origine e valore della tragedia - siracusa tragedie greche

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
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origine e valore della tragedia

ORIGINE E VALORE DELLA TRAGEDIA
La tragedia ("canto per ¡1 capro" nel senso sacrificale o come premio poetico] è la creazione artistica più grande del genio ellenico. Nacque nel 480 a.C. ad opera dei suoi unici, insigni tragici: Eschilo, Sofocle, Euripide.
È uno spettacolo di recitazione, canto, musica e danza, il cui elemento principale è il coro, che in Eschilo era costituito da 12 coreuti e da 15 in Sofocle.
Il coro veniva Istruito dal corego (maestro dei cori) e aveva funzione di personaggio collettivo. A volte partecipava all'azione e spesso esprimeva idee e sentimenti del poe¬ta. Solo con Euripide le parti corali diminuirono a favore di quelle liriche degli attori.
Eroi e dei sono i protagonisti della tragedia e per questo la scelta degli argomenti, la cura della lingua e dello stile furono di grande elevatezza. Gli stessi personaggi "umani" furono concepiti fuori da ogni "realismo", furono assunti nella vicenda mitica.
Le origini della tragedia risalgono al culto per Dioniso o Bacco, il dio venuto in Gre¬cia dalla Tracia, il dio della vegetazione, delle testi primaverili, che con il canto e le danze abbatteva la barriera tra l'uomo e la divinità, e con l'aiuto delle Menadi o Bac¬canti i suoi seguaci s'inserivano nell'essenza divina.
Ma il senso ellenico dell'armonia placò l'estasi dionisiaca, l'ebrezza orgiastica, in forme di pura bellezza e al carattere sacro che la tragedia conservò, è dovuta la sua idealizzazione. Così il contenuto non fu più strettamente dionisiaco, sostituendo il dio con gli eroi, come pure la disposizione del coro, che cedette il passo al dialogo, la danza non fu più tumultuosa. Tuttavia il culto fu rappresentato, come all'origine, dai canti e dalla danza fortemente mimica ed espressiva, dall'altare di Dioniso presente sulla scena. L'accompagnamento musicale fu dato dalla lira e dal doppio flauto, dolce e rievocativo, capace di suscitare particolari sensazioni come la poesia contenuta nelle tragedie.
Gli Spettacoli
La rappresentazione di una tragedia era per i Greci una liturgia, che lo Stato impo¬neva ai cittadini ricchi. Aveva carattere politico e valore sacro. I cittadini vi assisteva¬no come ad una cerimonia religiosa.
Nella tragedia II poeta era maestro di vita morale per I suoi concittadini. Nei cori si dibat-tevano i più Importanti problemi della coscienza ateniese del V secolo. La colpevolezza e l'innocenza, la responsabilità umana e divina, l'infelicità dell'uomo e la giustizia degli dei.
La materia della vicenda era, per lo più, già nota agli spettatori.
L'interesse era diretto, perciò, all'arte con cui l'autore aveva saputo trattare i fatti, alla sua fantasia, alla bellezza dello stile, della musica, della danza.
In Eschilo c'è ancora un senso arcaico della vicenda mitica, ed è necessario un am¬pio spazio per rappresentare la sua tragedia, composta da una trilogia, per lo svolgi¬mento completo dei fatti nel senso religioso-poetico.
In Sofocle, che ama centrare la sua azione non più sulle vicende delle generazioni eroiche, ma su un solo personaggio, lo spazio di una sola tragedia diviene sufficiente.
Lo stesso è per Euripide, anzi rovesciando la tendenza antica, finì col comporre tra¬gedie singole, che abbracciano un contenuto così complesso da formare una trilo¬gia. E per esprimere al meglio la sua materia tentò nuovi espedienti tecnici, famoso il "deus ex machina", il dio che appare dall'alto per mezzo di una struttura meccanica, di sicuro effetto scenico, che meglio realizza l'immagine della divinità e del suo intervento nelle cose umane sulla terra. Un'espediente, rispondente allo spirito inno¬vatore e polemico del poeta.
La tecnica e la struttura
L'abbigliamento dei coreuti era costituito da una tunica lunga fino ai piedi con lar¬ghe maniche, che troviamo portata da Dioniso nei monumenti greci. Come pure de¬gli attori, che erano ricoperti, però, anche da un ampio mantello, i cui colori e ricchezza delle stoffe, rilevavano la differente situazione sociale dei protagonisti. Dal coturno (stivaletto con alta suola, considerato eccentricità del dio) e sopratutto dalla maschera, che dava a chi la portava, la potenza del dio o del demone che impersonava, ed era il simbolo dell'estasi dionisiaca. Costume, che abbiamo visto recuperato per inte¬ro in molte rappresentazioni dei nostri giorni.
