Mazzocchetti Gian battista
Racconti memorie
Mazzocchetti Battista Stavamo mangiando e la mensa me la ricordo sotto il livello stradale. Quel giorno ero riuscito ad avere il fatidico coscio di pollo ma purtroppo nel frattempo l'acqua invase i locali. Noi tutti con la massima velocita' scappammo verso ai piani alti. Non ricordo bene se al secondo o terzo piano. Ero alla 9^ Compagnia e di lassu' vedemmo la catastrofe che si stava espandendo in tutte le strade. Quel giorno, (Festa delle forze armate) dovevamo dare una dimostrazione di difesa personale ai cittadini in visita alle caserma. Facevo parte della squadra di judo della scuola. Sto cercando di ritrovare alcune foto dell'epoca.
CRONACA DI UNA MEDAGLIA - ovvero
MEMORIE INDELEBILI DEL MIO SERVIZIO NELL’ARMA
Partii immediatamente. Mi precipitai lungo le scale ed andai a quell’uscita, il cui pianerottolo era situato in posizione lievemente rialzata rispetto alla sede stradale.Firenze, 4 novembre 1966 (di Battista Mazzocchetti)
Nell’autunno del 1966, ventiduenne, stavo frequentando il secondo anno del 59° corso sottufficiali carabinieri, presso la Scuola di Firenze, sita in Piazzale della Stazione (denominata caserma “Mameli”) ed ero proveniente dalla sede distaccata di Moncalieri, dove avevo frequentato il primo dei due anni previsti.
Lo storico edificio era l’antico monastero della Santissima Concezione, le cui imponenti dimensioni erano state integrate e connesse con una parte del cinquecentesco Convento e della Chiesa dei Padri Domenicani di “Santa Maria Novella”, dal quale si accedeva direttamente all’omonima stazione ferroviaria.
A distanza di quasi 49 anni, vorrei ricordare e raccontare quello che mi successe il 4 novembre di quell’anno, quando vissi una giornata tra le più avventurose e pericolose, ma altamente gratificanti, della mia vita di Carabiniere.
Il giorno prima, vale a dire il 3 novembre 1966, le notizie radiotelevisive si susseguivano incessantemente, allarmando tutte le zone interessate dall’Arno, ed in particolar modo la città di Firenze, per le incessanti piogge che avrebbero potuto provocare straripamenti del fiume. Eravamo in ansia e così anche i nostri familiari a casa, che trepidavano per noi. Non era facile comunicare con loro, in quanto non tutti avevamo il telefono in casa.
Il 4, che era la festa delle Forze Armate, io, facendo parte della squadra di judo della Scuola, avrei dovuto partecipare, con tutta la squadra, ad una dimostrazione di difesa personale a beneficio dei cittadini che sarebbero venuti in visita alla caserma. Come noto, quel giorno vigeva il libero accesso alle caserme. Era un’opportunità per rinsaldare ancor più il legame tra le istituzioni e la cittadinanza.
Purtroppo la situazione climatica era peggiorata e le cerimonie commemorative della Vittoria e dei Caduti di tutte le Guerre furono annullate. Così pure le visite nelle caserme.
Le strade cominciavano ad allagarsi, perciò fu dato ordine di indossare la tuta mimetica e gli anfibi, in modo da essere pronti a fronteggiare eventuali emergenze, per le quali poteva essere richiesto il nostro intervento, in quanto eravamo considerati Forze di Protezione civile (anche se tale Organismo non era stato ancora istituzionalizzato).
Alle 12,30 circa, andammo comunque in mensa. Era una bellissima sala di pregevole architettura, con due filari di colonne.
Il pranzo iniziò regolarmente. Come secondo piatto di portata c’era il pollo. Succedeva spesso (tra di noi allievi) che che facevamo a gare per accaparrarci la parte del pennuto con la coscia. Quel giorno io fui fortunato e riuscii ad averne una
All’improvviso, il vociare di quella sala, situata sotto il livello della strada, si alzò di colpo. L’acqua aveva cominciato ad invaderci, scorrendo giù dai gradini. I sacchetti di sabbia, precedentemente posizionati davanti agli accessi, si rivelarono insufficienti.
