marina di Siracusa - Siracusa era

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
Siracusa era
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marina di Siracusa

foto Siracusa

in gergo marina nella toponomastica del tempo Viale Mazzini, lungomare Aretusa
oggi la zona della marina vera e propria è chiamata Foro Vittorio Emanuele.
Le immagini comprendono l'intera zona da porta Marina alla villetta Aretusa
vedi anche:
https://www.antoniorandazzo.it/ortigia/marina-porto.html



http://www.antoniorandazzo.it/palazzidipregio/fontana-degli-schiavi.html


tratto da: LA PRODUZIONE DI UNO SPAZIO URBANO
SIRACUSA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO DI: SALVATORE ADORNO
documentazione pdf
UNO SPAZIO CONTESO: LA MARINA DI SIRACUSA
LA MARINA TRA VITA CIVILE, DIFESA MILITARE E ATTIVITÀ COMMERCIALE
Quella che i siracusani chiamavano la marina, in età borbonica era uno spazio complesso, unitario e allo stesso tempo articolato. Si estendeva a ridosso delle mura di ponente di fronte al porto grande, per circa 180 canne di lunghezza rettilinea. Iniziava a sud dal bastione Fontana, che la separava ermeticamente dalla mitica fonte Aretusa e di fronte al quale si estendevano uno slargo e un piccolo molo con la Casina sanitaria, sede della Deputazione sanitaria di prima classe. Finiva a nord con il bastione Campana, vicino al quale si apriva l'antica porta di mare, che rappresentava l'unica via di comunicazione tra la città murata e la marina. Una lingua di terra, dunque, chiusa tra le mura e il mare, larga alcune decine di canne. Le mura erano protette dalla falsabraga a metà della quale poggiava una fontana, seguiva a lato una strada in battuto che permetteva il transito dei pedoni e delle carrozze dalla porta di mare fino alla Casina sanitaria e poi, un po' rialzata, la banchina vera e propria, con funzioni di attracco commerciale e di protezione della strada e delle mura. Infine il mare che, a causa dell'interramento del porto, in questo litorale aveva bassissima profondità, tanto che nelle stagioni di forte risacca era impossibile ormeggiare persino i piccoli bastimenti.
Lo spazio così ripartito svolgeva tre funzioni diverse: difesa militare, vita civile, attività commerciale. Queste tre funzioni, consolidate nel tempo, erano il prodotto di pratiche sociali quotidiane: il passeggio delle carrozze e dei pedoni, il lavaggio dei panni nella fontana, l'attracco delle navi commerciali e da guerra, la presenza delle truppe nei camminamenti di ronda. Alle tre funzioni corrispondevano in età borbonica tre giurisdizioni. Quella militare, ovvero il Comando generale della valle e della piazza, quella commerciale, ovvero la Deputazione del porto e del molo, quelle civili: il Decurionato della città e la Deputazione sanitaria. Erano questi i poteri urbani che controllavano lo spazio della marina in periodo borbonico, articolando la loro azione in relazione al potere centrale esercitato dall'Intendenza. Interessi diversi, spesso in conflitto tra loro e con il potere centrale, a volte cooperanti e convergenti, si contendevano l'uso di questo luogo, misurandone l'estensione, stimandone il valore, disegnandolo, descrivendolo, progettandolo e riprogettandolo, regolamentandone l'uso sociale, come avviene per tutti i luoghi influenti delle città. Ad aprire il contenzioso tra le amministrazioni che avevano giurisdizione sul luogo era spesso l'azione corrosiva della natura, il mare che erodeva, ingrottava, squarciava le banchine, richiedendo opere di restauro e di ricostruzione. Chi doveva fare i progetti? Chi doveva pagare le opere? Chi doveva eseguirle? Ma era anche la sua bellezza a farne motivo di contesa. Posata a cornice del porto grande, punto zenitale di sguardo per quello che da Cicerone a D'Annunzio è stato definito uno dei più bei tramonti del mondo, la marina venne inevitabilmente individuata come il luogo del decoro, dello svago e della passeggiata e come tale curato dalle amministrazioni cittadine, così che le spese di arredo, per gli stretti bilanci del Comune, entravano spesso in concorrenza con quelle di restauro dei moli. L'uso civile del luogo competeva con quello militare e commerciale che era prevalente e invasivo e si affermò espellendo progressivamente da quello spazio la presenza delle lavandaie. La piantumazione degli alberi ad alto fusto, il sistema di innaffiamento, la posa dei sedili, la costruzione del palchetto per la banda, il restauro dell'antica fontana degli Schiavi con un'artistica cancellata, l'impianto di illuminazione a petrolio rappresentano i primi casi di spesa pubblica per la socialità e il decoro delle amministrazioni locali. Pur isolata e fuori dalla cerchia urbana, la marina attraeva risorse di socialità urbana.
A partire dall'Unità, con il processo di demolizione delle mura, iniziò a venire progressivamente meno la funzione militare. Prima l'abbattimento del forte Campana, poi quello dell'intero dispositivo difensivo, comprendente sia le mura che le opere a corno e a corona, ridefinirono gli spazi, li ampliarono e offrirono nuove opportunità ai luoghi. Con questa operazione si dissolse non solo la funzione militare della banchina della marina, ma si depotenziò anche quella mercantile, poiché l'asse commerciale del porto si spostò verso i nuovi spazi, in alto verso la darsena, l'opera a corno e il molo Sant'Antonio, dove il progetto del binario che univa il porto alla stazione rappresentò il fulcro della nuova identità commerciale della città. Nell'ex spazio delle opere a corno e a corona - ormai spianato, infrastrutturato, edificato - si spostarono, a inizio Novecento, le principali funzioni commerciali: la dogana e la capitaneria che in periodo borbonico risiedevano alla marina.