La maschera non solo serviva a fissare il carattere del protagonista, ma influiva an¬che sulla fedeltà dell'interpretazione artistica da parte degli attori nei ruoli affidati.
L'attore, isolato dalla maschera dal mondo circostante, perdeva la sua personali¬tà e diveniva esclusivamente la persona del dramma.
Polluce nell'Onomasticon indica 28 tipi di maschere e quella femminile si distingueva dalla maschile dalle tinte delicate date al volto. Una loro caratteristica era il prolun-gamento della fronte (oncos) che serviva ad ingigantire la figura dell'attore.
Poiché le donne erano escluse dall'arte teatrale, gli attori nell'interpetrare le parti femminili, ricorrevano ad alcuni accorgimenti. Usavano due specie di imbottitura. Una per imitare il seno e l'altra per il ventre.
Per dare l'idea del fatto rappresentato, del luogo e del tempo in cui si svolgeva, i Greci utilizzavano un fondale scenico dipinto. Aristotele attribuì questa invenzione a Sofocle, mentre altri fecero il nome di Agatarce di Samo, che era lo scenografo di Eschilo.
Secondo Vitruvio tre erano i generi della scena: la tragica, dove era raffigurato il prò- spetto di una reggia, la comica, che presentava una via cittadina e la satirica, dove era dipinto un angolo agreste.
Queste erano sovrapposte l'una sull'altra e per i cambiamenti a vista, scorrevano su apposite guide. Assieme a loro venivano usate delle quinte, che avevano tre fac¬ce dipinte in relazione ai tre tipi di scena, ed erano girevoli attorno a un perno. Cose che si possono notare, osservando il canale perfettamente conservatosi in fondo al palcoscenico del teatro greco a Siracusa.
La tragedia era costruita seguendo una ben precisa struttura, a cui si attengono, ancora, i registi del nostro secolo e che possiamo cogliere se stiamo attenti allo svol-gimento scenico dall'inizio alla fine.
È composta dal "prologo" che corrisponde al primo atto, dal "parodo" che è il canto d'entrata del coro mentre si dispone nell'orchestra, lo spazio tra la scena e la gradi¬nata del teatro, dagli "episodi" che sono una serie di scene comprese tra due "stasi¬mi" ovvero tra i canti del coro che dividono un episodio dall'altro.
Questi sono come il calare di un sipario. Ma mentre il sipario di oggi, che tende ad essere abolito, crea una rottura, una pausa che distrae, il canto nel suo sottinteso se¬parare un momento scenico dall'altro, continua a tessere la trama del fatto rappre¬sentato, a tenere unito il legame magico che si è creato fra i personaggi e gli spettatori, che possono continuare a vivere in modo intenso la vicenda, cogliendone le emozio¬ni e il significato.
Alla fine della tragedia il coro conclude I' "esodo" dei personaggi. È l'ultimo ad uscire dalla scena.
I concorsi tragici
Le rappresentazioni avevano luogo dall'alba al tramonto in occasione delle feste dionisiache e precisamente per le "Grandi Dionisie" e "Dionisie Cittadine", che si celebravano tra marzo e aprile. Duravano sei giorni e gli ultimi tre erano riservati ai con¬corsi tragici, introdotti da Pisistrato tra il 535-534 a.C. a cui si aggiunsero quelli comici nel 486.
Avvenivano quindi in primavera e ogni spettacolo si svolgeva nell'arco di un gior¬no, nel perfetto simbolismo della rinascita giornaliera, annuale, eterna, dell'uomo nel superamento delle prove a cui è costretto per temprare l'uomo-eroe, per forgiare il carattere del dio, che è in potenza.
In questa settimana avevano luogo i concorsi tragici, introdotti da Pisistrato tra il 535-534 a.C. a cui si aggiunsero quelli comici nel 486.
Le feste avevano inizio con un complesso di cerimonie, fra cui per il primo giorno, la processione che accompagnava il simulacro di Dioniso da Eleuteria, borgata dell'At- fica dove esisteva un tempio del dio, ad Atene per simboleggiare l'introduzione del suo culto nella città.
