Euripide
Euripide
Euripide
Nacque a Salamina il giorno e l'anno della famosa battaglia di Salamina 5 settembre 480 a.C. Apparteneva a una famiglia agiata e la tradizione che lo fa figlio di un erbivendolo, deriva da un'invenzione scherzosa dei comici.
A testimonianza di ciò, citiamo quanto attesta Filocoro che era uno storico serio del III secolo, e il filosofo Teofrasto. Il primo dice che la madre discendeva da una famiglia nobilissima, l'altro che Euripe, giovinetto, fu coppiero nelle danze sacre, organizzate ad Atene dai cittadini di condizione molto elevata, intorno al tempio di Apollo Delio.
D'altra parte per poter divenire un tragediografo, dovette ricevere una buona edu-cazione poetica e musicale. Euripide fu il primo a possedere una biblioteca.
Era un uomo molto colto, sentì forte l'influsso del filosofo Anassagora, dei sofisti e di Socrate. Fece presentare la sua prima tragedia le Peliadi nel 455, un anno dopo la morte di Eschilo. Scrisse 92 drammi, ma ne conosciamo 17 e un dramma satiresco il Ciclope.
Nel 408, invitato da Archelao, re di Macedonia, si recò alla sua corte, a Pella, accolto con grandi onori. E qui morì nel 406 a.C.
Quando Sofocle ebbe la notizia della morte, stava per rappresentare una sua te-tralogia. Si presentò al popolo vestito a lutto e come lui gli attori e i coreuti.
Delle tragedie conservate, la più antica, Alcesti è del 438, le due ultime Ifigenia in Aulide e le Baccanti, furono rappresentate dopo la morte del poeta dal figlio Eurpi- de il giovane. Si possono datare con certezza Medea (431), Ippolito (428), le Troadi (415), Elena, (412), Oreste (408).
La cronologia ha particolare importanza perché Euripide, genio inquieto, tentò sempre vie nuove, rinnovò continuamente la struttura e la tecnica anche con l'uso del Deus ex machina, la musica e la metrica del dramma. Cose che gli consentirono di rende¬re più complessa l'azione e di trattare con più libertà la materia mitica. Infatti in certi suoi drammi appare come il creatore della poesia e del mito.
Euripide è l'uomo della ricerca e dell'innovazione. Operò di continuo uno smantel-lamento delle divinità tradizionali e lo spirito eroico appare deformato dall'interesse per i suoi personaggi deboli e umili. In effetti la polemica di Euripide fu diretta contro l'Olimpo tradizionale proprio in nome di un'esigenza acutissima dell'eticità del divi¬no, a cui erano lontani dal corrispondere i fantocci del mito.
Quanto agli eroi il poeta ne assunse i nomi tradizionali, ma li fece scendere dai lo¬ro piedistalli. Con il suo razionalismo e scetticismo, con il suo pessimismo e soprattutto la sua finezza psicologica, penetrò a fondo l'animo umano. Nel suo teatro l'uomo, da oggetto rassegnato e impaurito dalla capricciosa incomprensibilità del Fato, si fa sog-getto attivo e sofferente del proprio destino.
Opere
Alcesti
Admeto, re di Fere in Tessaglia, deve morire. Ma per dono speciale di Apollo, che è stato suo ospite, può evitare la morte se qualcuno si sacrifica per lui.
Né il vecchio padre Ferete, né la madre, vogliono dare la vita per il figlio. Soltanto la giovane moglie, Alcesti, accetta il sacrificio.
Ella muore e Admeto piange la sua scomparsa, che non ha impedito. Nella reggia funestata, appare improvvisamente Eracle e Admeto lo accoglie con larga ospitalità senza parlare del suo dolore.
Ma Eracle ha qualche sospetto e domanda a un servo. Commosso della sventura di Admeto, raggiunge Thanatos presso la tomba di Alcesti. Lotta con lui, prende la giovane, il cui eroismo rifulge sull'egoismo e la mediocrità degli altri personaggi, e la riporta sulla terra.
