Statella Vincenzo
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Vincenzo Statella, medaglia d’oro del risorgimento.
La via Vincenzo Statella non è nella zona ortigiana dedicata toponasticamente ai personaggi siracusani del Risorgimento. In Ortigia invece c’è la vecchia caserma dedicata a lui. Essa si trova, invece, in quella dedicata agli episodi, alle città e ai personaggi della Prima Guerra Mondiale, cioè alla borgata Santa Lucia: dai nn 22.24 di viale Luigi Cadorna ai nn 1.9 di via Gaetano Fuggetta, o Forgetta ( come scrive Emilio Bufardeci nella sua più volte città opera, “ Le funeste conseguenze di un pregiudizio popolare”, che doveva mantenere la radice italiana della parola, da forgia, e forgetta = piccola forgia, forse a indicare la focosità e la dinamicità di chi per primo ricevette quella “’gnuria” che poi per apofonia e assimilazione si è trasformata in Fuggetta) che è un altro personaggio, un soldato del 51° fanteria che fu decorato per l’eroismo dimostrato nella stessa Terza Guerra d’Indipendenza del 1866, che per l’esercito e la marina italiani fu un disastro, avendo ricevuto due terribili sconfitte : per terra a Custoza, e per mare a Lissa, il 24 giugno e il 21 luglio. Proprio dal Bufardeci attingiamo quasi tutte le notizie che pubblichiamo sull’eroico cavaliere Statella che perì eroicamente e che gli doveva essere particolarmente caro se espressamente dice: “ Nominando quest’ultimo diletto nome, un palpito di santo affetto ci ridesta alla memoria la sua sincera amicizia, e ci strappa dagli occhi amarissime lacrime”. Nacque da ottima famiglia nel 1828. Nel 1848, ad appena venti anni, aveva già parte- 62 cipato alla Prima Guerra d’Indipendenza distinguendosi per la fermezza del carattere e per il coraggio che dimostrava anche nei più gravi pericoli nei campi di battaglia. I genitori avevano cercato di dissuaderlo, desiderosi di farne un curiale e timorosi, anzi quasi presaghi, dei rischi che la vita militare e gli scontri in prima linea comportavano. Egli, incurante dei consigli e delle preoccupazioni paterne, insensibile alle offerte lusinghiere che i Borboni gli avevano fatto, di arruolarsi nel loro esercito, così come aveva fatto il padre, che era maresciallo ed aveva per questo potenti amicizie presso il Governo di Ferdinando II, si dedicò interamente alla causa dell’indipendenza italiana. L’amor di patria e l’eroismo di Vincenzo Statella Si era recato a Milano e a Venezia per combattere valorosamente contro gli Austriaci. Più volte aveva dimostrato il suo straordinario coraggio e l’assoluta noncuranza di fronte a qualsiasi pericolo, compiendo numerosi atti eroici. Fu anche aiutante di campo di Garibaldi quando l’eroe dei due mondi accorse a Roma, alla notizia che lì si era formato il triunvirato di Mazzini, Armellini e Saffi ed era stata proclamata la Repubblica Romana. E proprio a Roma, davanti alla porta San Pancrazio, combattendo contro i Francesi ( che erano venuti in aiuto del Papa, nel frattempo fuggito a Gaeta) era stato ferito ad una gamba. Caduta la Repubblica Romana, l’anima sua ( racconta il Bufardeci) era lacerata più da quel triste evento che dal suo dolore fisico e dalle privazioni che dovette affrontare per potere sottrarsi con la fuga dalle mani degli stranieri vincitori. Mentre Garibaldi si indirizzava verso il Veneto, nel tentativo di raggiungere Venezia, che ancora eroicamente, sotto la guida di Niccolò Tommaseo e Daniele Manin, resisteva agli Austriaci, egli si trascinava a stento, tra mille difficoltà e ancora sanguinante per la ferita ricevuta, fino a Torino, senza mezzi, senza conoscenze, smozzicando un tozzo di pane duro, che andava elemosinando come un mendicante presso i contadini delle campagne lombarde e piemontesi. Torino allora era l’unica meta dei proscritti di ogni regione italiana, essendo la capitale del