Lo spazio della marina già a partire dagli anni sessanta dell'Ottocento iniziò così ad affrancarsi dalle funzioni militari e commerciali e dalle rispettive pratiche sociali. Divenne uno spazio libero, progressivamente invaso dalle pratiche della sociabilità notabilare: svago, passeggio, incontro, esposizione. Per un notabilato che faceva del decoro, della quantità e qualità delle relazioni sociali una delle principali risorse d'identità, la marina divenne luogo ideale di produzione di identità. E così anche fisicamente il luogo si trasformò. Negli anni sessanta i vecchi camminamenti delle mura di ponente si trasformarono in un passeggio urbano con una ringhiera artistica che valorizzava la visione panoramica. Sotto le mura la marina si aprì. A sud, con una rampa che circondava il bastione Fontana, ruppe il diaframma che la separava dalla fonte Aretusa. A nord, con l'abbattimento delle mura, divenne, a tutti gli effetti, spazio urbano pienamente integrato nel sistema di percorribilità della città, non più limite esterno a essa. È in questo contesto che si affermò l'idea di un vero e proprio riassetto urbanistico della marina. Negli anni ottanta progetti mai realizzati e rimasti su carta e lunghi dibattiti in consiglio comunale disegnarono e descrissero uno spazio ideale di socialità urbana che ancora una volta le scarse risorse finanziarie della città costrinsero a più contenute e realistiche dimensioni. I nuovi progetti dovettero piegarsi ai compromessi con le pratiche mercantili, che tendevano ciclicamente a ricollocarsi in quello spazio, e con quelle militari, che tornavano rinvigorite dalle ambizioni coloniali dello Stato unitario, tuttavia agli inizi del Novecento la marina era ancora in qualche modo coerente all'idea di socialità e decoro che di quel luogo i notabili della città avevano e volevano dare.
LA PRODUZIONE DI UNO SPAZIO URBANO IL CONFLITTO PER LA FORMA: 1827-1837
La banchina della marina nella seconda metà dégli anni venti dell'Ottocento si trovava in un stato di assoluto degrado, in più parti squarciata e sconnessa, mentre la linea del litorale era interrata da fanghi e detriti. L'intendente di Siracusa in una lettera al luogotenente di Sicilia nell'estate del 1830 descriveva così lo stato del luogo:
l'acqua del mare introducendosi in maggior quantità dalle fatte aperture impedisce il passaggio dei commercianti, dei marinai e degli impiegati per andare alla Casina sanitaria e batte le fondamenta di una parte delle fortificazioni in faccia a ponente;
e aggiungeva:
essendosi tralasciato di espurgare per più anni questo porto, malgrado le rimostranze che si sono fatte per mezzo della capitaneria di porto, si è reso talmente ingombro di pietra e di fango che neanche le barche più piccole possono awicinarsi a terra a danno tanto per l'utilità del commercio, quanto per lo comando dei legni di guerra1.
L'Intendenza conosceva, per altro, molto bene la situazione. Da anni infatti, ricorrentemente all'inizio di ogni inverno, la Deputazione sanitaria denunciava il blocco dei servizi a causa dell'impossibilità degli impiegati sanitari di raggiungere la Casina, il Comando generale lamentava il pericolo che l'intero sistema difensivo di ponente venisse messo a repentaglio dall'azione corrosiva del mare e la Deputazione del porto e del molo segnalava le difficoltà di approdo dei bastimenti a causa dei bassi fondali e del deterioramento della banchina .
L'intervento di restauro appariva all'Intendenza tanto necessario quanto difficile a causa della mancanza di fondi e delle diverse esigenze di progetto che emergevano dai diversi attori istituzionali. Non a caso per ben quattro anni - dal 1826 al 1830 - la pratica rimase bloccata. Nel 1827, dopo un iniziale tentativo di reperire i fondi necessari nel bilancio del Ministero della guerra, la Real segreteria del Ministero degli interni decideva di imputarli sui fondi stanziati per i porti, affidando alla Deputazione del molo e del porto il compito di seguire l'iter di formulazione del progetto e di stima dei lavori, che prevedeva il coinvolgimento della locale sezione del Genio . Nel frattempo sia il Comando della piazza che l'Intendenza maturavano l'idea che un restauro non fosse sufficiente e che invece occorresse procedere a una ricostruzione dell'intera banchina. Ma mentre il Comando riteneva che oltre alla banchina bisognava ricostruire a protezione delle mura anche la falsabraga ormai cadente, l'Intendenza, più sensibile alle esigenze civili, riteneva che la ricostruzione della banchina poteva essere una buona occasione per ridefinire lo spazio di socialità; proponeva quindi di «rifarla due canne più in là nel mare onde restare più larga la strada di passaggio» . La locale sezione del Genio, che aveva nel frattempo continuato a lavorare a un progetto di ripristino parziale, trovando per altro una serie di intoppi burocratici, di fronte alle indicazioni divergenti delle autorità civili e militari, comunicò al Comando che la proposta dell'Intendenza appariva «contraria al sistema difensivo della piazza», ma, non avendo ricevuto risposta, bloccò la pratica .
