìa. Esso partiva da piazza Marconi - Foro Siracusano, seguiva la direttrice data oggi da via Crispi, piazzale della Stazione, viale Ermòcrate, raggiungendo il quadrivio del Fusco. Si capisce che l'area tra i due dossi, con epicentro in piazza della Repubblica, dovette essere tra le prime a venire bonificata.
In corrispondenza dei due dossi, cioè su uno all'altezza del piazzale della Stazione e sull'altro all'incrocio tra via Po e corso Gelóne dovevano stare delle porte. Ivi infatti e non oltre, come diremo più avanti, dovevano passare le mura. Importante particolarmente la prima porta, perché da essa si dipartiva la strada per la pianura e in direzione delle due subcolonie di Siracusa: Elòro e Acre19.
Quando giunge a Siracusa la notizia della grande spedizione ateniese tra l'estate e l'autunno del 415 a. C., la città, la vera e propria polis, comprendeva l'isola di Ortigia e un quartiere, ali'incirca altrettanto vasto, nella immediata terraferma, chiamato Acràdina. Apprendiamo da Tucidide (6.3,2) che al suo tempo Ortigia non poteva più chiamarsi "isola" (in dialetto siracusano Nasos). Un istmo infatti - un argine in pietra (lo sappiamo dal poeta arcaico Ibico, fr. 40 Poet. Mei. 321. Page) - la collegava alla terraferma20.
L"Acràdina (che Tucidide però non nomina mai tale; il toponimo ci viene da fonti posteriori), diciamo la parte terrafermicola della città, fu appunto in un secondo tempo fornita di mura proprie (Tuc. 6.3,2). Ciò può spiegare il fatto (ma altre ragioni storiche intervengono a suffragarlo) che l'intera isola di Ortigia restò sempre circondata da mura, anche in quei lati W e NW che, da un punto di vista militare, quando tutta l'area di terraferma, compreso il Porto Piccolo, fu fornita di mura, avrebbero potuto farne a meno21 (v. foto 4 a, b).
Contrariamente ad una diffusa opinione, che ritiene di vedere nell'attuale promontorio (tra via Bengasi - Rodi e viale Montedòro) una formazione recente via via costituitasi nel luogo di un sottile e lungo istmo sabbioso o "tombolo"22, vari sondaggi recentemente eseguiti a partire dal piano stradale hanno accertato in modo indiscutibile la presenza, pur discontinua per terre e riporti, di solida roccia calcarenitica (poi seguita da argille azzurre sempre pleistoceniche) che da uno spessore di 16-18 m in piazza Marconi passa, lungo corso Umberto, a 3-4 m all'altezza di via Perasso e a circa 1-1,5 m poco prima dell'attuale ponte umbertino e la Dàrsena. Questa zona, che chiamiamo 1'"Istmo", fu, a causa della formidabile posizione strategica tra i due porti di Siracusa e Ortigia, nel tempo sottoposta a profonde e radicali trasformazioni che hanno visto il succedersi di notevoli opere militari a partire dall'età greca e poi medioevale fino alle ultime grandiose fortificazioni spagnuole del sec. XVI. Delle prime, allo stato delle nostre conoscenze, si è quasi completamente perduta ogni traccia. Le parti in più, da una parte e dall'altra dell'attuale canale, sono opera di colmamenti (in parte antichi, con materiale archeologico, come è emerso anche durante le opere per i nuovi parcheggi in riva N. Sauro e piazza C. Battisti).
Solo una parte limitata del promontorio roccioso, corrispondente all'attuale ponte umbertino e alla Dàrsena (con una maggiore estensione, come si è detto, sul lato di Ortigia) era fornita, almeno in superficie, di sabbia e qui doveva correre l'"argine" ricordato da Ibico (17), atto ad assicurare il passaggio tra le due parti della città. Almeno in età ciceroniana (Cic. Verr. IIIV 117), il braccio di mare tra Ortigia e la terraferma era aperto e superato da un lungo ponte verosimilmente di legno. Di qui in direzione NW dovevano correre le mura a protezione del promontorio, sia, come si è detto sul lato del Porto Piccolo sia sul lato del Porto Grande, e degli arsenali, gli arsenali "vecchi", ricordati da Tucidide appunto sul Porto Grande (7.25,5), che non possono vedersi collocati altro che sul tratto di mare poco profondo tra il Mercato ittico e il molo di S. Antonio, ma forse anche, oltre lo sbocco del canale, fino al molo Zanàgora. In questo ampio tratto sono state accertate da sondaggi alcune lingue di ciottoli e sabbie molto pronunciate verso il largo.
