la forma
LA FORMA
Plutarco, nel raccontare la disavventura siciliana di Nicia, ha per principale modello Tucidide che egli definisce tra tutti i narratori di quegli eventi il più drammatico, il più evidente, il più colorito1. E più avanti, nel descrivere la comparsa davanti ai porti di Siracusa dell'armata navale di Demostene, splendida e terribile, lucente d'armi e d'insegne, piena di capivoga e di flautisti che davano la voce e il ritmo alla remata, non trova da usare altra espressione che quella di un "esercizio teatrale"2. Dove "teatrale" non vale tanto per la volontà dei protagonisti quanto per l'efficacia del modello narrativo tucididèo. E infatti il racconto della spedizione ateniese in Sicilia, quale leggiamo nei due libri di Tucidide, si svolge secondo un ritmo che sembra ripetere anche nella forma quello di un testo tragico. Non che Tucidide abbia voluto imitare questa o quella tragèdia del suo tempo (anche se analogie, come vedremo, non mancano), ma certo al genere tragico, quale sulle scene ateniesi aveva trovato corpo sostanzioso come espressione paradigmatica di un ordine (o disordine) delle cose umane, a quello sembra ispirarsi e uniformarsi. Il racconto infatti si scandisce in tre parti ben distinguibili, quasi tre drammi, aventi ciascuno un tema preciso, e tutti insieme, in un ritmo serrato e incalzante, volti ad un'unica situazione finale catastrofica. Inoltre dà risalto e vitalità al racconto lo studiato e pressoché regolare inserimento nella narrazione dei vari momenti, in cui l'azione si scandisce, di discorsi esposti direttamente o di episodi apparentemente estranei al diretto svolgersi degli avvenimenti o di pause riflessive dello stesso autore, elementi tutti questi atti a creare una alternanza drammatica di chiaroscuri; allo stesso modo che nella consuetudine formale dei drammi letterari si alternano momenti drammatici e lirici. I. Nella prima parte, dopo un prologo introduttivo (la Sicilia com'era all'aprirsi di quegli eventi, VI, 7-5), il racconto si apre con l'esposizione di quella che appare la causa ultima, il pretesto della spedizione: la contesa tra Segestani e Selinuntini e il ritorno degli esuli a Lentini (6-8); esso ha come quadro principale la grande assemblea degli Ateniesi, dove appunto appassionatamente si alternano le voci dei vari partiti, soprattutto attraverso i discorsi di Nicia e di Alcibiade, e che si conclude con il voto finale di aperta adesione alla spedizione (9-26). A mo' di tenebroso interludio, gravido di conseguenze, si inserisce qui l'indecifrabile "affare" delle erme e dei misteri violati, che crea turbamento ed eccitazione ad Atene e in cui sembra essere coinvolto lo stesso Alcibiade, il protagonista di questa prima parte (27-29). Con l'episodio successivo si entra nel vivo della situazione: i preparativi grandiosi per la spedizione e, altamente drammatico, il quadro della partenza dell'armata dal Pirèo (30-32); in efficace contrapposto ci viene presentato l'alterno stato d'animo dei Siracusani, quale risulta da una loro assemblea (33- 41).
L'isolamento inatteso delle forze ateniesi lungo la rotta dal Pirèo a Reggio si costituisce come nota premonitrice di lirico contrappunto, a cui dà particolare spicco la sconcertante scoperta della beffa segestana (42-46).
Il terzo episodio ci fa assistere al consiglio di guerra degli Ateniesi fermi a Reggio; quindi al conseguente incerto passaggio dell'armata in Sicilia e si conclude con il perentorio richiamo di Alcibiade in patria per rispondere dell'affare" delle erme e dei misteri(47-53).
Il racconto assai colorito dell'uccisione di Ipparco, fratello del tiranno Ippia, avvenuta per opera di due cittadini, Armodio e Aristogìtone circa un secolo prima, episodio apparentemente del tutto estraneo ai fatti precedentemente narrati, serve invece allo storico per esporre in modo significativo e simbolico quello stato di turbamento e di tensione esistente nella democrazia ateniese, che sta alle radici del richiamo di Alcibiade (54-59).
Quindi appunto il drammatico epilogo del ritorno di Alcibiade, la sua fuga, l'esilio e la condanna in contumacia a morte (60-61).