Medea
È una delle tragedie più famose. Ha una perfetta unità estetica ed è un capolavoro di psicologia.
Nel prologo la nutrice di Medea impreca contro Giasone, che ha abbandonato la sua padrona per sposare Glauce, la figlia di Creonte, re di Corinto. Il pedagogo dei figli di Medea comunica alla nutrice che il re vuole scacciare la sua padrona dalla città.
Si odono venire dalla casa, grida di dolore. È Medea che piange la sua infelicità e si assicura il silenzio delle donne del coro nel suo piano di vendetta. Poi fingendosi tranquilla e rassegnata, riesce ad ottenere da Creonte di potere rimanere fino a sera nella città, perché ha già pensato di uccidere con l'inganno la rivale e il re.
Intanto ha un colloquio con Giasone e gli ricorda di avergli salvato la vita, di avere abbandonato famiglia e patria per seguirlo. Ma i suoi lamenti sono vani e la freddezza del marito la spinge a perfezionare il suo piano. Manderà i figli dalla rivale, a offri¬re una veste preziosa, che a chi la tocca, dà la morte. Poi ucciderà i figli per vendicarsi ancora più crudelmente dell'offesa ricevuta.
Così per mettere in atto la sua decisione, con fare ingannevole, ottiene da Giaso¬ne il permesso di mandare il dono alla nuova moglie. Tutto si compie com'ella ha tramato.
Un messo annuncia la morte di Glauce e di Creonte. Medea gioisce e non esita più, ha superato i sentimenti di affetto materno. Entra a casa e uccide i figli. Intanto arriva Giasone, che non sa ancora della morte dei figli, per avere ragione della mo¬glie uccisa. Troppo tardi, Medea è già sul carro alato del Sole e gli rivolge parole
spietate e non gli concede neanche i corpi dei figli.
A Giasone non rimane che piangere la sua colpa e la sua sventura. La tragedia è tutta nell'anima di Medea, nel suo indomabile e feroce amore, che si tramuta in odio e in brama di vendetta. Ella sa bene che facendo l'infelicità di Gia¬sone, fa soprattutto la propria.
Ippolito
È un dramma d'amore, concepito come una malattia, una passione indomabile.
Il prologo è recitato da Afrodite. Ella si vede trascurata dal giovane Ippolito, figlio di Teseo, che disprezza l'amore e venera solo Artemide, dedicandosi alla caccia.
Ma di lui è innamorata Fedra, la seconda moglie del padre. La dea causerà la morte di tutti e due.
Giunge sulla scena Ippolito, ancora vibrante della caccia, con i servi e la muta dei cani. Appende una ghirlanda alla statua di Artemide, schernisce Afrodite e scompare.
Il coro compiange il male sconosciuto di Fedra. Ella non tocca cibo e sfiorisce nel¬la sua bellezza. Appare Fedra sostenuta dalle ancelle e si abbandona all'amoroso delirio. Subito si riscuote, si vergogna e piange. Poi confida il suo combattutto amore alla nutrice. Onesta com'è non vuole cedere all'amore, ma nemmeno sa resistere alla passione. Unico scampo è la morte.
La nutrice la conforta e le consiglia di guarire dall'amore con un filtro. Invece va da Ippolito e gli rivela il sentimento di Fedra.
Ippolito risponde con ingiurie sdegnose. Allora Fedra, svergognata e affranta, sep-pure innocente, crede di poter salvare la propria reputazione calunniando Ippolito. Così si uccide, lasciando a Teseo uno scritto, dove accusa il figlio di averla violata.
Con questo comincia la tragedia di Ippolito. Teseo crede alla calunnia della morta. Ma Ippolito ha giurato alla nutrice di tacere, ed egli vuole rimanere fedele al pat¬to, anche se gli è stato strappato con l'inganno. Così Teseo lo maledice e lo scaccia.