La città di terraferma, la polis he exò23, non poteva estendersi, per noti motivi religiosi, oltre la linea dei cimiteri arcaici24, documentati a partire dal piazzale della Stazione fino a poco sotto l'inizio di viale P. Orsi (sotto l'attuale anfiteatro romano) quindi nell'area dell'ospedale civile (ex giardino Spagna), piazza della Vittoria per piegare a SE fin sopra la linea passante per l'incrocio di via Trapani con via Monte Grappa25.
Direttrice di questa città esterna era necessariamente il dosso sopra ricordato e oggi seguito da corso Gelone, integrando con bonifiche anche l'area solida, emergente sulla palude e corrispondente, come si è detto, all'attuale piazza Marconi e Foro Siracusano. Qui si costituì un'agora, centro commerciale, politico, religioso, in parallelo o in sostituzione dell'agora primamente collocata sul lato opposto di Ortigia26.
La palude Syrakó dovette essere presto bonificata anche per buona parte del suo settore orientale per dar luogo e forma ad un bacino detto Lakkios21, agli arsenali ivi costituiti28 e al relativo quartiere abitativo sulla riva di esso, cioè l'area cosiddetta Borgata (v. tav. IV). Più o meno quindi la polis he exó restava delimitata a SW e a NW dalla palude Lisimelìa e dalla depressione del settore occidentale della Syrakó (ancor oggi ben distinguibile e pressoché disabitata, meno che occupata da impianti sportivi, come un galoppatoio e campi da tennis), invece a NE dal bacino del Lakkios. Ad E del bacino del Lakkios, certo in comunicazione con esso, si apriva il Porto Piccolo, chiuso verso il mare, salvo la sua imboccatura, da due lunghe lingue sabbiose, una a N e una a S, ora erose e sommerse per il noto fenomeno dell'innalzamento del livello marino29.
A N infine il limite era dato dalle sopra ricordate aree cimiteriali, mentre a S dalle rive del Porto Grande.
Risponde ad una logica elementare che il muro arcaico della città procedesse a proteggere, partendo dal ricordato incrocio di via Trapani con via Monte Grappa sino al suo punto estremo, tutta la riva settentrionale del Porto Piccolo. D'altra parte tracce portuali, si sono trovate nei pressi di via Cimone, tracce di mura e di scali di alaggio in via Icèta e poco sotto in via Privitèra30.
L'identificazione sopra ricordata del Lakkios come bacino chiuso (sul tipo probabilmente del kothon punico) rende ben comprensibile il lungo passo di Cicerone (Verr. II V 95-100, 138), naturalmente rispecchiante una situazione del suo tempo, in cui si narra dell'audace penetrazione di una flottiglia di pirati fin "dentro il porto", che, come ben precisa lo stesso oratore, significa "dentro la città", nella sua parte più interna. Alla stessa conclusione porta il citato passo di Floro sul portus marmoreus.
Di tutta quest'opera arcaica, attorno sia ad Ortigia sia ad Acràdina, nessun resto monumentale sicuro è stato trovato31. Ma della sua esistenza (e della sua consistenza almeno nelle linee essenziali secondo gli argomenti da noi portati) non è possibile dubitare. Ne fa comunque fede il passo citato di Tucidide e inoltre sappiamo da Diodòro (XI 72-76) che nel 463 a. C. a Siracusa, abbattuta la tirannia di Trasìbulo e instaurata la democrazia, furono esclusi da certi onori i diecimila mercenari stranieri ai quali Gelóne aveva dato la cittadinanza. Costoro allora, ribellatisi, occuparono Acràdina e Naso32 amphoterón tón topón toutón echontón idios teichos kalós kataskeuasmenon33.
Allora i cittadini, per così dire, legittimisti si attestarono nella parte restante della città e sbarrarono questa con un muro in modo da difendersi essi stessi e impedire ai ribelli di uscire per rifornirsi di vettovaglie.
Ripetute volte vennero alle mani, attaccando sia Acràdina sia l'Isola, anzi vinsero i ribelli in una battaglia navale; ciononostante non riuscivano a scacciarli "perché i luoghi erano fortificati"34.
Da questo racconto si evince:
che Acràdina e Ortigia erano due città collegate ma distinte e completamente fortificate, si direbbe, nel modo che abbiamo sopra descritto;
che la "città" vera e propria, cioè la polis delimitata dalle mura originarie, era appunto Ortigia con Acràdina; ma in realtà anche una notevole parte esterna, cioè almeno quella occupata dai legittimisti, era, nonostante la presenza di numerosi cimiteri, tale da essere considerata polis da Diodòro; che in questa parte esterna fu costruito dai legittimisti un muro sia per sicurezza propria sia a scopo di blocco nei riguardi della parte più interna; che ambedue i belligeranti erano forniti di navi e, poiché il Lakkios e con-seguentemente il Porto Piccolo erano, in quanto connessi con Acràdina, in mano ai ribelli, è giuocoforza ritenere che la flotta avversaria sia stata allestita e rima¬nesse ormeggiata nel Porto Grande35; che lo scontro decisivo avvenne in terraferma.