A partire dal novembre 1830 l'opera di mediazione dell'Intendenza fu tutta giocata nel cercare di sanare questa contraddizione che era espressione delle molteplici e. intrecciate funzioni del luogo e dei conflitti che ne conseguivano. In una memoria al luogotenente di Sicilia l'intendente distingueva due opere. La prima era il ripristino della falsabraga «necessaria per la difesa della piazza che nulla giova al porto ma riesce piuttosto di qualche impedimento per trafficare la strada e la banchina». La seconda era la «banchetta [...] tanto necessaria e utile al commercio e che è ricercata da tutti i legni di qualche nazione che entrano nel porto» . La falsabraga si sarebbe dovuta fare a spese del Ramo della guerra, la banchina a spese del Ramo del porto e del molo, anche se quest'ultima svolgeva poi una funzione di riparo della falsabraga e giovava anche alle esigenze militari. Il doppio progetto venne sottoposto al vaglio del Consiglio delle fortificazioni, che trovò ragionevole la proposta dell'intendente e prescrisse che prima la Deputazione del porto e del molo avrebbe dovuto costruire la banchina con i fondi del bilancio civile e poi la Deputazione militare avrebbe dovuto ripristinare la falsabraga con i propri fondi . Il ripristino e l'ampliamento della banchina fu autorizzato con Regio rescritto del 1832 e l'appalto fu affidato ai fratelli Annino . L'allargamento della strada, voluto dall'intendente, permise la piantumazione di due filari di alberi di alto fusto e la creazione, nello spiazzo sotto il bastione Fontana, di una villetta. In quell'occasione il Comune istituì l'apposita commissione della flora, alla quale fu affidata l'amministrazione della marina, che iniziò ad assumere così tutte le caratteristiche del luogo di socialità .
Questo percorso però fu possibile attraverso il progressivo allontanamento dalla marina delle lavandaie, che fino al 1827 lavavano i panni alla fontana degli Schiavi. In quell'anno i lavori di ripristino della strada e della fontana spinsero il sindaco e il sottintendente a spostare l'attività delle lavandaie nello slargo sotto il bastione Fontana. Successivamente, con la creazione della villetta, le lavandaie migrarono al di là del bastione, nella fonte Aretusa, lasciando quello spazio del bastione al pieno dominio delle attività di decoro, ma violando l'aura della mitica fontana 10. Nella prima metà degli anni trenta nello spazio della marina esigenze militari, commerciali e di decoro sembravano aver trovato una ricomposizione nella ritrovata sintonia tra i vari corpi amministrativi.
IL CONFLITTO PER LA SPESA: 1840-1860
Agli inizi del 1837 i lavori della banchina non erano completati per un contenzioso con la ditta appaltatrice, relativo a uno stato estimativo suppletivo, mentre non si ha notizia di quelli relativi al ripristino della falsabraga11.
Il Comando militare, riconoscendo i motivi di «decoro e utilità» che l'opera portava alla città, scriveva all'intendente per sollecitarlo
a riprendere l'attività che si è veduta sospesa nel più bel meglio da più di un mese, ed il pubblico che da una parte veniva a godersi dell'ornamento che la nuova banchina arreca, dall'altra vede i pericoli che la mancanza della istessa procura12.
Ma i moti antiborbonici, che nello stesso anno sconvolsero la città, bloccarono più a lungo i lavori e inasprirono i rapporti tra la città e il sovrano, il quale, con chiara volontà punitiva, spostò il capoluogo di valle a Noto. Il declassamento di Siracusa a capodistretto e la promozione di Noto a capovalle ridisegnarono gli equilibri amministrativi e le gerarchie territoriali dell'area sud-orientale della Sicilia . La repressione dei moti, che colpì settori consistenti del notabilato cittadino, e la perdita delle funzioni amministrative di capo-valle, determinarono un netto ridimensionamento del potere di contrattazione delle élites locali nei confronti delle articolazioni centrali dello Stato borbonico. La città rispose con una radicalizzazione delle posizioni antiborboniche e con un'accentuazione della conflittualità col potere centrale, che si manifestò attraverso una costante tensione rivendicativa degli interessi locali.
Nel tentativo di uscire dall'isolamento politico-amministrativo, di recuperare un ruolo territoriale e d'innescare un rilancio dell'economia, superando lo stato di «abbandono» e di «inerzia» del porto, il Decurionato di Siracusa avanzò tra il 1839 e il 1840 la proposta d'istituire un porto franco per facilitare l'inserimento della città nei circuiti commerciali del Mediterraneo . Si trattava di un'antica aspirazione, enunciata a fine Settecento dal marchese Tommaso Gargallo, già inoltrata nel 1819, ma respinta dal Consiglio di Stato. La Memoria, presentata nel 1841,a richiesta del porto franco, aveva di fatto le caratteristiche di un'istanza di risarcimento nei confronti della perdita della funzione di capovalle. Non potendosi basare su attestati di fedeltà al sovrano, anzi dovendo scontare la recentissima insubordinazione, cercava legittimazione in una genealogia della città che aveva origine nella possente grandezza dell'antica Siracusa e del suo porto, ripercorreva, poi, una storia di lunga decadenza che arrivava al presente, e mirava infine, con un percorso circolare, a un riconoscimento di quell'antico status attraverso il rilancio dell'attività del porto che avrebbe portato lustro e ricchezza alla città e al Regno.