Nel cerimoniale rientrava la presentazione dei poeti al pubblico con i loro attori, i cori e gli argomenti delle tragedie che avrebbero rappresentate.
Dopo lo spettacolo II giudizio veniva dato da una commissione di 10 cittadini, tratti a sorte, uno per ogni famiglia o tribù, dall'arconte, capo del governo. Il premio consi¬steva sia per il poeta che per l'attore protagonista, vittoriosi, in una corona d'edera, simbolo d'immortalità. Come tale è l'arte, specie la poesia, quale espressione di quanto è o appartiene al divino. Il riconoscimento, completo di dati, veniva ratificato da un documento, che era depositato negli archivi.
La poetica
Con Eschilo la tragedia raggiunse il massimo della rappresentazione fiera e virile nello stile, nelle caratteristiche originarie, fondate nella preghiera, nell'invocazione agli dei perché intervenissero in favore degli oranti; con Sofocle il dramma si staccò da tali caratteristiche, arricchendosi di personaggi e musiche, che crearono un movi¬mento scenico da fare apparire più umana la vicenda; con Euripide la materia miti¬ca fu trattata con più libertà, tanto che la tragedia si avviò verso forme più moderne, che sfociarono nell'arte alessandrina o ellenistica.
Un cupo pessimismo ispira quasi sempre la tragedia, ma non mancano gli elementi rasserenatori come i canti pii delle feste rituali nelle tragedie di Eschilo; la magnani¬mità degli eroi, che non conoscono altra legge all'infuori del loro stesso eroismo, nel¬l'infelicità a cui sono condannati gli uomini nella tragedia di Sofocle; il delicato eroismo delle vergini tanto care ad Euripide.
Tutti questi aspetti politici, teatrali e tecnici, se collocati nello spirito del tempo, me¬glio fanno comprendere il senso delle rappresentazioni nel loro valore etico, filosofi¬co, religioso.
Esse costituiscono, ogni volta, un motivo per celebrare l'arte, la poesia, la musica, la cultura. E nella rivisitazione di alcune situazioni umane, creano un'occasione per riflettere e rinnovare il proprio impegno civile, per vincere le correnti che vorrebbero riportarci indietro e farci restare sulla riva della miseria.
ESCHILO
Figlio di Euforione nacque ad Eleusi (Atene] nel 525 a.C. Apparteneva ad una fami¬glia nobile. Il santuario della sua città ebbe un'influenza profonda nella sua formazione.
Combatté a Maratona, dove cadde suo fratello Cinegiro, come racconta Erodoto, poi nell'Artemisio e a Platea.
Prese parte al concorsi tragici già nel 484 a.C. ed ebbe il primo premio con una tetralogia, che comprendeva i Persiani. Quando era al colmo della fama (472-468), fu invitato alla corte di lerone, signore di Siracusa. Venne in Sicilia, dove rappresentò le Etnee, dramma composto per celebrare Etna, la nuova città fondata da lerone.
Da qui nel 468 ritornò ad Atene per partecipare al concorso delle Grandi Dionisie, che fu vinto dal giovane Sofocle. Ma nel 467 fu primo con la tetralogia tebana (Laio, Edipo, Sette contro Tebe, La Sfinge), di cui restano solo i Sette contro Tebe. Nel 458 ebbe l'ultima vittoria con l'Oresta, di cui si conservano le tre tragedie: Agamennone, le Coefere, le Eumenidi.
Eschilo, forse più degli altri grandi tragici del V secolo a.C. fu il poeta e il maestro del suo popolo. La sua religiosità e il suo profondo senso morale, hanno fondamento in uno stesso ideale di giustizia, che amò con fede incrollabile come vediamo dai concetti, dalle parole e dai personaggi delle sue tragedie.
Introdusse il secondo attore e diminuì le funzioni del coro, dando così alla tragedia un carattere più drammatico. Per questo, oggi, viene considerato il creatore del dram¬ma tragico.
Il suo teatro è dominato da una chiara visione del rapporto tra colpa e pena. Gli dèi non puniscono per una capricciosa invidia la prosperità degli uomini, ma la pre¬varicano.
L'esistenza è gravata da forze fatali, soprattutto l'ereditarietà della colpa, per cui sangue chiama sangue. Tuttavia è un moto libero della volontà umana di fare preci-pitare le forze sospese del destino.