Anche di questo secondo muro, fuori e attorno ad Acràdina, nessun resto è mai stato scoperto. Comunque, poiché risultò efficace strumento di assedio, esso doveva andare a sua volta da un punto del Porto Grande fino alla costa orientale e doveva trovarsi ad una considerevole distanza dall'altro, se, come dice Diodòro, esso dava "sicurezza" a quella parte della città. Possiamo pensare che, sul Porto Grande, partisse all'altezza dell'attuale stabilimento militare dell'Aeronautica, inglobasse parte del settore occidentale della Syrakó fin sotto il Temenìte, quindi percorresse una linea più o meno corrispondente a quella delle attuali latomie per finire all'incirca al monumento del Lavoratore italiano in Africa oltre il convento dei Cappuccini. Cioè in altre parole inglobasse quelle parti della città che poi si sarebbero chiamate Neapolis e Tyche, lasciando fuori, per ragioni che tosto diremo, l'area del Temenìte.
Questa linea doveva essere continua, se lo scopo era quello di creare un blocco e la frase di Diodòro to pros tas Epipolas tetrammenon36\a intesa (espressioni analoghe si trovano anche in Tucidide per i fatti sostanzialmente simili dell'inverno 415/414 a.C.) come riferita a tutta la parte di città in terraferma rimasta in mano ai legittimisti. Un blocco limitato al margine settentrionale non avrebbe avuto senso, se lasciava libero il lato occidentale aperto sulla pianura dell'Anapo, dove stavano le maggiori e migliori possibilità di approvvigionamento. Forse invece restava aperto il lato sulla costa orientale sia per la totale mancanza di approdi agevoli sulle sue rive alte e scoscese sia per la minore o nessuna eventualità di aggressioni pericolose da quel lato.
Le paludi per parte loro dovevano costituire un ostacolo alla realizzazione in esse di un muro vero e proprio. E molto probabile che l'opera legittimista, molto lunga e tutta improvvisata, si presentasse con forme discontinue e diverse, cioè anche con semplici fossati e palizzate, secondo i luoghi che attraversava; il che è quanto, per esempio, accadrà più avanti, quando gli Ateniesi scenderanno dalle Epìpole sulla pianura dell'Ànapo e si troveranno di fronte alle aree paludose della Lisimelìa37.
II. Il muro avanzato siracusano nell'inverno 415-414
Dunque durante l'inverno 415-414 i Siracusani, approfittando dell'inerzia ateniese, provvidero a rinsaldare le loro difese verso nord, donde avevano mille e una ragione di prevedere l'attacco nemico. Istituiscono un caposaldo avanti a Mègara, commettono l'errore (che ripareranno solo molto più tardi e a caro prezzo) di non fortificare l'Epìpole (e il punto giusto non poteva essere che, come vedremo, l'estremità occidentale, il cosiddetto "eurìalo"), ma in compenso stendono davanti al muro di cinta della città (dobbiamo ritenere quello originario, arcaico) una nuova linea fortificata, che comprendeva anche il Temenìte (Tue. 6.75,1 ) e che doveva più o meno ricalcare, Temenìte a parte, la linea fortificata già legittimista. Tucidide usa qui una frase che ricorda proprio quella citata prima di Diodòro: teichos para pan to pros tas Epipolas orón.
Si deve intendere tutta la parte settentrionale della città stesa tra Ortigia e l'Epìpole. La ragione di questo muro, dice Tucidide (ibid.), era di portare avanti la linea difensiva in modo da crearsi un maggiore spazio di arroccamento alle spalle. Tucidide non parla affatto del muro 463/461. Evidentemente si trattava, questa, di un'opera, come si è detto prima, frettolosa e inorganica, destinata ad essere, alla prima necessità, sostituita dal muro avanzato di cui stiamo parlando. E infatti ben comprensibile che, dovendosi spostare avanti le difese di Acràdina - e ciò in breve tempo - si approfittasse della linea più o meno fortificata del 463. E la coincidenza delle due opere può giustificare il silenzio di Tucidide sulla prima di esse, che egli forse ignorava o a cui non dava particolare importanza.
In più però nell'inverno 415-414 i Siracusani inseriscono nel nuovo muro l'area del Temenìte: ton Temenitèn entos poiesamenoi (Tue. ibid.). L'inglobamento del colle era una necessità strategica essenziale. Il Temenìte, questa specie di gobba che fa qui il costone dell'Epìpole (a parte il suo altissimo valore sacrale), costituisce la cerniera tra il nord e il lato ovest della difesa a terra di Siracusa. Farne un caposaldo ben fortificato era quanto di più opportuno e saggio potessero pensare i Siracusani (tav. VIII).
