Amorelli Giuseppe Vescovo - Personaggi storici 800 Siracusano

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
Personaggi storici
Vai ai contenuti

Amorelli Giuseppe Vescovo

A
Giuseppe Amorelli, Vescovo di Siracusa, nato a Sambuca, villaggio della Valle di Agrigento.
Fu ordinato sacerdote a Palermo, in seguito nominato Vicario a Catania, e poi Vescovo di Siracusa nel 1825 in successione del vescovo Filippo Trigona.


NEL PERIODO IN CUI A SIRACUSA VI FU IL COLERA, NEL 1837, CHE PROVOCO’ LA RIVOLTA CONTRO I BORBONI, VI FU UN VESCOVO… PESTIFERO. NON TUTTI I VESCOVI SIRACUSANI SONO STATI SANTI COME MARZIANO… Siracusa, città di Santa Lucia e di diversi altri santi, non sempre ha visto reggere la sua archidiocesi da prelati veramente degni della cattedra del primo suo vescovo, san Marziano… Mentre, dunque, nella toponomastica siracusana, troviamo i nomi di illustri uomini di chiesa, come don Emilio Bufardeci, il Privitera o il Logoteta, o i vescovi monsignor La Vecchia, e poi a mons. Bignami e mons. Carabelli, a mons. Ettore Baranzini, non troviamo quello del vescovo Amorelli, che fu il vescovo che resse l’archidiocesi aretusea in un periodo molto triste, come quello del colera del 1837 e della rivolta che a Siracusa scoppiò in seguito alla notizia che a diffondere il terribile morbo fossero individui mandati ad avvelenare il popolo dal Governo Borbonico. Intanto, proprio quando i fedeli della città aretusea, in una circostanza così grave, quale il colera e la sommossa, avevano maggior bisogno di assistenza spirituale , di consigli e di conforto da parte del proprio pastore, il vescovo Amorelli se ne stava lontano dalla sua sede, a Modica, dove si ebbero pochi casi di mortalità da colera e dove, se in un primo momento sembrò che si diffondesse la sommossa, che si diceva fosse scoppiata a Siracusa e a Catania, non avvenne nulla e tutto rimase tranquillamente sotto il più stretto controllo delle truppe borboniche.. 50 Il Vescovo Giuseppe Amorelli era nato a Sambuca, villaggio della Valle di Agrigento; era stato ordinato sacerdote a Palermo e poi era stato nominato Vicario a Catania., egli era succeduto al vescovo Filippo Trigona nel 1825, che era stato stimato per la sua santità e umiltà. Don Emilio Bufardeci nelle sue memorie storiche “Le funeste conseguenze d’un pregiudizio popolare” -Firenze tip. Eredi Botta, 1868- lo descrisse come “un uomo di grande ingegno, sociabile, scaltro, e nello stesso tempo ambizioso, violento e vendicativo, avido del potere, umile con i grandi dello Stato, orgoglioso e fiero con gli uguali e con gli infimi” Il colera ad Avola e la storia dei Di Maria, cognati del vescovo La sorella era andata in sposa al barone Di Maria, di Avola. E, siccome il proverbio dice espressamente “Non ti pratico se non ti assomiglio”, il cognato non era molto diverso da lui per il carattere. Infatti il barone Di Maria era odiato dal popolo per la sua durezza e per la maniera prepotente con cui trattava la gente, soprattutto gli operai, tanto che già prima del colera varie volte aveva corso il pericolo di essere ammazzato. Quando, poi, si manifestò il letale morbo anche ad Avola e si sparse il sospetto che ci fossero degli untori a propinare veleni, i primi sospetti caddero proprio sui fratelli del Di Maria, due monaci domenicani che erano giunti da Siracusa, dove si riteneva che vi fosse il focolaio degli… avvelenatori del popolo. Per prima, la rabbia della gente si riversò sui due fratelli dell’odiato barone, che furono presi dal convento di San Domenico per essere condotti alle prigioni. Mentre si stavano trascinando fuori del convento i due, ci fu chi si accorse che nella cella di un monaco vi era un canestro di farina con un pacchetto che conteneva estratto di pomodoro: non fu difficile dedurne che si trattasse di veleni! La gente prese quel canestro e quel pacchetto, e, trionfante come se fosse stata trovata effettivamente la causa del veneficio, l’andò a deporre davanti