II. - Il secondo "dramma" non è più concentrato su un personaggio ma su un tema: nell'ormai inevitabile scontro tra Ateniesi e Siracusani emerge il susseguirsi serrato di rapidi quadri che hanno per protagonista le mura di Siracusa.
L'apertura ci parla, con apparente lentezza, di fatti d'arme digressivi compiuti dagli Ateniesi in giro per la Sicilia (62).
Quindi con il primo episodio ci si avvia al contatto diretto dei due contendenti: lo stratagemma ateniese per giungere di sorpresa nel Porto Grande di Siracusa e lo sbarco sulla costa dell'Olimpièo (63-67).
Un discorso di Nicia alle truppe schierate interrompe il filo degli avvenimenti e dà l'intonazione al racconto dei fatti che seguono (68).
Segue appunto la prima vittoria degli Ateniesi, nei pressi dell'Olimpièo (69- 71), quindi (siamo sul finire dell'autunno 415) il loro rientro negli accampamenti di Nasso prima e di Catania poi (72-73) e una penosa assemblea siracusana (74); questa parte del racconto si conclude con la costruzione (durante l'inverno 415/414) della prima opera fortificata siracusana, un nuovo muro avanzato rispetto alle difese arcaiche con il quale viene inglobato, quale caposaldo, il colle Temenìte (che sarà determinante nello sviluppo dei fatti d'arme successivi) (75). Un'assemblea nella città siceliota di Camarìna, alla quale sono presenti insieme Ateniesi e Siracusani, apre una lunga pausa dialettica: il siracusano Ermòcrate e l'ateniese Eufèmo espongono i rispettivi punti di vista e diritti. L'esito è un nulla di fatto (76-87). All'assemblea camarinese si allaccia un frenetico svolgersi di attività diplomatiche non solo in Sicilia ma nella Grecia stessa (88); il tutto si conclude con un accorato ma sofisticatissimo discorso del transfuga Alcibiade a Sparta (89-93).
Si entra quindi nel vivo dello scontro armato, scandito, come si è detto, dalla costruzione di successive e contrapposte opere di fortificazione attorno a Siracusa. Gli Ateniesi sono ormai sopra l'Epìpole e si adoperano per erigervi un muro di circonvallazione attorno alla città, mentre i Siracusani cercano di contrastarlo conducendo per parte loro un muro trasverso a quello (94-100). Quindi gli Ateniesi si spingono giù dall'Epipole fino al Porto Grande, dove, continuando l'opera di circonvallazione, erigono un muro doppio, vanamente contrastato da opposte opere trasverse dei Siracusani ( 101- 102).
La conclusione di queste operazioni vede gli Ateniesi ben attestati tanto sull'Epìpole quanto nel Porto Grande; ciò porta come contrappeso e inevitabile cesura drammatica un diffuso scoramento dentro la città di Siracusa (103). L'ultimo episodio di questa seconda parte svela, quasi in una sequenza cinematografica, come inevitabilmente si arrivi ad un rivolgimento di situazioni e di atmosfera:
- Gilippo, lo stratego inviato da Sparta in aiuto ai Siracusani, è arrivato a Tàranto (104);
- avvisaglie di guerra in Grecia tra Atene e Sparta ( 105);
- Gilippo da Tàranto è a Reggio e quindi nella stessa Sicilia fino a Imèra (comincia qui il settimo libro di Tucidide);3
- arrivano a Siracusa aiuti da Corinto e i Siracusani escono fuori incontro a Gilippo che sta venendo da Imèra (2);
- prima battaglia di Gilippo sull'Epìpole, favorevole agli Ateniesi, ma anche caduta del forte ateniese del Làbdalo (3);
- i Siracusani riprendono decisamente la costruzione dell'opera trasversa sull'Epìpole, mentre gli Ateniesi, che hanno portato anche la flotta nel Porto Grande, fortificano il Plemmìrio (4);
- altra battaglia sull'Epìpole e il muro di circonvallazione ateniese viene definitivamente tagliato e inutilizzato dal completamento del muro trasverso siracusano (5-6);
- arrivano da quasi tutta la Sicilia e dalla Grecia aiuti a Siracusa (7). A tragico epilogo di tutti questi fatti e del rovesciamento della sorti è un'ampia lettera di Nicia all'assemblea di Atene: la battaglia delle mura è finita e gli Ateniesi, già assedianti, sono ora essi entro le loro stesse fortificazioni assediati (8-15).
