Euripide - siracusa tragedie greche

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
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Euripide

Euripide
Euripide

Nacque a Salamina il giorno e l'anno della famosa battaglia di  Salamina 5 settembre 480 a.C. Apparteneva a una famiglia agiata e la  tradizione che lo fa figlio di un erbivendolo, deriva da un'invenzione  scherzosa dei comici.
A testimonianza di ciò, citiamo quanto  attesta Filocoro che era uno storico serio del III secolo, e il filosofo  Teofrasto. Il primo dice che la madre discendeva da una famiglia  nobilissima, l'altro che Euripe, giovinetto, fu coppiero nelle danze  sacre, organizzate ad Atene dai cittadini di condizione molto elevata,  intorno al tempio di Apollo Delio.
D'altra parte per poter  divenire un tragediografo, dovette ricevere una buona edu-cazione  poetica e musicale. Euripide fu il primo a possedere una biblioteca.
Era  un uomo molto colto, sentì forte l'influsso del filosofo Anassagora,  dei sofisti e di Socrate. Fece presentare la sua prima tragedia le  Peliadi nel 455, un anno dopo la morte di Eschilo. Scrisse 92 drammi, ma  ne conosciamo 17 e un dramma satiresco il Ciclope.
Nel 408,  invitato da Archelao, re di Macedonia, si recò alla sua corte, a Pella,  accolto con grandi onori. E qui morì nel 406 a.C.
Quando  Sofocle ebbe la notizia della morte, stava per rappresentare una sua  te-tralogia. Si presentò al popolo vestito a lutto e come lui gli attori  e i coreuti.
Delle tragedie conservate, la più antica,  Alcesti è del 438, le due ultime Ifigenia in Aulide e le Baccanti,  furono rappresentate dopo la morte del poeta dal figlio Eurpi- de il  giovane. Si possono datare con certezza Medea (431), Ippolito (428), le  Troadi (415), Elena, (412), Oreste (408).
La cronologia ha  particolare importanza perché Euripide, genio inquieto, tentò sempre vie  nuove, rinnovò continuamente la struttura e la tecnica anche con l'uso  del Deus ex machina, la musica e la metrica del dramma. Cose che gli  consentirono di rende¬re più complessa l'azione e di trattare con più  libertà la materia mitica. Infatti in certi suoi drammi appare come il  creatore della poesia e del mito.
Euripide è l'uomo della  ricerca e dell'innovazione. Operò di continuo uno smantel-lamento delle  divinità tradizionali e lo spirito eroico appare deformato  dall'interesse per i suoi personaggi deboli e umili. In effetti la  polemica di Euripide fu diretta contro l'Olimpo tradizionale proprio in  nome di un'esigenza acutissima dell'eticità del divi¬no, a cui erano  lontani dal corrispondere i fantocci del mito.
Quanto agli  eroi il poeta ne assunse i nomi tradizionali, ma li fece scendere dai  lo¬ro piedistalli. Con il suo razionalismo e scetticismo, con il suo  pessimismo e soprattutto la sua finezza psicologica, penetrò a fondo  l'animo umano. Nel suo teatro l'uomo, da oggetto rassegnato e impaurito  dalla capricciosa incomprensibilità del Fato, si fa sog-getto attivo e  sofferente del proprio destino.

Opere
Alcesti
Admeto,  re di Fere in Tessaglia, deve morire. Ma per dono speciale di Apollo,  che è stato suo ospite, può evitare la morte se qualcuno si sacrifica  per lui.
Né il vecchio padre Ferete, né la madre, vogliono  dare la vita per il figlio. Soltanto la giovane moglie, Alcesti, accetta  il sacrificio.
Ella muore e Admeto piange la sua scomparsa,  che non ha impedito. Nella reggia funestata, appare improvvisamente  Eracle e Admeto lo accoglie con larga ospitalità senza parlare del suo  dolore.