Preoccupati per l’aggravarsi della situazione, abbandonammo la mensa alla svelta e salimmo ai piani superiori, dove c’erano le camerate. Eravamo, come si suole dire, giovani e forti, ma impotenti e privi di mezzi di fronte allo scatenarsi delle forze della Natura. Il nostro animo giovanile e spensierato fantasticava sulle possibili conseguenze.
Dalle finestre che davano su via della Scala seguivamo il corso dell’evento, il cui panorama era davvero preoccupante: il cielo plumbeo e le strade fiumane impetuose. L’acqua scura e melmosa, trasportava anche grossi oggetti solidi, evidentemente raccolti nelle cantine, garage e locali vari dei seminterrati.
Il livello si faceva sempre più alto. Ormai era arrivato all’altezza della targhetta recante il numero civico e copriva le auto in sosta quant’altro vi fosse alla medesima altezza. Emergevano solo i pali dei segnali stradali. Lo scenario appariva apocalittico.
Intorno alle ore quattordici, da persone affacciate alle finestre degli edifici opposti all’entrata secondaria della Scuola (che dava in via della Scala), all’altezza di una via laterale, che seppi dopo chiamarsi via Cagnacci, giungevano grida concitate.
In un primo tempo non si comprese il loro senso, poi, guardando bene in basso, si capì che quelle grida volevano attirare l’attenzione su di uomo immerso nella fiumana, il quale, tenendosi aggrappato ad un portone, chiedeva disperatamente aiuto. Si capiva bene che da solo non se la sarebbe cavata. Infatti, era anziano ed era evidente che non sapeva nuotare. Era cosciente quindi di trovarsi in una situazione di imminente pericolo di vita.
A quella vista, ebbi un impulso di solidarietà. Il senso interiore del dovere m’impose di muovermi e cercare di fare qualcosa per lui.
Nell’autunno del 1966, ventiduenne, stavo frequentando il secondo anno del 59° corso sottufficiali carabinieri, presso la Scuola di Firenze, sita in Piazzale della Stazione (denominata caserma “Mameli”) ed ero proveniente dalla sede distaccata di Moncalieri, dove avevo frequentato il primo dei due anni previsti.
Lo storico edificio era l’antico monastero della Santissima Concezione, le cui imponenti dimensioni erano state integrate e connesse con una parte del cinquecentesco Convento e della Chiesa dei Padri Domenicani di “Santa Maria Novella”, dal quale si accedeva direttamente all’omonima stazione ferroviaria.
A distanza di quasi 49 anni, vorrei ricordare e raccontare quello che mi successe il 4 novembre di quell’anno, quando vissi una giornata tra le più avventurose e pericolose, ma altamente gratificanti, della mia vita di Carabiniere.
Il giorno prima, vale a dire il 3 novembre 1966, le notizie radiotelevisive si susseguivano incessantemente, allarmando tutte le zone interessate dall’Arno, ed in particolar modo la città di Firenze, per le incessanti piogge che avrebbero potuto provocare straripamenti del fiume. Eravamo in ansia e così anche i nostri familiari a casa, che trepidavano per noi. Non era facile comunicare con loro, in quanto non tutti avevamo il telefono in casa.
Il 4, che era la festa delle Forze Armate, io, facendo parte della squadra di judo della Scuola, avrei dovuto partecipare, con tutta la squadra, ad una dimostrazione di difesa personale a beneficio dei cittadini che sarebbero venuti in visita alla caserma. Come noto, quel giorno vigeva il libero accesso alle caserme. Era un’opportunità per rinsaldare ancor più il legame tra le istituzioni e la cittadinanza.
Purtroppo la situazione climatica era peggiorata e le cerimonie commemorative della Vittoria e dei Caduti di tutte le Guerre furono annullate. Così pure le visite nelle caserme.