alla statua di Santa Venera, nella chiesa della protettrice di Avola. Come ciò non bastasse, la collera popolare trovò il pretesto per riversarsi sull’odiato barone Di Maria. Si ripetè la scena che il Manzoni ne “I promessi sposi” racconta sia avvenuta in simile occasione durante la peste di Milano. Solo che ad Avola il barone non fu trovato in casa e la gente si sfogò con il saccheggiare e il portar via tutto il ben di Dio che nella casa trovò; dopo di che la incendiò. Quindi tornò alle prigioni e trasse fuori i due fratelli del Di Maria, per far loro ingoiare quella roba che si riteneva veleno, pensando di trovare la prova del veneficio. I due monaci non diedero, però, alcun segno di avvelenamento, per cui si credette che essi avessero l’antidoto! Allora fecero mangiare quell’intruglio a un cane e attesero gli effetti letali. Ma il cane, dopo una mezz’ora, anziché stendersi morto, scodinzolava contento, come a chiedere altra grazia di Dio…. Allora il popolo, deluso, si decise a liberare i due monaci cognati del vescovo Amorelli. 51 L’animo vendicativo del vescovo Amorelli Il Bufardeci racconta che il vescovo Amorelli “mentre rinnegava per vile interesse la propria coscienza, il proprio dovere, mostravasi poi generosissimo quando trattavasi di compiere un progetto che egli con la sua fervida immaginazione aveva ideato”. Aveva un carattere eccessivamente autoritario e dispotico, non permetteva che alcuno lo contraddicesse, si trattasse di una persona umile che di un’altra di prestigio. Minacciava subito di ricorrere ai suoi potenti amici, sia religiosi, sia civili, sia militari, sia magistrati, addirittura a cardinali, al Re, al Papa, a seconda dell’importanza del suo avversario, per farla pagare cara a chiunque gli fosse antipatico o lo contraddicesse. E ciò otteneva anche inviando dei ricchi doni e dimostrando di essere servizievole a quelli più potenti di lui, come, ad esempio al supremo commissario Del Carretto, mandato dal Borbone a sedare nel sangue la rivolta siracusana. Uno degli episodi più significati dell’animo vendicativo del vescovo Amorelli fu quello quando egli indicò a Del Carretto l’abate Leva e i suoi amici tra i primi da processare e condannare. Siccome il processo andò per le lunghe e a poco a poco i giudici che dovevano esprimere la sentenza di condanna vennero trasferiti, coloro che li sostituirono ritennero di non doversi procedere contro l’abate Leva e i suoi compagni. Quando il vescovo Amorelli, che in quel mentre si trovava davanti a numerose persone notabili venne a sapere che quelli erano stati assolti, andò in bestia e se la prese con i giudici. Giunse a tale malvagità d’animo che quando gli fu fatto notare che non era stata trovata alcuna prova contro gli indiziati, egli ebbe cinicamente ad affermare: “Quando non ci sono elementi, nell’interesse dello Stato s’inventano!” Altro che carità cristiana e amore del pastore per le sue pecorelle! La miserevole fine del vescovo Amorelli L’amicizia che coltivava con i personaggi più potenti, sia della città, come il Conte Amarelli, della sua stessa famiglia (che era Sottindendente in Siracusa) sia di fuori e persino con il Re, e che sfruttava per il suo egoismo e la sua superbia, lo rendeva sempre più cattivo e prepotente. Egli osò addirittura inviare al Re Ferdinando II un lungo rapporto “nel quale deplorava la strage di Siracusa, lo attentato alla Corona, la stolta pertinacia dei ribelli, e ringraziava Iddio di avere ispirato nell’animo del Re la scelta dell’alto commissario, nella persona dell’eccellentissimo ministro Del Carretto, il quale era stato, per questa provincia “l’angiolo tutelare dei fedeli sudditi di Maestà Vostra”! (Emilio Bufardeci “Le funeste conseguenze di un pregiudizio popolare- Firenze 1868- pag.268) Ma il Signore non paga il sabato! Quando era al vertice della sua potenza e della sua infamia, ecco che la ruota della sua fortuna girò e lo capovolse. Il Re Ferdinando dovette aver sentore del pessimo comportamento di quel vescovo e si procurò il modo, con fine diplomazia, di mandarlo via da Siracusa, dove si rese conto che era fin troppo odiato. Finse di avere ricevuto una sua lettera in chi si evinceva il desiderio di voler cambiare aria… Così gli scrisse bellamente che lo voleva ospite nella casa religiosa fondata da 52 Sant’Alfonso dei Liguori, a Pagani! Strano che ad allontanarlo da Siracusa non fosse stato il Papa, bensì il re borbone!