La maledizione s'avvera subito. Ippolito viene travolto dai suoi cavalli, atterriti da un mostro che Poseidone ha fatto sorgere dal mare per preghiera di Teseo, suo figlio. Ma prima che il giovane muoia appare Artemide e proclama la sua innocenza e Te¬seo chiede e ottiene il suo perdono.
Ippolito è un'asceta fanatico della sua castità, che merita commiserazione e com-pianto. La sua giovinezza, la sua innocenza e ingenuità, lo rendono degno di umana pietà. E per questo la sua morte ci commuove di più.
Fedra è la vera creatura del poema, disegnata con insuperabile finezza. Il suo amore parla dolorosamente al nostro cuore, perché ne è vittima.
Eraclidi
Hanno per oggetto l'ospitalità che Atene concede ai figli di Eracle, perseguitati da Euristeo. L'episodio più bello è quello del sacrificio della giovinetta Macaria, che ob-bedendo a un oracolo, affronta volontariamente la morte per dare la vittoria ai suoi.
Andromaca
Rappresenta le sventura della vedova di Ettore, che è schiava di Neottolemo, al quale ha dato un figlio. Molosso.
Madre e figlio sono perseguitati da Ermione, moglie di Neottolemo e da suo padre Menelao. Entrambi sarebbero uccisi, se all'ultimo momento non fossero salvati dal vec¬chio Peleo.
Alla fine giunge Oreste, che conduce via Ermione, che sposa dopo aver fatto ucci-dere Neottolemo a Delfi.
Supplici
Le Supplici, che hanno come titolo anche "Le Madri", è una delle più belle e più sconsolate tragedie di Euripide. In essa la sventura delle madri è narrata con straordi-nario lirismo. Le madri dei sette caduti a Tebe vanno ad intercedere presso Etra, ma¬dre di Teseo, perché si rechi nella città e recuperi i corpi dei figli per dare loro sepoltura.
Teseo chiede la restituzione dei corpi e non ottenendola muove guerra ai Tebani. Li vince e così riporta i corpi alle madri su cui possono piangere tutto il loro dolore, il loro amore perduto.
Le Supplici ci riportano a storie dei nostri giorni. Alle madri di Palermo, di Napoli, dei desaparecidos nel mondo, scese in piazza per reclamare i propri figli alla mafia, alla droga, ai soprusi del potere, mettendo a nudo tutta la loro sofferenza, cercando di scuotere l'opinione pubblica, di trovare umana solidarietà.
Ecuba
Polidoro, figlio di Ecuba e di Priamo, re di Troia, è stato ucciso a tradimento dall'o¬spite Polimestore, re di Tracia. Nel prologo si lamenta di non avere ancora sepoltura.
La prima parte della tragedia presenta il sacrificio di Polisenna sulla tomba di Achille. La quale, pur piangendo la sua giovinezza, affronta coraggiosamente la morte inve¬ce di divenire schiava dei Greci. Ed ella stessa conforta la madre angosciata.
Nella seconda parte mentre Ecuba si appresta a seppellire Polisenna, le viene ri-portato il cadavere di Polidoro. Allora l'infelice madre, riacquistando vigore, prepara freddamente la vendetta. Con l'aiuto delle prigioniere troiane introduce nella tenda Polimestore e gli strappa gli occhi.
La pietà e l'orrore sono le dominatrici della tragedia.
Troadi
Le sventure delle donne triane sono rappresentate più compitamente nelle Troadi.
Troia è stata conquistata e si addensano le sciagure sulle prigioniere troiane, che sono assegnate come preda di guerra ai Greci vittoriosi. Cassandra diventa schiava di Agamennone e nel suo delirio predice le sventure dei Greci, che ritornano in pa¬tria. Andromaca, schiava di Neottolemo, piange il suo Ettore e abbraccia per l'ultima volta il figlio Astianatte, che i Greci getteranno dalle mura della città espugnata. La vecchia Ecuba, schiava di Odisseo, prima di essere condotta via, dà sepoltura al ni¬pote e ne piange la sorte.