Le strade cominciavano ad allagarsi, perciò fu dato ordine di indossare la tuta mimetica e gli anfibi, in modo da essere pronti a fronteggiare eventuali emergenze, per le quali poteva essere richiesto il nostro intervento, in quanto eravamo considerati Forze di Protezione civile (anche se tale Organismo non era stato ancora istituzionalizzato).
Alle 12,30 circa, andammo comunque in mensa. Era una bellissima sala di pregevole architettura, con due filari di colonne.
Il pranzo iniziò regolarmente. Come secondo piatto di portata c’era il pollo. Succedeva spesso (tra di noi allievi) che che facevamo a gare per accaparrarci la parte del pennuto con la coscia. Quel giorno io fui fortunato e riuscii ad averne una
All’improvviso, il vociare di quella sala, situata sotto il livello della strada, si alzò di colpo. L’acqua aveva cominciato ad invaderci, scorrendo giù dai gradini. I sacchetti di sabbia, precedentemente posizionati davanti agli accessi, si rivelarono insufficienti.
Preoccupati per l’aggravarsi della situazione, abbandonammo la mensa alla svelta e salimmo ai piani superiori, dove c’erano le camerate. Eravamo, come si suole dire, giovani e forti, ma impotenti e privi di mezzi di fronte allo scatenarsi delle forze della Natura. Il nostro animo giovanile e spensierato fantasticava sulle possibili conseguenze.
Dalle finestre che davano su via della Scala seguivamo il corso dell’evento, il cui panorama era davvero preoccupante: il cielo plumbeo e le strade fiumane impetuose. L’acqua scura e melmosa, trasportava anche grossi oggetti solidi, evidentemente raccolti nelle cantine, garage e locali vari dei seminterrati.
Il livello si faceva sempre più alto. Ormai era arrivato all’altezza della targhetta recante il numero civico e copriva le auto in sosta quant’altro vi fosse alla medesima altezza. Emergevano solo i pali dei segnali stradali. Lo scenario appariva apocalittico.
Intorno alle ore quattordici, da persone affacciate alle finestre degli edifici opposti all’entrata secondaria della Scuola (che dava in via della Scala), all’altezza di una via laterale, che seppi dopo chiamarsi via Cagnacci, giungevano grida concitate.
In un primo tempo non si comprese il loro senso, poi, guardando bene in basso, si capì che quelle grida volevano attirare l’attenzione su di uomo immerso nella fiumana, il quale, tenendosi aggrappato ad un portone, chiedeva disperatamente aiuto. Si capiva bene che da solo non se la sarebbe cavata. Infatti, era anziano ed era evidente che non sapeva nuotare. Era cosciente quindi di trovarsi in una situazione di imminente pericolo di vita.
A quella vista, ebbi un impulso di solidarietà. Il senso interiore del dovere m’impose di muovermi e cercare di fare qualcosa per lui.
Vi trovai il Colonnello comandante, Mario SERCHI, e il maggiore Onorio TESI,con carica di “aiutante maggiore”, ai quali riferii della mia intenzione di portare aiuto a quella persona. Mi sconsigliarono per il grave pericolo a cui andavo incontro, anche perché, avendo pranzato da poco, correvo anche il rischio di un blocco della digestione. Insomma, secondo loro, sarei andato incontro ad un sicuro pericolo di vita. Ma io risposi che avevo mangiato ben poco e, quindi, sotto quell’aspetto non avrei corso grandi pericoli.
Il giovanile fervore, la prestanza fisica e l’esperienza di nuotatore mi indussero a ignorare ogni loro raccomandazione, sicché decisi di intervenire immediatamente.
Puntai esclusivamente alla salvezza di quell’uomo, del quale continuavano a giungere invocazioni d’aiuto. Invocazioni che erano urla strazianti per le mie orecchie.
Vedendomi così determinato e rassicurati dalle mie parole, entrambi (Comandante e Aiutante maggiore) acconsentirono a che il mio desiderio fosse esaudito, per cui diedero ordine di aprire quel portone. Prima però, vista la forte corrente, mi annodarono intorno ai fianchi una fune, per potermi recuperare qualora si fosse reso necessario.