Ma Eracle ha qualche sospetto e domanda a un servo.  Commosso della sventura di Admeto, raggiunge Thanatos presso la tomba di  Alcesti. Lotta con lui, prende la giovane, il cui eroismo rifulge  sull'egoismo e la mediocrità degli altri personaggi, e la riporta sulla  terra.
Medea
È una delle tragedie più famose. Ha una perfetta unità estetica ed è un capolavoro di psicologia.
Nel  prologo la nutrice di Medea impreca contro Giasone, che ha abbandonato  la sua padrona per sposare Glauce, la figlia di Creonte, re di Corinto.  Il pedagogo dei figli di Medea comunica alla nutrice che il re vuole  scacciare la sua padrona dalla città.
Si odono venire dalla  casa, grida di dolore. È Medea che piange la sua infelicità e si  assicura il silenzio delle donne del coro nel suo piano di vendetta. Poi  fingendosi tranquilla e rassegnata, riesce ad ottenere da Creonte di  potere rimanere fino a sera nella città, perché ha già pensato di  uccidere con l'inganno la rivale e il re.
Intanto ha un  colloquio con Giasone e gli ricorda di avergli salvato la vita, di avere  abbandonato famiglia e patria per seguirlo. Ma i suoi lamenti sono vani  e la freddezza del marito la spinge a perfezionare il suo piano.  Manderà i figli dalla rivale, a offri¬re una veste preziosa, che a chi  la tocca, dà la morte. Poi ucciderà i figli per vendicarsi ancora più  crudelmente dell'offesa ricevuta.
Così per mettere in atto la  sua decisione, con fare ingannevole, ottiene da Giaso¬ne il permesso di  mandare il dono alla nuova moglie. Tutto si compie com'ella ha tramato.
Un  messo annuncia la morte di Glauce e di Creonte. Medea gioisce e non  esita più, ha superato i sentimenti di affetto materno. Entra a casa e  uccide i figli. Intanto arriva Giasone, che non sa ancora della morte  dei figli, per avere ragione della mo¬glie uccisa. Troppo tardi, Medea è  già sul carro alato del Sole e gli rivolge parole
spietate e non gli concede neanche i corpi dei figli.
A  Giasone non rimane che piangere la sua colpa e la sua sventura. La  tragedia è tutta nell'anima di Medea, nel suo indomabile e feroce amore,  che si tramuta in odio e in brama di vendetta. Ella sa bene che facendo  l'infelicità di Gia¬sone, fa soprattutto la propria.
Ippolito
È un dramma d'amore, concepito come una malattia, una passione indomabile.
Il  prologo è recitato da Afrodite. Ella si vede trascurata dal giovane  Ippolito, figlio di Teseo, che disprezza l'amore e venera solo Artemide,  dedicandosi alla caccia.
Ma di lui è innamorata Fedra, la seconda moglie del padre. La dea causerà la morte di tutti e due.
Giunge  sulla scena Ippolito, ancora vibrante della caccia, con i servi e la  muta dei cani. Appende una ghirlanda alla statua di Artemide, schernisce  Afrodite e scompare.
Il coro compiange il male sconosciuto di  Fedra. Ella non tocca cibo e sfiorisce nel¬la sua bellezza. Appare  Fedra sostenuta dalle ancelle e si abbandona all'amoroso delirio. Subito  si riscuote, si vergogna e piange. Poi confida il suo combattutto amore  alla nutrice. Onesta com'è non vuole cedere all'amore, ma nemmeno sa  resistere alla passione. Unico scampo è la morte.
La nutrice  la conforta e le consiglia di guarire dall'amore con un filtro. Invece  va da Ippolito e gli rivela il sentimento di Fedra.
Ippolito  risponde con ingiurie sdegnose. Allora Fedra, svergognata e affranta,  sep-pure innocente, crede di poter salvare la propria reputazione  calunniando Ippolito. Così si uccide, lasciando a Teseo uno scritto,  dove accusa il figlio di averla violata.
Con questo comincia  la tragedia di Ippolito. Teseo crede alla calunnia della morta. Ma  Ippolito ha giurato alla nutrice di tacere, ed egli vuole rimanere  fedele al pat¬to, anche se gli è stato strappato con l'inganno. Così  Teseo lo maledice e lo scaccia.