Supportata da questo percorso di legittimazione, la Memoria, da un punto di vista tecnico, cercava di confutare a priori i presunti punti deboli della richiesta e in questo modo ci rivela la consapevolezza che le classi dirigenti cittadine avevano dei limiti oggettivi del porto. In primo luogo il fatto che la città, essendo piazza d'armi, non offriva luoghi idonei per la costruzione di magazzini di deposito. In secondo luogo la presenza di un tradizionale e consistente traffico di contrabbando con Malta. In terzo luogo la mancanza di «ponti» e «strade rotabili», nonché di «capitalisti» e «industrie»15. Infine la difficoltà a entrare in competizione con l'ormai consolidata attività commerciale del porto franco di Messina. Le confutazioni di questi argomenti, supportate più dalla logica che dai fatti, non servirono a convincere il Consiglio amministrativo dei dazi indiretti, che rigettò la domanda, nonostante avesse ottenuto l'autorevole avallo del Regio istituto d'incoraggiamento per l'agricoltura, le arti e il commercio. L'esito della vicenda del porto franco era il segno sia dei limiti oggettivi delle potenzialità del porto, sia della debolezza contrattuale delle classi dirigenti cittadine. Debolezza che si evidenzia soprattutto nel raffronto con la vicenda di Catania. Qui, fin dalla prima metà dell'Ottocento, le élites locali investirono forza, credibilità e legittimazione nel progetto di valorizzazione del porto, consapevoli dell'importanza che la sua collocazione nelle gerarchie alte della portualità meridionale avrebbe avuto per lo sviluppo della città16.
A partire dagli anni quaranta l'impulso dato dalle riforme amministrative borboniche alla crescita della rete stradale della provincia di Noto determinò un sensibile incremento dei traffici portuali di Siracusa e migliorò il ruolo commerciale del porto nelle gerarchie costiere della Sicilia orientale17. Per altro verso, la vicenda della costruzione della banchina mostra invece come, dopo la sconfitta del 1841, la capacità del notabilato locale di tutelare gli interessi del porto rimase debole e come la sua azione andò progressivamente spostandosi su altri interventi urbani legati alla valorizzazione di altri luoghi simbolici dell'antica grandezza della città.
Agli inizi degli anni quaranta il rifacimento delle 180 canne di banchina, iniziato nel 1832, poteva dirsi concluso, anche se le opere risultavano di scarsa qualità. L'attenzione si spostava così verso il prolungamento della banchina esistente nell'area immediatamente antistante al bastione Campana e alla porta a mare della città, limitrofa alla darsena e attrezzata con un piccolo molo. Su quell'area gravitavano dunque tre diversi tipi d'interesse. Quello dell'amministrazione militare e della città consisteva nel proteggere rispettivamente il torrione difensivo e la porta urbana dai marosi che squassavano dalle fondamenta il preesistente terrapieno; mentre l'interesse commerciale consisteva nell'attrezzare l'area ai fini dell'attività mercantile.
Dal punto di vista tecnico-finanziario, la storia di questo pezzo di banchina è racchiusa in quella degli stati estimativi che si susseguirono numerosi, dal 1841 al 1858, facendo lievitare il costo dagli iniziali 13.000 ducati della stima del generale Bardot ai 21.000 ducati della stima dell'ingegnere Spagna. In questa fase si accavallarono e si frantumarono diverse competenze sugli spazi da valutare e tutte le amministrazioni civili e militari furono coinvolte nel processo di stima e di misura dell'area e delle opere da costruirsi . Dal punto di vista progettuale furono messe a confronto due proposte. Il progetto del Genio prevedeva che la banchina fosse tutta scalinata verso il mare per rendere più facile l'attracco dei bastimenti commerciali, ma l'idea fu bloccata dalla Giunta delle fortificazioni che impose, per le esigenze militari, un secondo progetto, con la presenza «solo di tre o quattro scalette» .
I due progetti sulla struttura fisica della banchina esprimevano già un conflitto tra le diverse funzionalità immaginate dall'autorità civile e da quella militare. A bloccare la realizzazione del progetto non furono, però, le idee contrastanti che le due giurisdizioni avevano sulla forma da dare a quello spazio, quanto piuttosto l'individuazione di chi doveva sostenerne i costi di realizzazione. Infatti nel frattempo era entrato in gioco un terzo attore: il Decurionato della città. Mentre nel caso della prima parte della banchina, una volta risolto il conflitto sulla forma, si potè avviare la costruzione dell'opera, ricomponendone l'unitarietà, nel caso della seconda parte, il conflitto sulla ripartizione della spesa ne bloccò la realizzazione, frantumandone lo spazio.
Nel 1842 la Luogotenenza siciliana, prendendo atto della stima del 1841 del generale Bardot, in maniera assai difforme da quanto deciso per il lotto precedente nel 1830, escluse perentoriamente che i costi della banchina dovessero gravare sul bilancio dei porti di Sicilia, che prevedeva 15.000 ducati già destinati ad altri usi e ad altri porti. La Reale segreteria di Stato a sua volta negò l'utilizzo dei fondi sanitari, essendo stato il presidio sanitario (la Casina sanitaria) nel frattempo spostato al centro dell'opera a corno . Sia da Napoli che da Palermo giungeva dunque l'indicazione che la spesa doveva gravare sul bilancio del Comune. Questi, da parte sua, con una delibera decurionale del febbraio 1842, pur riconoscendo l'utilità dell'opera, si esimeva dal realizzarla per mancanza di fondi e chiedeva che l'onere economico fosse assunto dall'amministrazione centrale attraverso il Genio civile . Si apriva così un duro contenzioso tra centro e periferia che può essere contestualizzato all'interno della scelta antiborbonica fatta dalla città nel 1837 e successivamente nel 1848 . E così, parallelamente alla pratica burocratica mirata a definire la misura, la stima e il disegno del luogo, si aprì un'aspra dialettica politico-amministrativa tesa a individuare a chi toccasse l'onere della spesa.