regno sabaudo, l’unica regione che non fosse sotto il dominio diretto o indiretto degli Austriaci. Lì, infatti, si rifugiarono, dopo il 1849, tutti i liberali d’Italia, tra cui i siciliani Francesco Crispi, Giuseppe La Farina, l’aidonese Filippo Cordova, e- dal giugno 1852 - anche il nostro esimio concittadino, l’anima aretusea, assieme al Pancali, del movimento per la libertà della patria, Salvatore Chindemi, che aveva rinunciato all’inerzia dell’esilio di Malta e aveva deciso di ritornare ad operare per la causa dell’indipendenza . Il suo matrimonio, la morte del padre e il ritorno a Siracusa Conosciuta la contessina Ottavia Trabucco di Castagneto, un angiolo di fanciulla, cognata di uno dei suoi fratelli, figlia di Cesare, primo ministro del re Carlo Alberto, la condusse all’altare . Per mezzo della famiglia di lei e per le amicizie che aveva a Napoli il padre, costui ottenne che il figlio potesse tornare in Sicilia. Vincenzo, che nel frattempo aveva contratto parecchie amicizie tra gli esuli siciliani e tra tanti piemontesi liberali, non avrebbe voluto rientrare a Siracusa. Comunque, per fare contento il padre e pensando che in patria avrebbe potuto adoperarsi per liberarla dagli odiati Borboni, si decise a lasciare Torino. Riprese a Siracusa le vecchie amicizie e iniziò una silenziosa ma assidua e fervida opera presso i suoi concittadini, soprattutto fra i giovani, di esortazione ai valori ideali e al sen- 63 timento patrio, dimostrandosi anche generoso e umanitario verso coloro che soffrivano ed erano indigenti. Erano gli anni in cui gli italiani, rimasti amareggiati e delusi per la sconfitta subita da Carlo Alberto nella Prima Guerra d’Indipendenza, si preparavano alla riscossa. Questa sua opera di formazione della coscienza nazionale nella sua terra venne interrotta, quando, mortogli il padre nel 1854 e desiderando la sua giovane moglie ricongiungersi con i suoi , egli decise di lasciare nuovamente Siracusa, dove però tornò 3 anni dopo, con l’intenzione di offrire un valido apporto alla costituzione dei comitati di liberazione. E giunto a Siracusa, infatti, subito riallacciò le amicizie con i vecchi amici liberali e con il padre di tutti, il dinamico e focoso prete patriota Don Emilio Bufardeci che gli fu consigliere prezioso nel trovare un difficile, comune accordo con i liberali di Messina La sua azione al fianco di Giuseppe Garibaldi Si era giunti, frattanto, all’anno della rivincita, al 1859 e alle gloriose giornate di Solferino e San Martino. Egli aveva scritto a Giuseppe Garibaldi per chieder consiglio su dove dirigersi per offrire il suo contributo alla causa dell’indipendenza. Garibaldi gli aveva risposto suggerendogli di partire subito per trovarsi con lui in Lombardia. Gli spiacque molto, quando, appena giunto in Lombardia, prima di incontrare Garibaldi, che aveva ottenuto delle splendide vittorie a Varese e San Fermo, si avvide che Napoleone Terzo si era già accordato a Villafranca con gli Austriaci e che il conflitto era stato già sospeso, con la liberazione della sola Lombardia, lasciando ancora sotto il dominio austriaco le tre Venezie . Garibaldi lo mise al corrente del suo piano per liberare il regno delle due Sicilie dalla tirannia dei Borboni. Gli consigliò, comunque, di non tornare in Sicilia prima che vi fosse sbarcato con i suoi Infatti appena l’eroe sbarcò a Marsala con i Mille e giunse a Palermo, Vincenzo Statella lo raggiunse nella capitale siciliana con la missione di rappresentare il comitato di Siracusa. Da allora gli fu a fianco nelle numerose battaglie, a cominciare da quella memorabile di Milazzo, in cui salvò la vita a Garibaldi, accerchiato dai nemici e dove si distinse per il suo valore, fino al Volturno. Era al suo fianco quando a Teano Garibaldi si incontrò con Vittorio Emanuele II e gli sentì dire il famoso: “ Oggi saluto