La maledizione s'avvera  subito. Ippolito viene travolto dai suoi cavalli, atterriti da un mostro  che Poseidone ha fatto sorgere dal mare per preghiera di Teseo, suo  figlio. Ma prima che il giovane muoia appare Artemide e proclama la sua  innocenza e Te¬seo chiede e ottiene il suo perdono.
Ippolito è  un'asceta fanatico della sua castità, che merita commiserazione e  com-pianto. La sua giovinezza, la sua innocenza e ingenuità, lo rendono  degno di umana pietà. E per questo la sua morte ci commuove di più.
Fedra  è la vera creatura del poema, disegnata con insuperabile finezza. Il  suo amore parla dolorosamente al nostro cuore, perché ne è vittima.
Eraclidi
Hanno  per oggetto l'ospitalità che Atene concede ai figli di Eracle,  perseguitati da Euristeo. L'episodio più bello è quello del sacrificio  della giovinetta Macaria, che ob-bedendo a un oracolo, affronta  volontariamente la morte per dare la vittoria ai suoi.
Andromaca
Rappresenta le sventura della vedova di Ettore, che è schiava di Neottolemo, al quale ha dato un figlio. Molosso.
Madre  e figlio sono perseguitati da Ermione, moglie di Neottolemo e da suo  padre Menelao. Entrambi sarebbero uccisi, se all'ultimo momento non  fossero salvati dal vec¬chio Peleo.
Alla fine giunge Oreste, che conduce via Ermione, che sposa dopo aver fatto ucci-dere Neottolemo a Delfi.
Supplici
Le  Supplici, che hanno come titolo anche "Le Madri", è una delle più belle  e più sconsolate tragedie di Euripide. In essa la sventura delle madri è  narrata con straordi-nario lirismo. Le madri dei sette caduti a Tebe  vanno ad intercedere presso Etra, ma¬dre di Teseo, perché si rechi nella  città e recuperi i corpi dei figli per dare loro sepoltura.
Teseo  chiede la restituzione dei corpi e non ottenendola muove guerra ai  Tebani. Li vince e così riporta i corpi alle madri su cui possono  piangere tutto il loro dolore, il loro amore perduto.
Le  Supplici ci riportano a storie dei nostri giorni. Alle madri di Palermo,  di Napoli, dei desaparecidos nel mondo, scese in piazza per reclamare i  propri figli alla mafia, alla droga, ai soprusi del potere, mettendo a  nudo tutta la loro sofferenza, cercando di scuotere l'opinione pubblica,  di trovare umana solidarietà.
Ecuba
Polidoro,  figlio di Ecuba e di Priamo, re di Troia, è stato ucciso a tradimento  dall'o¬spite Polimestore, re di Tracia. Nel prologo si lamenta di non  avere ancora sepoltura.
La prima parte della tragedia presenta  il sacrificio di Polisenna sulla tomba di Achille. La quale, pur  piangendo la sua giovinezza, affronta coraggiosamente la morte inve¬ce  di divenire schiava dei Greci. Ed ella stessa conforta la madre  angosciata.
Nella seconda parte mentre Ecuba si appresta a  seppellire Polisenna, le viene ri-portato il cadavere di Polidoro.  Allora l'infelice madre, riacquistando vigore, prepara freddamente la  vendetta. Con l'aiuto delle prigioniere troiane introduce nella tenda  Polimestore e gli strappa gli occhi.
La pietà e l'orrore sono le dominatrici della tragedia.
Troadi
Le sventure delle donne triane sono rappresentate più compitamente nelle Troadi.
Troia  è stata conquistata e si addensano le sciagure sulle prigioniere  troiane, che sono assegnate come preda di guerra ai Greci vittoriosi.  Cassandra diventa schiava di Agamennone e nel suo delirio predice le  sventure dei Greci, che ritornano in pa¬tria. Andromaca, schiava di  Neottolemo, piange il suo Ettore e abbraccia per l'ultima volta il  figlio Astianatte, che i Greci getteranno dalle mura della città  espugnata. La vecchia Ecuba, schiava di Odisseo, prima di essere  condotta via, dà sepoltura al ni¬pote e ne piange la sorte.