Il dibattito, dopo un primo momento privo di normazione, si svolse all'interno di una cornice legislativa ambigua e contraddittoria, che lasciava adito a diverse interpretazioni, definita da due sovrani rescritti. Il primo, del 9 luglio 1845, riguardante specificamente il porto di Siracusa, imponeva la divisione proporzionale della spesa fra i tre soggetti interessati alla banchina: il Comune, il Ramo della guerra e il Ramo del porto. Il secondo, del 6 febbraio 1847, relativo a tutte le opere portuali del Regno, distingueva tra le opere in acqua da addebitarsi al bilancio statale e quelle sopra acqua da addebitarsi ai comuni .
Il Comune, fino al rescritto del 1847, respinse ogni partecipazione, di qualunque tipo, alle spese. Dopo il rescritto del 1847, giocò abilmente sulle contraddizioni della legge chiedendo che venisse applicata la norma per lui meno onerosa della tripartizione tra Comune, Ramo del porto e Ramo della guerra. Il Comune chiese inoltre che all'interno di questa norma, sulla base del rescritto del 1847, gli venissero riconosciute solo le spese di terra relative agli spazi di interesse civile, caricando sul bilancio del Ramo di guerra quelle relative agli spazi di interesse militare . Il problema si spostò, come si vedrà in seguito, sull'interpretazione di cosa dovesse intendersi per spazi di utilizzazione civile. Ma anche quando con la ministeriale del 15 luglio 1851 le sue proposte vennero accettate, il Comune rifiutò di sostenere gli oneri. La posizione rigida assunta dal Decurionato rifletteva il livello di conflitto con le autorità centrali teso a imporre una maggiore considerazione per gli interessi locali e a rivendicare il diritto di accesso della città alle risorse finanziarie statali. Ma d'altra parte evidenziava la specifica gerarchia di interessi e di valori nella quale l'organo di governo della città aveva deciso di collocare la questione delle banchine del porto.
Già nel 1845, alle sollecitazioni degli organi centrali affinché assumesse almeno un terzo della spesa, il Decurionato aveva infatti risposto con una lunga memoria sui diritti che la città aveva sul porto. In quell'occasione il Decurionato ricordò al sovrano che nel gennaio del 1642 la città aveva acquistato da Filippo iv, previo pagamento di 15.000 scudi, i diritti di capitaneria di porto, console del mare, lanternaggio, falangaggio e ancoraggio. Ricordò inoltre che tali diritti gli erano stati tolti nel 1810 e non erano stati più reintegrati, bensì riscossi dalle dogane governative e concludeva: non essendo dunque la comune di Siracusa più in percezione di tali comprovati diritti, [...] nulla vantaggio [...] ha dalla continuazione della banchina, da estendere fino al molo, sulla ragione che esige nessun dazio sui generi che se ne immettono ed estraggono e che il lasciarla nello stato attuale con la marea che lambisce il forte che le sta accanto grave danno solo creerebbe alle reali fortificazioni .
Richiedeva così che la propria quota di spesa ricadesse sul bilancio militare. Dalla relazione emergeva il quadro di un comune molto povero, sfornito di beni patrimoniali e di rendite, ferito dalla perdita di diritti e sovrani privilegi, umiliato dall'esclusione dal ruolo di capovalle, inascoltato nelle richieste legittime di porto franco, creditore del pubblico erario, costretto a basare il proprio bilancio esclusivamente sui dazi sulle merci introdotte in città e a dipendere per questo dalle congiunture dei prezzi dei prodotti alimentari.
Sollecitati dalla posizione del Decurionato, risposero sia la Real segreteria del Ministero degli interni che la Luogotenenza generale di Sicilia. La prima, nel maggio del 1846, in una lunga nota spiegava che il mancato reintegro dei diritti portuali era ormai passato in giudicato con una sentenza della Gran Corte dei conti del dicembre 1842 e che appellarsi a un atto amministrativo già concluso appariva strumentale . La seconda, poco dopo, escludeva perentoriamente la possibilità di esentare la città dalla partecipazione ai costi dell'opera e non solo riproponeva la tripartizione precedente, ma rateizzava la parte a carico del fondo dei porti e non quella a carico del Comune . Da parte sua il sindaco rispondeva annunciando ricorso alla decisione della Corte, impegnandosi ad accettare l'onere della spesa solo qualora fossero state riconosciute le sue ragioni sui diritti sospesi e reintegrate le somme dovute In questo contesto di scontro frontale tra centro e periferia, gli organi intermedi (l'intendente e il comandante militare della città) presero posizione a favore della città, con una sostanziale differenza. L'intendente, dopo aver definite «ben fondate» le ragioni del Decurionato, sostenne lo storno a carico del Ministero della guerra . Il comandante militare della città, sv generale Bernardo Palma, dopo aver ritenuto «lo stato ristrettissimo finanziario di questo comune del tutto insufficiente per siffatte erogazioni», propose di spostare la spesa non a carico del Ministero della guerra, bensì a carico delle finanze della provincia di Noto. Egli infatti giudicava preminenti le funzioni commerciali del luogo e riteneva che producessero «vantaggi» non solo alla città, ma all'intera provincia.
L'idea che il porto potesse essere utile ai commercianti dell'intera provincia e che quindi la spesa dovesse essere ripartita veniva per altro condivisa e rafforzata nel 1851 dalla locale commissione del porto e del molo che aveva funzioni consultive e di controllo. La commissione, pur essendo un'articolazione dipendente dalla commissione centrale dei porti, riuniva le principali autorità locali: il comandante del porto, il capitano della piazza e il sindaco, esprimendo dunque una sensibilità istituzionale diffusa in città . La presa di posizione della commissione trovò, ancora una volta, l'opposizione dell'intendente . Al rifiuto del Comune si sommava quindi la mancanza di convergenza d'idee tra l'Intendenza da una parte e il Comando della piazza e la commissione del porto e del molo dall'altra. Il Decurionato sostenne invece con forza la richiesta di accesso alle risorse provinciali, vedendo in questa scelta un risarcimento alla perdita del ruolo di capovalle. Ma contemporaneamente, non avendo la forza di realizzare questo obiettivo, nei fatti bloccò ogni intervento strutturale sul porto. Nel complesso la sua posizione determinò una marginalizzazione della questione del porto all'interno delle politiche cittadine.