Alla fine Troia crolla tra il fumo e le fiamme.
Tutta la tragedia ha la sua unità nella commossa pietà del drammaturgo, nella sua simpatia per i vinti, nella sua esecrazione della guerra, rappresentata in tutta la sua crudezza.
Eracle
Un cupo pessimismo si avverte in tutta l'azione. Nella prima parte Anfitrione, padre di Eracle, sua moglie Megara e i suoi figli, durante l'assenza dell'eroe, sono condan¬nati a morte da Lieo, tiranno di Tebe.
Ritorna Eracle, uccide Lieo e salva i suoi cari. Ma per volere di Era, senza nessuna colpa, impazzisce. Allora Eracle uccide con l'arco la moglie e i figli, a stento si salva il padre.
Poi l'eroe cade in un sonno profondo. Destatosi, ritorna in sé e piange amaramente la sua sventura. Lo conforta Teseo, che lo conduce ad Atene per purificarsi dei delitti.
La fortuna, la felicità, la gloria di Eracle vittorioso in tanti scontri e battaglie, sono ad un tratto annientate. L'eroe, che non ne comprende la ragione, affranto, vergo¬gnoso e infelice, invoca invano suo padre immortale.
Elettra
Tratta la stessa materia delle Coefore eschilee. Euripide, però, ha trasformato il mi¬to. Ha trasportato Elettra in campagna, dov'è divenuta soltanto di nome, la moglie di un onesto contadino, e l'ha fatta divenire la vera ispiratrice del matricidio di Oreste.
Oreste giunge con Pilade presso la modesta abitazione della sorella. Avvenuto il riconoscimento, concertano il piano della vendetta contro Egisto e la madre Cliten-nestra.
Egisto viene ucciso per primo, mentre celebra in campagna un sacrificio in onore delle Ninfe. Oreste reca il cadavere a Elettra, su cui sfoga il suo odio. Clitennestra vie¬ne attirata con la falsa notizia che Elettra ha partorito. Così si reca nella rustica abita¬zione e qui il figlio la uccide.
Dopo l'omicidio i due fratelli sono turbati dai rimorsi, ma l'intervento dei Dioscuri scio-glie il nodo dell'azione. Elettra diventerà sposa di Pilade ed Oreste perseguitato dalle Erinni si recherà ad Atene, dove Pallada e l'Aeropago lo assolveranno.
Elena
La bellissima Elena, causa della guerra di Troia, nel prologo racconta le sue disgrazie.
Paride, ingannato degli dèi, ha condotto a Troia il fantasma di Elena, mentre que¬sta veniva trasportata da Ermes, per ordine di Era, in Egitto alla corte di Proteo.
Così la moglie di Menelao, fedele al marito di cui non ha più notizie, non è l'imma¬gine per la quale combattono da anni Greci e Troiani.
In Egitto, Teoclimeno, il figlio del re, se ne è invanghito e vuole sposarla. Elena si rifu-gia, supplice, presso la tomba di Proteo, che è morto.
Sopraggiunge Teucro, fratello di Aiace, reduce di Troia, il quale è stato cacciato dalla sua città, Salamina, dal padre Telamone perché non ha saputo impedire il sui¬cidio di Aiace. Pertanto sta cercando una nuova patria.
Teucro informa Elena della caduta di Troia e della morte di Menelao. Disperata vuole uccidersi, ma il coro la persuade a consultare l'indovina Teonoe, sorella del re Teo-climeno,
Mentre si reca da lei, giunge naufrago Menelao con la falsa Elena, che è rimasta nascosta in una grotta vicino alle navi. Qui, sorpreso, incontra la vera Elena. Marito e moglie si riconoscono, mentre un messaggero annuncia che la falsa Elena si è di-leguata.