Alla fine Troia crolla tra il fumo e le fiamme.
Tutta  la tragedia ha la sua unità nella commossa pietà del drammaturgo, nella  sua simpatia per i vinti, nella sua esecrazione della guerra,  rappresentata in tutta la sua crudezza.
Eracle
Un  cupo pessimismo si avverte in tutta l'azione. Nella prima parte  Anfitrione, padre di Eracle, sua moglie Megara e i suoi figli, durante  l'assenza dell'eroe, sono condan¬nati a morte da Lieo, tiranno di Tebe.
Ritorna  Eracle, uccide Lieo e salva i suoi cari. Ma per volere di Era, senza  nessuna colpa, impazzisce. Allora Eracle uccide con l'arco la moglie e i  figli, a stento si salva il padre.
Poi l'eroe cade in un  sonno profondo. Destatosi, ritorna in sé e piange amaramente la sua  sventura. Lo conforta Teseo, che lo conduce ad Atene per purificarsi dei  delitti.
La fortuna, la felicità, la gloria di Eracle  vittorioso in tanti scontri e battaglie, sono ad un tratto annientate.  L'eroe, che non ne comprende la ragione, affranto, vergo¬gnoso e  infelice, invoca invano suo padre immortale.
Elettra
Tratta  la stessa materia delle Coefore eschilee. Euripide, però, ha  trasformato il mi¬to. Ha trasportato Elettra in campagna, dov'è divenuta  soltanto di nome, la moglie di un onesto contadino, e l'ha fatta  divenire la vera ispiratrice del matricidio di Oreste.
Oreste  giunge con Pilade presso la modesta abitazione della sorella. Avvenuto  il riconoscimento, concertano il piano della vendetta contro Egisto e la  madre Cliten-nestra.
Egisto viene ucciso per primo, mentre  celebra in campagna un sacrificio in onore delle Ninfe. Oreste reca il  cadavere a Elettra, su cui sfoga il suo odio. Clitennestra vie¬ne  attirata con la falsa notizia che Elettra ha partorito. Così si reca  nella rustica abita¬zione e qui il figlio la uccide.
Dopo  l'omicidio i due fratelli sono turbati dai rimorsi, ma l'intervento dei  Dioscuri scio-glie il nodo dell'azione. Elettra diventerà sposa di  Pilade ed Oreste perseguitato dalle Erinni si recherà ad Atene, dove  Pallada e l'Aeropago lo assolveranno.
Elena
La bellissima Elena, causa della guerra di Troia, nel prologo racconta le sue disgrazie.
Paride,  ingannato degli dèi, ha condotto a Troia il fantasma di Elena, mentre  que¬sta veniva trasportata da Ermes, per ordine di Era, in Egitto alla  corte di Proteo.
Così la moglie di Menelao, fedele al marito  di cui non ha più notizie, non è l'imma¬gine per la quale combattono da  anni Greci e Troiani.
In Egitto, Teoclimeno, il figlio del re,  se ne è invanghito e vuole sposarla. Elena si rifu-gia, supplice,  presso la tomba di Proteo, che è morto.
Sopraggiunge Teucro,  fratello di Aiace, reduce di Troia, il quale è stato cacciato dalla sua  città, Salamina, dal padre Telamone perché non ha saputo impedire il  sui¬cidio di Aiace. Pertanto sta cercando una nuova patria.
Teucro  informa Elena della caduta di Troia e della morte di Menelao. Disperata  vuole uccidersi, ma il coro la persuade a consultare l'indovina Teonoe,  sorella del re Teo-climeno,
Mentre si reca da lei, giunge  naufrago Menelao con la falsa Elena, che è rimasta nascosta in una  grotta vicino alle navi. Qui, sorpreso, incontra la vera Elena. Marito e  moglie si riconoscono, mentre un messaggero annuncia che la falsa Elena  si è di-leguata.