D'altronde la vita economica della città era basata prevalentemente sulla riscossione delle rendite agricole del notabilato e sull'attività artigianale posta a servizio delle truppe militari, mentre i vantaggi dell'attività del porto ricadevano prevalentemente sui mercanti delle città dell'entroterra che, approfittando del crescente sviluppò della rete stradale, lucravano sulla commercializzazione dei prodotti dell'agricoltura ricca. Il notabilato cittadino era connotato da un profilo socioprofessionale basato sulla rendita e sull'esercizio delle professioni liberali e la vita commerciale del porto era vissuta come sostanzialmente secondaria per l'economia urbana. In questo contesto, il rifiuto secco da parte dello Stato di garantire i privilegi del porto franco, di reintegrare i diritti negati e di assumersi integralmente le spese di costruzione della banchina spinse il Decurionato a una contrapposizione di principio tanto intransigente, quanto sterile, mentre l'obiettivo del miglioramento delle condizioni in- frastrutturali del porto andò progressivamente a collocarsi nei livelli medio bassi della gerarchia degli interessi della città. Ne conseguì che la cura (ovvero la manutenzione, il ripristino, l'ampliamento, l'infrastrutturazione) della banchina, luogo per eccellenza degli interessi marittimi, assunse progressivamente un'importanza secondaria nella vita economica dell'ente.
Nel giustificare il blocco di ogni spesa per la banchina, il Decu-rionato affiancava, come argomento complementare alla rivendicazione sui diritti aboliti, il fatto che tutti i fondi del Comune per le opere pubbliche (a esclusione di 1.000 ducati) erano stati impegnati nelle «opere di abbellimento» della fonte Aretusa che, tra progetto, lavori ed espropri delle case che la sovrastavano, ammontava a un costo di 4.236 ducati, tutti gravanti sul bilancio comunale . Tale cifra, detto per inciso, corrispondeva alla quota che l'autorità centrale richiedeva per la banchina. In effetti, tra l'agosto e l'ottobre del 1845, il Decurionato aveva impegnato quei fondi sul proprio bilancio, benché fosse possibile addebitarli al Ramo delle antichità, come per altro suggeriva l'intendente. Motivò questa scelta, assai gravosa per la finanza cittadina, con la necessità di «non frapporre ostacoli al [...] sollecito adempimento»  dei lavori necessari a ripristinare il decoro della città nei confronti sia degli abitanti che dei forestieri, poiché la fonte Aretusa era diventata spurgo delle concerie, lavatoio e abbeveratoio pubblico. Verso la fonte infatti, come si è visto, si erano spostate le attività indecorose che prima si svolgevano alla marina e che ora, attraverso l'opera di risanamento, si cercava di eliminare o di spostare ulteriormente (come nel caso delle lavandaie) nelle limitrofe concerie, luoghi chiusi, impermeabili all'occhio degli stranieri. Deliberava inoltre che l'investimento sulla fonte Aretusa dovesse «farsi a preferenza di qualunque opera pubblica comunale» . Emergeva con chiarezza che nella gerarchia delle priorità di spesa del bilancio comunale il Decurionato anteponeva le ragioni del decoro e del risanamento a quelle dell'infrastrutturazione commerciale del porto. Le spese per il risanamento, nonostante la disponibilità dello Stato ad assumersene l'onere finanziario, erano infatti caricate per intero nel bilancio comunale, mentre quelle per il porto, nonostante la possibilità di comparteciparvi insieme allo Stato, erano delegate per intero alla fiscalità generale, pur sapendo che questa scelta avrebbe bloccato la realizzazione delle opere. Il Decurionato mostrava così, con le sue deliberazioni, la progressiva marginalità che Vélite notabilare attribuiva agli interessi commerciali e la forte valenza di autolegittimazione che, di contro, accordava alle retoriche del decoro, alla valorizzazione dei luoghi simbolici, alla cura degli spazi di socialità. A partire dagli anni quaranta aumentarono infatti in modo significativo le spese per il decoro e la socialità della marina: fu costruito il palchetto musicale, fu impiantata la rete d'innaffiamento, fu attivato il servizio d'illuminazione a petrolio, si provvedette agli arredi, alla piantumazione della flora e al rifacimento del manto stradale .
Questa contrapposizione tra spese per i luoghi del commercio e spese per i luoghi del decoro risulta ancora più evidente nelle polemiche degli anni cinquanta, quando il Comune bloccò la realizzazione della banchina ogni qual volta il problema venne riproposto a causa di una violenta mareggiata o di incidenti dovuti al difficile attracco dei battelli o solo anche per la rovinosa caduta di un generale per una crepa nel selciato. Il Decurionato elaborò una precisa linea interpretativa sostenendo che come spese per gli spazi civili sopra acqua, che il rescritto del 1847 e la ministeriale del 1851 imponevano al Comune, dovessero intendersi solo quelle di rifacimento del selciato della marina e non quelle di ripristino della banchina di attracco. Le prime, che rientravano nelle competenze della commissione della flora ed erano quindi spese per il decoro, erano le uniche che spettavano al Comune, poiché venivano fruite direttamente dai cittadini di Siracusa. Le seconde invece, relative all'attività commerciale, spettavano alla provincia di Noto perché
l'uso della banchina, ossia del marciapiede, è più degli estranei anziché di questi comunisti, e [che] i guasti e le corruzioni che si osservano sono da attribuirsi non tanto ai colpi di mare quanto al continuo attrito delle gomene e delle catene e al continuo traffico che vi esercitano i commercianti di ogni paese [...] per tal riflesso risulta che l'utilità di essa banchina è altresì dei proprietari e negozianti della provincia come coloro che mandano le loro derrate in questa piazza per commerciarle con i diversi padroni dei navigli [...] tal operato commerciale essendo il più continuo e frequente fa conchiudere che i proprietari della provincia sono i veri che più direttamente fruiscono dell'utilità della banchina eziandio sono la cagione primaria dei danni che su di essa si arrecano37.