I coniugi decidono di fuggire e di ritornare a Sparta. Con l'aiuto di Teonoe tramano un inganno contro Teoclimeno. Così s'imbarcano con il pretesto di rendere onore a Menelao, morto in mare, e veleggiano verso la propria terra.
Il re sdegnato, non potendo vendicarsi sui fuggiaschi, vuole uccidere la sorella com-plice del fatto. Ma appaiono i Dioscuri, i divini fratelli di Elena, i quali salvano l'indovi¬na e placano l'ira del re.
Elena, come Ifigenia taurica e Ione, fa parte dei drammi definiti di Tyche (sorte), che li fa agire a suo arbitrio. Tutte e tre le tragedie a lieto fine, culminano in un incontro e in un riconoscimento, che è opera, infatti, della sorte.
Ifigenia taurica
La giovane, che la dea Artemide ha salvato dal sacrificio in Aulide, è stata condot¬ta fra i Tauri, dove è divenuta sacerdotessa della dea.
Ifigenia stessa recita il prologo. Biasima i sacrifici umani dei quali è costretta ad es¬sere ministra e racconta un sogno riguardante anche il fratello Oreste.
Ed ecco che due prigionieri sono condotti presso di lei. Sono Oreste e Pilade. Ore¬ste, perseguitato dalle Erinni, si è recato nel paese dei Tauri per trasportare ad Atene la statua di Artemide. A questo patto Apollo gli ha promesso di liberarlo dalle Erinni.
I due giovani non conoscono Ifigenia. Né questa, loro. Oreste e Pilade, secondo le leggi del paese, devono essere sacrificati alla dea. Ifigenia li interroga e sa che sono di Argo. Decide di salvare uno di essi purché porti una lettera ad Oreste.
Ognuno dei due amici vorrebbe morire per l'altro. Vince Oreste. Ifigenia consegna il messaggio a Pilade, il quale vuole che lo ripeta a voce, in caso di smarrimento del¬la lettera. Il racconto porta al riconoscimento dei due fratelli tra la gioia di riabbrac¬ciarsi, il ricordo delle sventure passate e l'ansia del pericolo incombente, che li spinge a formulare la fuga.
Ifigenia inganna il re Toante con la scusa di purificare I prigionieri e la statua della dea nel mare. Così s'imbarcano su una nave diretta ad Argo.
II re vorrebbe inseguirli, ma Atena li protegge e fa desistere Toante dal suo proposito.
Ione
L'azione si svolge nel vestibolo del tempio di Apollo a Delfi. Mercurio nel prologo spiega l'antefatto.
Creusa, figlia del re Eretteo, sedotta da Apollo, ha avuto un figlio, che ha esposto ai piedi dell'Acropoli, dove ha subito la violenza. Mercurio per volere del fratello, ha preso il piccolo e lo ha portato a Delfi, dove la sacerdotessa trovatolo presso l'altare, lo ha allevato e consacrato al servizio del dio.
Ad Atene, intanto, Creusa ha sposato Xuto, uno straniero che ha avuto in premio la fanciulla e il trono per aver combattuto per la città.
I due sposi non riuscendo ad avere figli, si recano a Delfi per interrogare Apollo. Il dio vuole che Ione appaia figlio di Xuto e che lo conduca ad Atene per divenire signore della città. Così avviene il falso riconoscimento, che fa ingelosire Creusa tan¬to da volere avvelenare Ione.
Scoperta, deve morire. Il figlio stesso vuole ucciderla e l'insegue con la spada. Creusa si rifugia presso l'altare del dio. Lì trova il cesto dove era stato esposto Ione con gli amuleti e altri segni di riconoscimento.
Madre e figlio si abbracciano. Ione andrà ad Atene e diventerà il capostipite della stirpe ionica. I figli che nasceranno da Xuto e Creusa diventeranno i capostipiti dei Dori e degli Achei.