I coniugi decidono di fuggire e di ritornare  a Sparta. Con l'aiuto di Teonoe tramano un inganno contro Teoclimeno.  Così s'imbarcano con il pretesto di rendere onore a Menelao, morto in  mare, e veleggiano verso la propria terra.
Il re sdegnato, non  potendo vendicarsi sui fuggiaschi, vuole uccidere la sorella com-plice  del fatto. Ma appaiono i Dioscuri, i divini fratelli di Elena, i quali  salvano l'indovi¬na e placano l'ira del re.
Elena, come  Ifigenia taurica e Ione, fa parte dei drammi definiti di Tyche (sorte),  che li fa agire a suo arbitrio. Tutte e tre le tragedie a lieto fine,  culminano in un incontro e in un riconoscimento, che è opera, infatti,  della sorte.
Ifigenia taurica
La giovane, che la dea  Artemide ha salvato dal sacrificio in Aulide, è stata condot¬ta fra i  Tauri, dove è divenuta sacerdotessa della dea.
Ifigenia stessa  recita il prologo. Biasima i sacrifici umani dei quali è costretta ad  es¬sere ministra e racconta un sogno riguardante anche il fratello  Oreste.
Ed ecco che due prigionieri sono condotti presso di  lei. Sono Oreste e Pilade. Ore¬ste, perseguitato dalle Erinni, si è  recato nel paese dei Tauri per trasportare ad Atene la statua di  Artemide. A questo patto Apollo gli ha promesso di liberarlo dalle  Erinni.
I due giovani non conoscono Ifigenia. Né questa, loro.  Oreste e Pilade, secondo le leggi del paese, devono essere sacrificati  alla dea. Ifigenia li interroga e sa che sono di Argo. Decide di salvare  uno di essi purché porti una lettera ad Oreste.
Ognuno dei  due amici vorrebbe morire per l'altro. Vince Oreste. Ifigenia consegna  il messaggio a Pilade, il quale vuole che lo ripeta a voce, in caso di  smarrimento del¬la lettera. Il racconto porta al riconoscimento dei due  fratelli tra la gioia di riabbrac¬ciarsi, il ricordo delle sventure  passate e l'ansia del pericolo incombente, che li spinge a formulare la  fuga.
Ifigenia inganna il re Toante con la scusa di purificare  I prigionieri e la statua della dea nel mare. Così s'imbarcano su una  nave diretta ad Argo.
II re vorrebbe inseguirli, ma Atena li protegge e fa desistere Toante dal suo proposito.
Ione
L'azione si svolge nel vestibolo del tempio di Apollo a Delfi. Mercurio nel prologo spiega l'antefatto.
Creusa,  figlia del re Eretteo, sedotta da Apollo, ha avuto un figlio, che ha  esposto ai piedi dell'Acropoli, dove ha subito la violenza. Mercurio per  volere del fratello, ha preso il piccolo e lo ha portato a Delfi, dove  la sacerdotessa trovatolo presso l'altare, lo ha allevato e consacrato  al servizio del dio.
Ad Atene, intanto, Creusa ha sposato  Xuto, uno straniero che ha avuto in premio la fanciulla e il trono per  aver combattuto per la città.
I due sposi non riuscendo ad  avere figli, si recano a Delfi per interrogare Apollo. Il dio vuole che  Ione appaia figlio di Xuto e che lo conduca ad Atene per divenire  signore della città. Così avviene il falso riconoscimento, che fa  ingelosire Creusa tan¬to da volere avvelenare Ione.
Scoperta,  deve morire. Il figlio stesso vuole ucciderla e l'insegue con la spada.  Creusa si rifugia presso l'altare del dio. Lì trova il cesto dove era  stato esposto Ione con gli amuleti e altri segni di riconoscimento.
Madre  e figlio si abbracciano. Ione andrà ad Atene e diventerà il capostipite  della stirpe ionica. I figli che nasceranno da Xuto e Creusa  diventeranno i capostipiti dei Dori e degli Achei.