La teorizzazione di una netta distinzione tra gli interessi di Siracusa e quelli dei comuni dell'entroterra nei riguardi del porto evidenziava non solo una latente conflittualità, ma anche l'isolamento della città nei confronti del territorio circostante.
I conflitti territoriali e quelli di competenza bloccavano così la realizzazione dell'opera, da tutti riconosciuta urgente e necessaria, frantumavano lo spazio in base agli usi e alle giurisdizioni, lo definivano in base alle proiezioni culturali e politiche dei vari soggetti istituzionali e sociali, e così la marina, contesa da esigenze di protezione dei dispositivi militari, pratiche di commerci e transazioni, retoriche di decoro e spese per la socialità, restava immobile.


NOTE
' Assr, Intendenza borbonica, b. 863, Lettera dell'intendente al luogotenente generale della Sicilia, 30 agosto 1830; ivi si veda anche la Memoria sull'urgenza di attivare lo spurgo nel porto di Siracusa e riattivare almeno la banchina dove attraccano le piccole barche, 20 luglio 1830. Lo stato di degrado era già segnalato nel 1791 da T. Gargallo, Memorie patrie per lo ristoro di Siracusa, Napoli, Stamperia Reale, 1791. Gargallo, deprecando lo stato di abbandono del porto e la decadenza dei commerci, così scriveva: «Non abbiamo né caricatore, né negozianti, né magazzini, non ewi uno sito comodo per tirare a secco le navi, né artifici, calafati e macchine per ristorarle» (p. 147) e ancora «Non abbiamo banchine e tutto il lido è talmente rotto, che il mare si va sempre più avanzando, logorando la rada, cosicché i legni non possono accostarsi alla spiaggia, né spalmare, ond'è che gli stessi bastimenti reali corrono ad Augusta o a Messina e la città resta priva anche di questo vantaggio» (p. 148). Si ha notizia di un restauro della banchina nel 1792. Sui porti meridionali in periodo borbonico e in età moderna A. Buccaro, Opere pubbliche e tipologie urbane nel mezzogiorno preunitario, Napoli, Electa, 1992, pp. 33-105; G. Simoncini, Sopra i porti di mare. 3. Il Regno di Sicilia, Firenze, Olschki, 1995. Sul porto di Catania G. Pagnano, Il porto di Catania dal 1669 al 1874 e E. Iachello, Costruzione del porto e identità urbana a Catania, in A. Coco e E. Iachello, (a cura di), Il porto di Catania, storia e prospettive, Siracusa, Lombardi editori, 2003, pp. 83-138. Sul porto di Messina R. Battaglia, Porto e commercio a Messina nei rapporti dei consoli inglese, francese e piemontese (1840- 1880), Reggio Calabria, Editori Meridionali Riuniti, 1977.
Assr, Intendenza borbonica, b. 863. La prima lettera della Deputazione sanitaria marittima di 1° classe del porto di Siracusa all'intendente è del 13 novembre 1827. Ancora nel 1829 la Deputazione segnalava che la situazione non era stata risolta. Si vedano anche le lettere all'intendente della Deputazione del porto del 24 marzo del 1827 e del Comando generale della valle e della piazza del 14 aprile 1827.
' Ivi, Comando generale delle armi in Sicilia a intendente, 1 dicembre 1826 e Real segreteria all'intendente del 18 gennaio 1827. La cifra era stimata in 5.544 ducati, il 3 maggio 1827 la Real segreteria comunicava all'intendente che la cifra era messa a disposizione e che si stava procedendo alla gara d'appalto.
Ivi, Intendente di Siracusa alla Sotto direzione del genio della Piazza, 4 febbraio 1828.
Ivi, Sotto direzione del genio della Piazza a intendente di Siracusa, 19 novembre 1830.
Ivi, Appunto dell'intendente, senza data.
Ivi, Reale segreteria di stato all'intendente, 23 maggio 1831.
Ivi, il 9 febbraio 1832 la Reale segreteria comunicava che erano stati stanziati in bilancio le somme necessarie calcolate in 13.000 ducati, prelevate per una parte nel capitolo delle spese per i porti e per un'altra parte nel capitolo relativo alle fabbriche dei locali pubblici del Regno.
S. Privitera, Storia di Siracusa antica e moderna, Bologna, Forni, 1971, ristampa anastatica dell'edizione Napoli, tipografia già del Fibreno, 1879, voi. n, p. 325.
10 Assr, Decurionato, f. 2500, Per la riattazione della falsabraga della marina, 1827 e Intendenza borbonica, b. 855, Per il riattamento della strada della marina. Sul ruolo svolto dai processi di occultamento e spostamento delle attività indecorose nella produzione dello spazio e dei codici simbolici della cultura urbana si veda E. Iachello, Immagini della città. Idee della città. Città nella Sicilia (xvm-xix secolo), Catania, Maimone, 2000, pp. 134 e 142 ss.