Ancora una volta la sorte è soggetto attivo di ogni azione umana.
Fenicie
È una delle tragedie che serve meglio a caratterizzare e a fare ammirare l'arte di Euripide. Una serie di scene rappresenta tutta la guerra di Tebe.
Il fatto inizia con il ritorno di Polinice a Tebe insieme ad Adrasto, re di Argo e un po¬tente esercito. È venuto a rivendicare al fratello Eteocle, che lo rifiuta, il diritto a re¬gnare alternativamente nella città.
La madre Giocasta cerca di riconciliarli. Ma è vano. La guerra è inevitabile. Creon¬te, zio materno, consiglia Eteocle a preparare le difese e manda a chiamare l'indovi¬no Tiresia, il quale predice la vittoria se Meceneo, figlio di Creonte, sarà sacrificato.
Meceneo muore eroicamente presso le mura della città. L'assalto degli Argivi è re-spinto. Si stabilisce allora di risolvere la contesa con un duello fra i due fratelli, dove periscono entrambi. Giocasta a tanto dolore si toglie la vita, mentre la sorella Antigo¬ne e il vecchio Edipo sfogano in lamenti il loro cordoglio.
Creonte assume il governo e ritenuto Edipo responsabile delle sciagure, lo condan¬na all'esilio assieme alla figlia, e ordina che Polinice resti insepolto. Ma Antigone non si piega al suo volere. Seppellirà il fratello e andrà raminga con il padre cieco, che sa di dovere morire presso Atene.
L'umanità e la nobiltà dei sentimenti di alcuni personaggi si contrappongono ai sen-timenti di durezza e di violenza degli altri, causa di distruzione e di morte.
Oreste
L'opera si divide in due parti. Nella prima appare l'eroe, delirante nel suo letto, tor-mentato dalle Erinni per avere ucciso la madre. Elettra lo conforta amorevolmente.
Nella seconda parte Oreste è giudicato e condannato dal popolo di Argo. Per ven-dicarsi di Menelao, che non lo ha difeso per salvarsi la vita, con l'aiuto di Pilade ucci¬de Elena e s'impadronisce di Ermione. Accorre Menelao a liberare la figlia, ma inutilmente.
Allora appare Apollo e rivela che Elena è stata salvata da Zeus e assunta in cielo.
Per suo ordine Oreste andrà ad Atene, dove assolto dall'Aeropago, sposerà Ermione.
Il poeta con una serie di eventi ha voluto dimostrare che una vera purificazione del protagonista non è possibile. Questi non può liberarsi dalle conseguenze del suo de¬litto senza commetterne un altro.
Ifigenia in Aulide
È l'antico mito del sacrificio di Ifigenia, figlia di Agamennone e di Clitennestra. È una tragedia ricca di contrasti e di mutamenti psicologici.
Agamennone, sentito l'oracolo, esita a sacrificare la figlia. Prima scrive alla moglie di condurre Ifigenia in Aulide con la falsa scusa di sposare Achille. Poi invia una se¬conda lettera con l'ordine di non muoversi.
Il fratello Menelao, che intercetta la lettera, lo rimprovera in nome dei Greci, impa¬zienti di salpare verso Sparta. Agamennone fa appello ai suoi sentimenti paterni. Ma quando giunge Clitennestra con Ifigenia è Menelao a non volere il sacrificio, com¬mosso dal àolore di Agamennone.
Ma questi, proprio quando gli si offre la possibilità di salvare la figlia, ricorda il suo dovere di capo al di sopra di ogni altra realtà e decide di sacrificarla.
Ifigenia, che ama la vita e le nozze, supplica il padre di risparmiarla. Ma quando Achille è pronto a rischiare la vita per aiutarla, trova gloriosa e necessaria la sua mor¬te. Il pensiero di essere l'eroina della vittoria dei Greci sui barbari con la presa di Troia, la conforta, la ricompensa della mancata gioia delle nozze e dei figli.