Ancora una volta la sorte è soggetto attivo di ogni azione umana.
Fenicie
È  una delle tragedie che serve meglio a caratterizzare e a fare ammirare  l'arte di Euripide. Una serie di scene rappresenta tutta la guerra di  Tebe.
Il fatto inizia con il ritorno di Polinice a Tebe  insieme ad Adrasto, re di Argo e un po¬tente esercito. È venuto a  rivendicare al fratello Eteocle, che lo rifiuta, il diritto a re¬gnare  alternativamente nella città.
La madre Giocasta cerca di  riconciliarli. Ma è vano. La guerra è inevitabile. Creon¬te, zio  materno, consiglia Eteocle a preparare le difese e manda a chiamare  l'indovi¬no Tiresia, il quale predice la vittoria se Meceneo, figlio di  Creonte, sarà sacrificato.
Meceneo muore eroicamente presso le  mura della città. L'assalto degli Argivi è re-spinto. Si stabilisce  allora di risolvere la contesa con un duello fra i due fratelli, dove  periscono entrambi. Giocasta a tanto dolore si toglie la vita, mentre la  sorella Antigo¬ne e il vecchio Edipo sfogano in lamenti il loro  cordoglio.
Creonte assume il governo e ritenuto Edipo  responsabile delle sciagure, lo condan¬na all'esilio assieme alla  figlia, e ordina che Polinice resti insepolto. Ma Antigone non si piega  al suo volere. Seppellirà il fratello e andrà raminga con il padre  cieco, che sa di dovere morire presso Atene.
L'umanità e la  nobiltà dei sentimenti di alcuni personaggi si contrappongono ai  sen-timenti di durezza e di violenza degli altri, causa di distruzione e  di morte.
Oreste
L'opera si divide in due parti.  Nella prima appare l'eroe, delirante nel suo letto, tor-mentato dalle  Erinni per avere ucciso la madre. Elettra lo conforta amorevolmente.
Nella  seconda parte Oreste è giudicato e condannato dal popolo di Argo. Per  ven-dicarsi di Menelao, che non lo ha difeso per salvarsi la vita, con  l'aiuto di Pilade ucci¬de Elena e s'impadronisce di Ermione. Accorre  Menelao a liberare la figlia, ma inutilmente.
Allora appare Apollo e rivela che Elena è stata salvata da Zeus e assunta in cielo.
Per suo ordine Oreste andrà ad Atene, dove assolto dall'Aeropago, sposerà Ermione.
Il  poeta con una serie di eventi ha voluto dimostrare che una vera  purificazione del protagonista non è possibile. Questi non può liberarsi  dalle conseguenze del suo de¬litto senza commetterne un altro.
Ifigenia in Aulide
È  l'antico mito del sacrificio di Ifigenia, figlia di Agamennone e di  Clitennestra. È una tragedia ricca di contrasti e di mutamenti  psicologici.
Agamennone, sentito l'oracolo, esita a  sacrificare la figlia. Prima scrive alla moglie di condurre Ifigenia in  Aulide con la falsa scusa di sposare Achille. Poi invia una se¬conda  lettera con l'ordine di non muoversi.
Il fratello Menelao, che  intercetta la lettera, lo rimprovera in nome dei Greci, impa¬zienti di  salpare verso Sparta. Agamennone fa appello ai suoi sentimenti paterni.  Ma quando giunge Clitennestra con Ifigenia è Menelao a non volere il  sacrificio, com¬mosso dal àolore di Agamennone.
Ma questi,  proprio quando gli si offre la possibilità di salvare la figlia, ricorda  il suo dovere di capo al di sopra di ogni altra realtà e decide di  sacrificarla.
Ifigenia, che ama la vita e le nozze, supplica  il padre di risparmiarla. Ma quando Achille è pronto a rischiare la vita  per aiutarla, trova gloriosa e necessaria la sua mor¬te. Il pensiero di  essere l'eroina della vittoria dei Greci sui barbari con la presa di  Troia, la conforta, la ricompensa della mancata gioia delle nozze e dei  figli.