11 Assr, Intendenza borbonica, b. 863, Comando generale delle armi all'intendente, 15 giugno 1837.
12 Ibid.
S. Russo, (a cura di), I moti del 1837 a Siracusa e la Sicilia degli anni Trenta, Siracusa, Ediprint, 1987.
Della proposta di porto franco o deposito di merci estere. Memoria da presentarsi al Consiglio di amministrazione de' dazi indiretti in Palermo, Palermo, Stamperia di Giovanni Pedone, 1841, ivi le citazioni a p. 1. Su questi temi si veda S. Russo, Città e cultura, Caltanissetta- Roma, Salvatore Sciascia editore, 1985, pp. 74-75 e S. Vinciguerra, L'isola costruita. Stato, economie, trasformazioni del territorio nella Sicilia borbonica, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia editore, 2002, pp. 69-72.
" delia proposta, cit., p. 11.
16 Iachello, Costruzione del porto e identità, cit.
17 Una serie di dati sul commercio del porto siracusano in R. Battaglia, Sicilia e Gran Bretagna. Le relazioni commerciali dalla Restaurazione all'Unità, Milano, Giuffrè, 1983, pp. 147- 152.
Assr, Intendenza borbonica, b. 2845, II direttore del corpo reale del Genio Gen. Salvatore Colucci al Generale Michele Galluzzo ispettore di artiglieria del Genio, 15 settembre 1849. Il direttore del Genio Colucci ricostruisce le vicende delle relazioni intercorse tra il 1846 e il 1848 tra il Genio e la Giunta dei porti nella produzione degli estimativi sulla banchina. Si veda inoltre Assr, Intendenza borbonica, b. 1723, f. 117, Lettera della Commissione del porto all'intendente, 27 aprile 1851, estimativo Lopez. Ivi anche la Lettera del sottintendente all'intendente, 9 ottobre 1859, estimativo Spagna.
Assr, Intendenza borbonica, b. 2845, Il direttore del corpo reale del Genio, cit.; Ispettore di artiglieria del Genio civile a direzione del Genio, 12 novembre 1849; inoltre, Direzione del Genio. Lavori nel porto. Quadro delle opere 1850.
Sulla produzione dello spazio come esito del confronto/scontro tra poteri urbani si veda il caso di Catania raccontato da Iachello, immagini della città, cit. In una prospettiva di storia amministrativa e culturale, C. D'Elia sottolinea come nel Regno borbonico le opere pubbliche «rappresentano un buon terreno di prova per cogliere la dinamica dei rapporti fra due concezioni differenti dello stato, la paternalista e la demiurgica». D'Elia legge inoltre il conflitto tra il centralismo burocratico e l'ideologia dell'autogoverno come il portato dello scontro tra le burocrazie statali e le nuove e le vecchie élites locali. Il tema del finanziamento e quello della gestione delle opere sono individuati come snodi centrale di questi conflitti; si veda C. D'Elia, Stato padre, stato demiurgo. I lavori pubblici nel Mezzogiorno (1815-1860), Bari, Edi- puglia, 1996.
Assr, Intendenza borbonica, b. 863, Ministro della Reale segreteria di stato a intendente, 3 dicembre 1843-, ibid., 27 febbraio 1842.
Assr, Delibere del Decurionato, 27 febbraio 1842.
Russo, (a cura di), I moti del 1837, cit.
Assr, Intendenza borbonica, b. 1723, Lettera della Commissione del porto all'intendente, 27 aprile 1851; ivi la prima notizia sul rescritto del 1847. Sul contrasto tra i due rescritti si veda la Lettera del sottintendente all'intendente 17 maggio 1851 e la Lettera della Commissione del porto all'intendente 21 luglio 1851.
Ivi, Il Ministro della Real segreteria di stato all'Intendente, 20 luglio 1852.
Assr, Intendenza borbonica, b. 863. La citazione è tratta dalla memoria del sindaco che il sottintendente invia all'intendente per motivare l'impossibilità del Comune di partecipare alla spesa.
Ivi, Real Segreteria di stato all'intendente, 26 maggio 1846.
Ivi, Luogotenenza generale a intendente, 31 agosto 1846.
Ivi, Sindaco a sottintendente-, la lettera riporta le decisioni prese dal Decurionato nella seduta dell'I 1 ottobre 1845.
Ivi, Intendente a Real Segreteria del Ministro degli affari interni, 16 settembre 1845-, inoltre Intendenza alla luogotenenza, 17 novembre 1845.
Ivi, Comando delle armi e Deputazione del porto e del molo a intendente, 17 ottobre 1845, ivi le citazioni.
Ivi, Luogotenenza all'intendente, 10 febbraio 1846.
Assr, Delibere del Decurionato, llottobre 1845.
Assr, Delibere del Decurionato, 3 agosto 1845.
Assr, Delibere del Decurionato, 11 ottobre 1845.
Nel 1842 furono stanziati 200 ducati annui per la manutenzione della flora, dell'illumi-nazione e degli arredi (Assr, Delibere del Decurionato, 27 febbraio 1842). Nel 1843, poiché «la flora della marina riesce di sommo gradimento di questa popolazione e dei forestieri e di gran¬de ornamento della città», si deliberò il rifacimento del manto stradale (Assr, Delibere del De-curionato, 12 febbraio 1843). Nel 1849 fu deliberata la costruzione del palchetto musicale (Assr, Decurionato, b. 2554), nel 1851 la condotta per l'innaffiamento della flora (Assr, Decurionato, b. 2560).
37 Assr, Intendenza borbonica, b. 1723, Delibera decurionale del4 novembre 1855.

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