Lì, a quel portone, coadiuvarono anche altri militari dei quali però non ricordo i nomi.
Mi immersi in quell’acqua sporca, gelida e putrida, ma per me era come stare in mare fuori stagione. Cercai subito di attraversare, puntando in modo diretto verso l’obiettivo. Praticamente, in lieve diagonale, controcorrente, cercando di contrastare la forza dell’acqua sfoderando bracciate poderose. Ero ormai vicino e riuscivo solo a intravederlo quell’uomo in pena, un uomo che non aveva via di scampo. Ero arrivato quasi a toccare lo spigolo di via Cagnacci, quando la corrente si fece di colpo più impetuosa e mi allontanò di qualche metro, trascinandomi con se lungo la Via della Scala. Lì per lì, mi fu difficile recuperare la posizione raggiunta, per cui, aiutandomi un po’ con la corda e un po’ assistito dalla fortuna, riuscii a tornare indietro, riparando nel portone donde ero uscito .
Ma non mi diedi per vinto. Raccolsi nuovamente le forze e riprovai, usando però l’accorgimento di costeggiare dapprima il muro dell’edificio della nostra Scuola, controcorrente. Mi tenevo aggrappato alle inferriate delle finestre, alle maniglie dei portoni e alle propaggini varie del muro. Quando ebbi superato di poco l’altezza in cui, dall’altra parte, all’inizio di via Cagnacci si trovava il naufrago, mi tuffai. L’’intento era di attraversare nuotando in lievissimo favore di corrente, la quale nel frattempo era diventata ancora più violenta e quindi, trascinandomi, rendeva obliqua la mia direzione
La tecnica adottata ebbe successo. Avevo attraversato, ma all’uomo non ero ancora arrivato. Per giunta, mi accorsi di non avere più la corda legata in vita. Nell’attraversamento, si era slegata da sola. Significava che, da quel momento, non ero più soccorribile. Senza ancoraggio alcuno, dovevo fare affidamento solo su me stesso e sull’aiuto del buon Dio..
Mi ritrovai idealmente come in un’arena, o per meglio dire in un campo di pallacanestro (prima di entrare nell’Arma giocavo a basket nella “Robur” di Ravenna) dove, in termini sportivi, si usava dire: “un giocatore in più in campo”, costituito appunto dagl’incitamenti del pubblico.
In effetti, avvertivo le grida provenienti dalle finestre trasformarsi in sostegno molto forte. Mi sentivo come in uno stadio ideale, con l’incitamento del pubblico sugli spalti ad infondendomi energie nuove. Ne percepivo l’effetto galvanizzante, che mi spingeva a mettere la palla nel canestro… e quell’uomo nelle condizioni di sicurezza.
Il percorso dunque era stato abbastanza lungo e pieno di pericoli. L’acqua, con la sua violenza, aveva già creato notevoli danni. Le autovetture ormai schizzavano via, trasportate dalla corrente. Per il mio avvicinamento a nuoto, costituivano un grosso pericolo simile a quello dalle navi in un mare di iceberg vaganti. Arrivavano in velocità. e dovevo avere quattro occhi per evitare che mi piombassero addosso. Le altre, che restavano ferme, erano già interamente sommerse e proprio perché non visibili avrebbero potuto procurarmi dei guai seri agli arti inferiori, per cui fui costretto ad avanzare nuotando a pelo d’acqua. Ma più che acqua, si trattava di putridume, che richiese un ulteriore sforzo affinché non ne inghiottissi neanche una goccia. Inoltre, in quella via Cagnacci, traversa di via della Scala, grande attenzione dovevo fare anche alle sporgenze taglienti di alcune saracinesche, già in parte scardinate dalla corrente.
Ma io, galvanizzato dagl’incitamenti degli “spettatori”, ero ormai prossimo a “fare canestro”. Il percepire la presenza di un pubblico, a cui ero avvezzo, mi fu di grande aiuto psicologico e furono fonte di indicazioni e avvertimenti utili ad evitare di scontrarmi con ulteriori oggetti vaganti di ogni genere. In particolare, un grosso bidone metallico, del tipo usato per il trasporto di carburanti, che riuscii a schivare per un pelo, proprio grazie a tali grida.