III. - Il terzo dramma, il più struggente e catastrofico, torna a scandirsi per episodi larghi e risonanti, aventi questa volta come punto focale, diretto e indiretto, la persona di Nicia. Già il prologo di esso si apre su panorami più vasti: palcoscenico è ora tutta la Grecia in guerra ( 16-20).
E a Siracusa la scena si è a sua volta spostata al mare: la prima battaglia navale vede ancora una prevalenza ateniese, ma una astuta manovra di Gilippo porta alla caduta dei forti ateniesi sul Plemmìrio. Ora gli Ateniesi sono definitivamente tagliati fuori, mentre indugiano i richiesti aiuti da Atene (21-26).
Il racconto, per inevitabile contrappunto, si arresta per tornare a coinvolgere la Grecia: il truce episodio della barbarie tracia a Micalèsso stende un velo cupo sul teatro di guerra (27-30).
Ora (2° episodio) è la Sicilia greca che quasi tutta sta con Siracusa, mentre lento e tormentato è il viaggio della seconda armata ateniese, guidata da Demostene, in soccorso a quella di Nicia (31-35). Ed ecco la seconda battaglia sul porto di Siracusa: lunga, durante due giorni, variamente combattuta, si conclude con la disfatta della flotta ateniese e la sua fuga tra gli ormeggi nella base del Daskón (36-41 )
Un'altra scena dello stesso episodio proietta, dentro la serie di battaglie navali, il disperato e inutile assalto, questa volta terrestre, degli Ateniesi all'Epìpole: al chiarore della luna, mentre nessuno riconosce nessuno, si mescolano non compresi ordini e canti e infine i soldati in disordine si gettano nudi dalle rupi del colle (42-46).
La prosa di Tucidide, altrove ferma e compassata, tocca qui punti di intensa e lirica pateticità, a cui segue una pausa di riflessione sgomenta: nel consiglio di guerra tosto tenutosi al campo ateniese si alternano, ripetuti due volte, gli angosciati giudizi contrastanti di Demostene e Nicia (47-49). L'episodio seguente (il 3°) si apre con un fenomeno misterioso e ammonitore per l'anima incerta e superstiziosa di Nicia: una eclissi di luna (50). Quindi nell'infausto indugio del comandante si inserisce la terza battaglia navale nel rinnovato tentativo di forzare l'uscita dal porto; anche questo fallisce nel suo scopo e aggrava il disastro (51-54).
A questo punto il racconto si interrompe con deliberato distacco. È giunto il momento per un intervento diretto e severamente critico dello storico sulla situazione politica e militare di Atene (55-56) e quindi il catalogo dei combattenti in Sicilia, da una parte e dall'altra: un lungo elenco che ha il sapore del kommos, cioè del duolo luttuoso, freddamente narrato in nomi e in cifre, ma non per questo meno impietoso e tragico (56-60).
L'ultimo e quarto episodio ci prepara alla catastrofe con due discorsi di segno opposto ma volti allo stesso fine, uno di Nicia direttamente ai suoi soldati, l'altro di Gilippo a quelli siracusani (61-68). L'acme psicologico è raggiunto con la rassegna che il sofferente Nicia fa passando nave per nave e le raccomandazioni di scongiuro che egli rivolge ai trierarchi, chiamandoli uno per uno per nome, patria e famiglia (69). Quindi la quarta e ultima battaglia navale che si conclude con la totale distruzione della flotta ateniese (70-71 ).
Così si giunge all'epilogo, la miserevole ed errabonda ritirata degli Ateniesi in cerca di scampo verso le terre iblèe dei barbari Sìceli: incalzati, circuiti, continuamente battuti dalle truppe e soprattutto dalla cavalleria siracusana (72-80). Il dramma si conclude con la resa prima della armata di Demostene e poi con la strage di quella di Nicia (81-85), ma soprattutto si evidenzia figurativamente la fine di tutto il racconto con la prigionia dei superstiti nelle latomie siracusane e l'esecuzione capitale, assieme all'altro stratego, dell'infelice e valoroso Nicia (86- 87).'