il re d’Italia!” Per il re galantuomo ebbe una particolare simpatia, tanto che, conclusasi l’impresa garibaldina con la liberazione del Regno delle due Sicilie e partitosi Garibaldi per Caprera, in Sardegna, egli accettò di passare all’esercito regolare italiano con il grado di tenente colonnello nel secondo Reggimento “ Granatieri di Sardegna, il più glorioso dell’esercito Piemontese. Riscosse la stima e l’ammirazione dei suoi subalterni e dei suoi generali; il Re ne contraccambiò la simpatia e lo definì “ il distinto ufficiale” egli conferì diversi riconoscimenti, tra cui la croce di cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e il grado di Ufficiale d’ordinanza del Re d’Italia. La Terza guerra d’indipendenza e la fine del glorioso ufficiale Pochi hanno nutrito tanto amore e si sono offerti con tanto spirito di sacrificio e di abnegazione quanto il nostro valoroso ufficiale Alessandro Statella. “ Iddio gli aveva elargito cuore perfetto- ci tramanda il Bufardeci- mente elevatissima; non disperò mai delle sorti della patria, non sentì mai odio per i tristi; attingeva conforto dai buoni; rinfrancava gli amici, e sempre col sorriso di una dolcezza ineffabile , come il sorriso del credente. Nobile, generoso, integro, onesto, istruito, leale, amico del popolo, protettore degli af- 64 flitti; in somma non c’era cittadina virtù che non si annidasse in quel cuore angelico. Una fra tutte era la passione predominante nell’anima sua: l’amore eccessivo per l’Italia” Fu questo amore eccessivo, questo santo amore, che lo spinse a sacrificare la vita durante la l’infelice, la sciagurata avventura della Terza guerra d’Indipendenza, quando proprio il comando italiano delle forze di terra e di mare, affidato al generale Marino e all’ammiraglio Persano, si coprì di vergogna. La gloriosa fine del nostro concittadino Vincenzo Statella e di tanti e tanti altri valorosi soldati italiani che combatterono valorosamente e persero la vita per l’incapacità e forse più per la discordia di chi li comandava, valse, almeno, a riscattare la dignità del nostro esercito. Egli, malgrado fosse stato ferito, continuava a lottare e ad esortare i compagni a lottare contro il nemico. Invano lo scongiuravano di ritirarsi per farsi fasciare le ferite; egli continuava a lottare e, quasi sfinito di forze, non cessava di animare i suoi gridando : “ Avanti, fratelli, avanti!” finchè fu travolto e massacrato dalle orde nemiche”. E qui don Emilio Bufardeci si lascia ad andare a delle frasi liriche per la morte di colui che considerava quasi un figlio, che ci dispiacerebbe non riferire: “Ci fosse stato concesso di leggere nel suo sguardo i pensieri, che in quel supremo istante agitavano l’anima sua! Chi sa se egli ricordavasi dell’amata sua consorte, dei teneri suoi figli, dei cari suoi congiunti, del suo intimo amico che piange e scrive! Però, certo l’estremo suo anelito fu consacrato alla patria, e forse l’anima sua volava a Dio profferendo gli stessi versi del Leopardi :< Alma terra natìa, la vita che mi desti, ecco ti rendo!> L’ignota fossa che racchiude la sua salma non potrà ricordare, con una lapide, ai venturi, lo eroe di Milazzo; ma questo amaro pianto ricorderà almeno ai congiunti e ai concittadini dello estinto che egli aveva sulla terra un amico, che conosceva ed apprezzava le sue virtù. Accogli, anima benedetta, questa pietosa rimembranza, questo mesto tributo di lagrime: esse, lo spero, ti renderanno meno funesta la notte dell’urna; la notte che spaventa coloro che vivono nel rimorso e nella negazione di Dio!”. Oltre che una via, Siracusa gli dedicò, in Piazza San Giuseppe, una caserma., nella cui facciata fu posta una grande lapide commemorativa. Ne fu fatto anche un mezzobusto in marmo, appartenuto prima a Bruno Martinez La Restia ora consegnato al Comando dei Carabinieri di Siracusa