… Ma è ovvio che il comportamento di un vescovo, anche se è visto esclusivamente dal punto di vista religioso, ha sempre i suoi riflessi politici, essendo egli sempre un’autorità, per cui al Re borbone non dovette sfuggire l’inopportunità della presenza di quella persona in quella città, dove il suo modo di operare discreditava anche il suo potere. Quando il vescovo Amorelli ricevette quell’invito, che poi, in sostanza, riconosceva benissimo che era un ordine, capì chiaramente che si trattava di una punizione e che era un ordine a cui non poteva sottrarsi. Rimase perplesso e sconcertato; per poco non gli prese un colpo. Si vide completamente trasformato nell’aspetto esteriore, nella salute, nel carattere e finalmente la sua baldanza e la sua prepotenza si tramutarono in debolezza e accasciamento. Persino la vista gli si annebbiò e divenne cieco e macilento. Partì da Siracusa; ma non per andare in …ritiro spirituale a Pagani, bensì per chiedere clemenza al re Ferdinando II, affinché lo lasciasse morire, ormai distrutto e umiliato, ancora in carica, accanto ai suoi cari, a Siracusa. Anche in questo caso viene di fare un riferimento al Manzoni, quando nel suo capolavoro parla di Don Rodrigo ormai moribondo al lazzaretto, dove la sua superbia è svaporata ed è diventato un povero disgraziato degno di pietà. Il Re ebbe effettivamente pietà dello stato in cui in pochissimi giorni si era ridotto colui che aveva fatto piangere tanti cristiani anziché essere loro di sollievo; si fece commuovere dalle parole umili e sottomesse di quello che oramai era diventato cieco e tremolante e acconsentì alla sua preghiera di voler tornare a Siracusa, per morirvi. E si spense poco dopo il ritorno, proprio il giorno di Santa Lucia dello stesso 1840: anche la data della sua morte doveva avere un suo significato e doveva servire di monito a tutti i fedeli della sua archidiocesi e soprattutto a coloro che dovevano succedergli nell’arduo compito di attenti e amorevoli pastori delle anime. La sua morte per i liberali del tempo rappresentò la fine di un tiranno locale. La coincidenza di essa, poi, con la data della festa di Santa Lucia, se per alcuni fu indice di benefico segno per il defunto prelato, per altri fu la fortunosa liberazione voluta dalla pietosa Patrona verso il popolo stanco di soffrire. Dopo di lui il seggio episcopale a Siracusa rimase vuoto per più di 4 anni. Il giorno 31 agosto del 1845 venne a Siracusa come vescovo Manzo, che fu il primo arcivescovo “… e ciò – scrive Giuseppe Privitera in Memorie Siracusane- dopo sette secoli da che la Cattedra nostra, retta allora da Monsignor Lorenzo Veneger, veniva sciolta dalla dipendenza diretta della S. Sede ed assoggettata come suffraganea della nuova Metropolitana di Morreale”. Per quanto onesto e “pastore veramente modellato su la scuola di S. Filippo Neri e di S. Alfonso”, non venne amato perché troppo rigido; del resto rimase a Siracusa solo una mezza dozzina d’anni, dopo di che andò a Chieti. Al vescovo Amorelli, ovviamente, non è stata dedicata una strada né nell’ottica della toponomastica che riguarda i grandi siracusani del Risorgimento, né altrove. Il sarcofago che conserva le sue spoglie è nella Cappella del SS Crocefisso nella chiesa metropolitana, accanto al mausoleo del Vescovo Capobianco, che prima era nella Chiesa del SS Salvatore, il Reclusorio delle suore Teresiane, e che fu fatto trasportare nel duomo proprio dal vescovo più santo di quei tempi: mons. B. La Vecchia.
Torna ai contenuti