Ad un certo punto però dovetti fermarmi un attimo::dovevo riprendere fiato. Lo feci afferrando saldamente ad un palo di sostegno dei cartelli stradali. Girai lo sguardo dietro di me e vidi il Colonnello Mario SERCHI, comandante della Scuola, che a sua volta si era gettato per portarmi aiuto e che, evidentemente, si era mosso lungo lo stesso percorso che avevo seguito io. Anche lui si fermò lì, per prendere fiato. Mi chiese se gli potevo togliere i pesanti stivali che indossava e che gli impedivano di avere un buon galleggiamento. L’operazione si mostrò non semplice perché dovevo anche tenermi stretto al palo, se non volevo essere portato via dalla corrente. Fu per me un aggravio di fatica, ma rimasi soddisfatto per essere stato utile.
Nonostante la posizione precaria in cui avevo operato, tutto andò per il meglio ed io potei riprendere a nuotare: l’uomo da salvare stava poco più avanti.
Lo raggiunsi appena in tempo. Era anziano e allo stremo delle forze. Gli misi un braccio intorno al torace e provai ad afferrare delle corde che mi venivano lanciate dalle finestre. Ma tutti i tentativi andarono a vuoto. Dovetti rinunziarvi.
Più avanti, sempre da una finestra, non so di quale piano, alcune persone mi indicavano di andare sotto di loro. Io, continuando a sorreggere sotto al braccio quell’uomo, avanzai ancora di una decina di metri. Quindi, mi fermai attaccandomi alla volta in ferro di un portone aperto. Capii che qualcuno sarebbe sceso per aiutarmi. Nel frattempo, quella persona perse i sensi, ma riuscivo ugualmente a tenerlo ben saldo a galla.
Portai l’anziano verso le scale di quel condominio e, faticosamente, lo affidai ad un signore che era sceso per venirmi effettivamente in aiuto, il quale se ne prese cura.
Subito dopo, il mio pensiero andò al colonnello che avevo lasciato al palo della segnaletica stradale e che non avevo più visto. Riattraversai l’atrio e lo vidi arrivare, come si suole dire, “a palla di schioppo”. Anche lui era allo stremo delle forze. Poteva soccombere da un momento all’altro, perché la corrente si era fatta ancora più violenta.
Mi distesi a bandiera e riuscii ad agganciarlo e a tirarlo a me.
Insieme e a fatica riuscimmo a raggiungere le scale e andare su. Eravamo salvi. Seppi dopo dallo stesso colonnello che, proprio a causa della violenza della corrente, non riusciva a liberarsi dal palo a cui era avvinghiato. Questo perché la la forza dell’acqua contrastava e annullava la sua di forza, usata per svincolare il braccio dal palo intorno al quale si reggeva.
L’operazione di salvataggio, all’uscita dal portone della Scuola, prevedeva il ritorno in caserma.
Invece, fummo costretti a riparare nell’appartamento di quel signore a cui avevo affidato la persona salvata.
Si trattava di due coniugi di mezza età, di cui non ricordo i nomi, iquali ci accolsero con calore. Molto gentilmente si diedero subito da fare, per fornirci asciugamani ed abiti asciutti.
Io fui abbastanza fortunato in quanto ottenni un paio di pantaloni di velluto marrone ed un maglione di lana verde. Il colonnello invece, date le sue misure un po’ abbondanti, si dovette accontentare di un pigiama della donna.
Eravamo infreddoliti ed alcune bevande calde furono provvidenziali. Da un punto molto in alto, sull’imbrunire, la visione era di un torrente in piena, vorticoso, di colore grigio e marrone, segno della presenza di melma e putridume. Fu allora che mi resi conto della realtà in cui mi ero mosso, meravigliato di come ci ero riuscito. Mi convinsi che ognuno di noi ha davvero accanto a se il proprio angelo custode…
Non potendo quindi tornare subito in caserma, fummo rifocillati con qualche scatola di tonno e un po’ di pane, mentre la radio confermava notizie non proprio rassicuranti. Infine, accettammo di buon grado l’invito a fermarci lì per la notte.