Ancora una volta non siamo in grado di conoscere la consistenza della nuova linea nelle paludi. Probabilmente fu consolidata appunto quella precedente del 463/461, di pali e fosse, ma è anche molto probabile che il caposaldo del Temenìte venisse collegato con il muro vecchio primitivo mediante un solido raccordo giù per viale Agnello e poi lungo via Basento, in modo da costeggiare dall'alto la zona qui corrispondente della palude Syrakó38.
Di questo muro avanzato siracusano noi stessi abbiamo, durante i nostri lavori al teatro del 1986, trovato una buona traccia e precisamente un breve tratto N-S subito a E del santuario di Demètra e Kore sovrastante il teatro39 e, in continuazione, un tratto maggiore in direzione E-W, lungo circa 40 m, proprio sul ciglio della katatome N della terrazza superiore sopra la latomia del Paradiso (il che, tra l'altro, ci assicura che a quel tempo la latomia non esisteva almeno nelle dimensioni attuali).
E probabile (sarebbe stata lo soluzione ottimale) che all'incirca nel punto dove terminano le sue tracce, esattamente sopra il cosiddetto orecchio di Dionigi, il muro si divaricasse e da una parte continuasse verso S in modo da chiudere completamente Temenìte e temenos (che in realtà coincidono)40, dall'altra parte si rivolgesse in direzione ENE, seguendo il costone dell'Epìpole all'incirca lungo la linea delle latomie, quante più o meno allora esistessero.
Se si fosse trattato solo delle latomie, sarebbe logico pensare che esse fossero state lasciate esterne alle mura, come grandi fossati a integrazione dello stesso sistema difensivo. Ma queste cave, almeno nella fase iniziale, erano ricavate sul pendio roccioso delle Epìpole e pertanto a monte di esse si presentava una parete ripida, che doveva necessariamente essere superata dal muro di cinta41.
Nessuna traccia in corrispondenza dei cosiddetti Grotticelli. Ma, se osserviamo l'andamento di una stretta e tortuosa via tra viale Teracati e largo Nedo Nadi (ora C. Ganci), via detta "della latomia del Casale", del tutto anomala rispetto ad ogni altra vicina, forse siamo nel giusto se la interpretiamo tale in quanto in relazione ad una sistemazione urbanistica antica in prossimità di una cinta muraria.
Lunghe tracce di piani di posa, appartenenti ad un muro di difesa e simili a quelle da noi trovate sul Temenìte, ritornano invece nel largo spazio rimasto per fortuna inedificato al di sopra della balza rocciosa, ove ora sale la via delle Olimpiadi, fino all'incirca alla latomia dei Cappuccini. Recentemente resti cospicui di una muraglia con andamento SE-NW sono venuti alla luce anche subito a N della latomia. Forse si collegavano con larghe tracce di fortificazioni tuttora individuabili presso la costa, a NE dell'ampia insenatura oggi dominata a S dal monumento al Lavoratore italiano in Africa. Attraverso queste fortificazioni passò più tardi la grande muraglia dionigiana i cui resti non sembrano confarsi con esse.
È da chiedersi perché la grande latomia del Cappuccini, la più vasta e forse la più antica delle latomie siracusane, sia rimasta all'interno della cinta muraria di cui parliamo, e si direbbe appunto, dato il suo aspetto di enorme voragine, contro il buon senso. Una così ampia e profonda infossatura all'esterno si integrava come elemento poderoso di difesa, all'interno di ingombro ai difensori. O quei resti di muraglia recentemente rinvenuti a N della latomia appartengono ad un'opera diversa dal muro 415/414 o, a nostro avviso più probabilmente, in analogia al caposaldo del Temenìte creato all'estremo occidentale della fronte difensiva, anche all'estremo opposto, presso la costa marina, fu installato un altro caposaldo inglobante la latomia, la quale in questo caso diventava comodo luogo di alloggiamenti, di depositi e comunque di protezione42.
La terminologia usata da Tucidide nel narrare di queste (e le successive) opere murarie di difesa è di una precisione da manuale militare. Il muro arcaico è il teichos per antonomasia della città43. Noi oggi diremmo "il muro vecchio" o "il muro della città vecchia". Quello dell'inverno 415/414 (Tucidide, come si è detto, ignora il muro 463/461) è chiamato proteichisma, come dire "muro avanzato".
Allo stato attuale dei fatti in tutta la zona ad W del teatro tracce del muro 415/414 non sembrano note. Quante si vedono o appartengono al grande complesso difensivo dionigiano o sono da attribuirsi, come tosto diremo, alle opere degli assedianti ateniesi44.