E così nella sua giovinezza va incontro alla morte come a una festa. Invita le vergini a cantare il peana di Artemide, a celebrare con il canto il suo sacrificio.
Nel finale appare Artemide a consolare Clitennestra e le rivela che Ifigenia è salva, perché ha sostituito la fanciulla con una,gerva.
Baccanti
Argomento è la vendetta di Dioniso o Bacco contro i nemici del suo culto. Recita il prologo il dio stesso. Egli è venuto a Tebe, nella città di sua madre Semele, per istituire il suo culto e per
vendicarsi delle sorelle di sua madre, Agave, Autonoe e Ino, che incredule della divi¬nità del nipote, disprezzano e calunniano Semele.
Il coro composto di Menadi Lidie esalta i prodigi e la potenza del dio. Le donne tebane guidate da Agave, celebrano il culto, avviandosi verso il monte Citerone. An-che il vecchio padre Cadmo e l'indovino Tiresia si avviano per partecipare alle misti¬che orgie.
Soltanto Penteo, re di Tebe, figlio di Agave, si oppone. Schernisce gli anziani, deri¬de il dio e lo fa imprigionare. Subito si compie la liberazione. Trema la terra e la reg¬gia va in fiamme. Penteo si salva a stento.
Dioniso ritorna fra le sue seguaci. Un messo racconta al re i prodigi delle Baccanti, che allattano i cuccioli dei lupi, fanno scaturire acque, miele dai tirsi, come pure la devastazione che stanno apportando in tutta la contrada, distruggendo gli armenti, avventuandosi contro di lui e i suoi compagni nel tentativo di riportare Agave a Tebe.
Penteo vuole domare le ribelli, che a suo giudizio, stanno sovvertendo l'ordine mo-rale, e non tiene conto di questo ammonimento.
Spinto da Dioniso, che gli toglie il senno, si traveste da Baccante e va al Citerone. Qui, Agave sotto l'impero della sacra pazzia, strazia con le altre Baccanti il figlio Pen¬teo. Così appare sulla scena con infitta sul tirso la testa del figlio, che crede di un leo¬ne, glorficandosi della bella preda e invocando Dioniso.
Ma, a poco a poco, riprende coscienza e riconosce il misfatto. Comprende la ven-detta del dio, il suo trionfo. Si è servita della madre per punire l'empietà di Penteo.
Le Baccanti non sono il dramma dell'ebrezza dionisiaca, ma il dramma dell'umana debolezza dinanzi alla potenza, anche ingiusta e crudele, della divinità.
Infatti, la scena più atroce è quella del rinsavimento di Agave. Quando passa in un crescendo, dal delirio bacchico allo stupore, allo sbigottimento, all'orrore, alla di-sperazione consapevole.
Nelle opere di Euripide le nuove idee sofiste di mettere tutto in discussione, di scru¬tare il fondamento di ogni cosa, senza mai arrestarsi, sono esposte, teorizzate, da avere l'impressione che ne sia propagandista e apostolo.
Euripide è un ricercatore di Dio, giusto e buono, sovrano ordinatore del mondo. Ma la sua speranza viene meno nella considerazione dei casi e delle azioni degli uomini, delle sventure e del male del mondo. Per cui, come rileviamo dai lavori, la sua anima rimase sempre in balia di quella "speranza" continuamente perdente e altresì risorgente, insita nella realtà quotidiana della vita stessa. E da questa, nella considerazione della debolezza umana e dell'irrimediabile infelicità, sono generati i suol eroi forti e innocenti, fragili e sognatori, affettuosi e passionali, che acquistano il diritto alla nostra pietà.
Il loro eroismo è come un fiore delicato, nato dove non ci si sarebbe aspettato. In questo è l'originalità, la poesia di Euripide, creata per gli spiriti che sanno intendere la sua delicata sensibilità, la sua traboccante tenerezza.