I padroni di casa ci misero a disposizione il loro letto matrimoniale, nell’unica stanza disponibile, e noi ci arrangiammo giacendo io a sinistra, il colonnello a destra e il “naufrago”, che rivelò essere un vetturino di piazza, in mezzo.
Quest’ultimo era in uno stato di forte d’ansia, per la sorte del suo cavallo rimasto nella stalla, lì sotto.
Il riposo non fu tranquillo in quanto quell’uomo, con un saltello, scendeva spesso dal letto e andava giù a vedere se il livello del acqua gli consentiva di tornare dal suo animale. Al risveglio mattutino, constatammo che l’acqua era defluita vistosamente. Potevamo rientrare.
Il vetturino si profuse in mille ringraziamenti nei miei confronti. Altri ringraziamenti li rivolse al colonnello per la sua partecipazione, anche se non determinante, poi, con addosso gli stessi abiti di emergenza con cui ci trovavamo, uscimmo da quel provvidenziale approdo.
Il manto stradale era coperto da 20-30 centimetri di fango e detriti vari. Tutt’intorno era evidente la grande devastazione.
Dopo un tratto di un centinaio di metri, sbucammo in Via della Scala e, costeggiando l’edificio della caserma, superammo una piccola salita dove ci trovammo nel piazzale della Stazione, davanti all’ingresso della Scuola.
In quelle condizioni, non riconoscibili, la sentinella, che era ignara di tutto, ci intimò l’alt. Il colonnello, ancora in forte stress emotivo, rimase contrariato da quell’atto, che gli sembrò di lesa maestà. Fu comunque costretto a farsi riconoscere, cosa che fece con durezza.
La sentinella si irrigidì sull’attenti, fece il suo preṡentat arm e noi entrammo, avviandoci ognuno nei rispettivi alloggi.
Seppi poi che, in caserma, non vedendoci tornare, ci avevano dati per dispersi. Ciò poteva anche essere successa, data l’impetuosità dell’acqua. In realtà, la mancata comunicazione dell’epilogo di quell’avventura, fu dovuta all’indisponibilità di un telefono.
Dal terrazzino della Scuola che si affacciava su via della Scala, il cappellano militare, alla presenza del maggiore Tesi, aveva impartito la sua benedizione, recitando anche un Requiem Æternam per noi.
Invece, il seguito fu che Colonnello diede incarico al Comandante del 2° Battaglione di esperire le dovute indagini e raccogliere tutte le testimonianze per evidenziare il mio (e il suo) gesto da lui definito -senza esitazione- “eroico” e, di conseguenza, proporci per un meritato riconoscimento adeguato.
Nei casi di scarso o di nessun clamore del fatto eroico, è necessario il coinvolgimento di personaggi noti o di alti gradi militari, i quali, dando maggior lustro all’azione, contribuiscono alla più larga diffusione della notizia e ne elevano il valore al giusto livello.
Questa vicenda infatti, che vede protagonista un semplice allievo sottufficiale dei Carabinieri quale io ero, rientra proprio tra questa ipotesi. Il valore del mio gesto non avrebbe avuto la giusta considerazione e il giusto riconoscimento se non vi fosse stata la partecipazione del Colonnello, per giunta, Comandante della Scuola.
Forse tanti altri fatti eroici e di grande abnegazione si saranno verificati quel giorno, o in quel periodo, ad opera di colleghi e cittadini comuni, che però sono rimasti nell’ombra.
Tale mi pare il caso del collega Salvatore Raga,portò in salvo sul Piazzale della Stazione una coppia di sposi, di cui solo ora vengo conoscenza.
A loro deve andare la nostra ammirazione e un nostro doveroso pensiero.
Come prima attestazione di merito, il 16 febbraio 1967, mi fu concesso un encomio solenne da parte del Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Generale di corpo d’Armata Carlo CIGLIERI (1/2/66 – 25/2/1968).