E così nella sua giovinezza va incontro alla morte come  a una festa. Invita le vergini a cantare il peana di Artemide, a  celebrare con il canto il suo sacrificio.
Nel finale appare  Artemide a consolare Clitennestra e le rivela che Ifigenia è salva,  perché ha sostituito la fanciulla con una,gerva.
Baccanti
Argomento  è la vendetta di Dioniso o Bacco contro i nemici del suo culto. Recita  il prologo il dio stesso. Egli è venuto a Tebe, nella città di sua madre  Semele, per istituire il suo culto e per
vendicarsi delle  sorelle di sua madre, Agave, Autonoe e Ino, che incredule della  divi¬nità del nipote, disprezzano e calunniano Semele.
Il coro  composto di Menadi Lidie esalta i prodigi e la potenza del dio. Le  donne tebane guidate da Agave, celebrano il culto, avviandosi verso il  monte Citerone. An-che il vecchio padre Cadmo e l'indovino Tiresia si  avviano per partecipare alle misti¬che orgie.
Soltanto Penteo,  re di Tebe, figlio di Agave, si oppone. Schernisce gli anziani, deri¬de  il dio e lo fa imprigionare. Subito si compie la liberazione. Trema la  terra e la reg¬gia va in fiamme. Penteo si salva a stento.
Dioniso  ritorna fra le sue seguaci. Un messo racconta al re i prodigi delle  Baccanti, che allattano i cuccioli dei lupi, fanno scaturire acque,  miele dai tirsi, come pure la devastazione che stanno apportando in  tutta la contrada, distruggendo gli armenti, avventuandosi contro di lui  e i suoi compagni nel tentativo di riportare Agave a Tebe.
Penteo  vuole domare le ribelli, che a suo giudizio, stanno sovvertendo  l'ordine mo-rale, e non tiene conto di questo ammonimento.
Spinto  da Dioniso, che gli toglie il senno, si traveste da Baccante e va al  Citerone. Qui, Agave sotto l'impero della sacra pazzia, strazia con le  altre Baccanti il figlio Pen¬teo. Così appare sulla scena con infitta  sul tirso la testa del figlio, che crede di un leo¬ne, glorficandosi  della bella preda e invocando Dioniso.
Ma, a poco a poco,  riprende coscienza e riconosce il misfatto. Comprende la ven-detta del  dio, il suo trionfo. Si è servita della madre per punire l'empietà di  Penteo.
Le Baccanti non sono il dramma dell'ebrezza  dionisiaca, ma il dramma dell'umana debolezza dinanzi alla potenza,  anche ingiusta e crudele, della divinità.
Infatti, la scena  più atroce è quella del rinsavimento di Agave. Quando passa in un  crescendo, dal delirio bacchico allo stupore, allo sbigottimento,  all'orrore, alla di-sperazione consapevole.
Nelle opere di  Euripide le nuove idee sofiste di mettere tutto in discussione, di  scru¬tare il fondamento di ogni cosa, senza mai arrestarsi, sono  esposte, teorizzate, da avere l'impressione che ne sia propagandista e  apostolo.
Euripide è un ricercatore di Dio, giusto e buono,  sovrano ordinatore del mondo. Ma la sua speranza viene meno nella  considerazione dei casi e delle azioni degli uomini, delle sventure e  del male del mondo. Per cui, come rileviamo dai lavori, la sua anima  rimase sempre in balia di quella "speranza" continuamente perdente e  altresì risorgente, insita nella realtà quotidiana della vita stessa. E  da questa, nella considerazione della debolezza umana e  dell'irrimediabile infelicità, sono generati i suol eroi forti e  innocenti, fragili e sognatori, affettuosi e passionali, che acquistano  il diritto alla nostra pietà.
Il loro eroismo è come un fiore  delicato, nato dove non ci si sarebbe aspettato. In questo è  l'originalità, la poesia di Euripide, creata per gli spiriti che sanno  intendere la sua delicata sensibilità, la sua traboccante tenerezza.
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