Successivamente, lo stesso Comandante venne in visita alla Scuola, arrivando fin nella la mia camerata per congratularsi personalmente con me. Ero in grande uniforme e così sono stato immortalato sul nostro “Numero unico”. Ero anche fortemente emozionato.
Tutti noi della Scuola contribuimmo attivamente, giorno e notte, a dare una mano per risollevare la città da quella marea di fango. Fummo particolarmente impegnati: in pattugliamenti anti sciacallaggio e al recupero di opere d’arte, mobili e suppellettili vari all’interno della Scuola stessa e nelle adiacenze della Basilica di Santa Maria Novella. Ma fummo anche impegnati nel mantenimento dell’ordine pubblico e del regolare svolgersi di tutte le attività di emergenza messe in atto per ripristinare lo status quo ante.
A me e al Colonnello Comandante, il 20 gennaio del 1968, con atto n.4565 del Ministro dell’Interno, fu concessa la Medaglia d’Argento al Valor Civile. Le due medaglie recavano quasi la medesima motivazione. L’unica differenza stava (e sta) nella frase “con l’aiuto di un superiore”, nella mia, e “con l’aiuto di un allievo”, nella sua.
Purtroppo però, tale onorificenza a me venne consegnata in forma privata, a Roma, presso il Comando di Gruppo Carabinieri “San Lorenzo in Lucina”, alla presenza del solo Comandante e di due marescialli.
Al Colonnello invece fu consegnata in forma solenne, in occasione della festa dell’Arma del 5 giugno 1968, dal Comandante Generale.
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Sono particolarmente lieto e riconoscente all’amico e collega Liberatore-Francesco MEMOLI, il quale, oggi, quando stiamo per celebrare il Cinquantenario di quell’evento, dichiara e conferma di essere stato testimone oculare di quel mio gesto, avendo lui seguito tutto il visibile mentre era affacciato ad una finestra della settima compagnia, alla quale apparteneva. Oggi, lo stesso amico e collega Memoli (con l’aiuto di altri colleghi) dedica tanta energia ed entusiasmo nell’organizzare, con molta professionalità e sentimenti, questo Raduno del 50° anniversario di quell’alluvione.
Sono altrettanto felice di aver avuto l’opportunità, a distanza di 48 anni, di parlare con il Colonnello (diventato poi Generale di corpo d’armata in pensione) Mario SERCHI, allora comandante della Scuola, della nostra avventura. Mi ha ricordato, alla sua veneranda età di quasi 96 anni, di aver dormito assieme, riconoscendo, con grande onestà intellettuale, che il successo dell’operazione è da imputare a me, per almeno un buon ottanta per cento.
Come ultima considerazione personale su quell’esperienza, voglio ricordare come essa mi ha maturato nell’animo e nel cuore. Assistere ai danni immensi subìti da persone e cose, negozi e botteghe aventi un notevolissimo patrimonio artistico mi ha addolorato e insegnato a valorizzare ogni pur minima realtà e a rapportarmi con le persone in un modo diverso, con più altruismo.
Il dispiacere profondo da me provato per la perdita di documenti storici e di opere artistiche di rilievo mondiale che Firenze conservava fu in parte lenito dal fatto che, larga parte di tale patrimonio e disperso, fu recuperato grazie, al prezioso aiuto di tanti giovani provenienti da ogni parte del mondo denominati “angeli del fango” e come tali passati alla Storia.
Per tali attività, il Ministero della Difesa concesse a tutti noi, vent’anni dopo, un attestato di pubblica Benemerenza.
Nella comune disgrazia si diventa più buoni e più caritatevoli e si tende all’aiuto reciproco mettendo da parte le invidie, i rancori e risentimenti vari.
Ostia Lido (Roma) 01 marzo 2015.
S.Ten dei Carabinieri in congedo
Battista Mazzocchetti
Presidente della Sezione A.N.C. di Roma-Ostia Lido
ALLEGATI:
• Attestato di Medaglia d’Argento al valor civile
• Encomio solenne.
• Attestato di benemerenza