Sul piano teologico Eschilo appare un monoteista. Zeus incarna il supremo polo della fede e della speranza, è congiunto con Dike (la giustizia). E appare come un dio- salvatore, che dopo aver travagliato l'uomo, interviene per redimerlo, inserendolo in un ordine etico e giuridico, basato sulla pietà e sul rispetto del limite umano.
La sua è una poesia traboccante di metafore, oscura per la straordinaria densità verbale e potenza drammatica. I Persiani
Hanno per argomento la sconfitta persiana da parte dei Greci. La scena si svolge a Susa presso la corte di Serse. Il coro è formato dai vecchi fedeli consiglieri del re.
La prima parte rappresenta le ansie angosciose dei vecchi e della regina Atossa, madre di Serse, atterrita da un sogno infausto per la sorte del suo esercito e del suo popolo.
Nella seconda parte un messo racconta nei suoi particolari la battaglia di Salami- na e il disastro della ritirata attraverso la Tracia. Mentre appare l'ombra di Dario, il re saggio, evocata dal lamenti del coro e di Atossa. Il quale ammonisce dall'Ade che la rovina dei Persiani è stata voluta dagli dèi per la loro mancanza di moderazione.
Nella terza parte appare con i vestiti a brandelli, Serse, il re dissennato, punito dagli dèi per la sua superbia ed empietà. Con i lamenti e i pianti finisce la tragedia.
La poesia dei Persiani sta nella disperazione dei vinti. Il vero protagonista è il coro, che rappresenta tutto il popolo persiano. La morale di questa tragedia è contenuta nelle ultime parole di Dario: "Un mortale non deve concepire disegni superiori alla sua natura, la tracotanza produce lacrime. Nessuno disprezzi la propria condizione per desiderarne un'altra, finendo così col dissipare la grande prosperità che possiede".
Un avvertimento che suona come un invito alla moderazione, alla saggezza e alla pace, premesse per lo sviluppo e il sereno vivere dei popoli.
Le Supplici
Sono le 50 figlie di Danao, che per sfuggire alle nozze con i loro cugini, figli di Egitto, si sono rifugiate col vecchio padre ad Argo, la città da dove aveva origine la loro stirpe e implorano l'ospitalità del re Pelasgo.
Questi le accoglie generosamente e respinge le intimazioni e le minacce di un araldo egiziano, venuto a chiedere le fanciulle per condurle in Egitto.
Alle Supplici, la prima tragedia della trilogia, seguivano gli Egizi e le Danaidi, an¬date perdute. Negli Egizi, le giovani costrette a nozze, uccidevano per ordine del pa¬dre, i loro mariti. Una sola, Ipermestra disobbediva e risparmiava la vita a Linceo, suo sposo.
Nelle Danaidi, Ipermestra, accusata dal padre, era assolta e lodata da Afrodite per essersi conformata alla grande legge dell'amore, poiché le donne mediante il matri¬monio sono destinate a perpetuare la specie. Anche Zeus la premiò, dando origine ad una stirpe reale, dalla quale sarebbe nato Eracle. Le Danaidi omicide, invece, furono punite, offerte in premio ai vincitori di una corsa.
Queste strane vergini sono vittime insieme e colpevoli, Innalzano le loro preghiere a Zeus inutilmente.
La poesia della tragedia è nel carattere del coro, nella sua asprezza e religiosità, nel suo odio violento contro gli uomini, nella sua angoscia di bestia inseguita, che ci riporta per certi aspetti al femminismo dei nostri giorni.
Sette contro Tebe
Eteocle, re di Tebe, si prepara a difendere la città assediata dal fratello Polinice e da altri sei guerrieri.
Il coro è composto di donne tebane, che vengono rimproverate da Eteocle, per i loro lamenti e per le troppe preghiere.
Un messo lo informa dei propositi dei nemici, che hanno giurato di espugnare Tebe o morire e fa la descrizione dei sette condottieri alleati, da cui il titolo della tragedia. Eteocle oppone a ciascuno dei sette nemici un guerriero tebano e a Polinice se stesso.
Nella descrizione spiccano figure di grandi eroi, su cui s'innalza Eteocle. Il coro cer¬ca di trattenere l'eroe perché salvi la sua vita, ma egli pur con il cuore turbato dalla maledizione, che pesa sulla sua stirpe, va incontro alla battaglia e alla morte.
Alla fine un messo racconta il duello e la morte dei due fratelli e il coro piange sui guerrieri periti.
In questo dramma l'eroe ha momenti di commozione struggente al pensiero della patria, per la cui salvezza è disposto ad uccidere il fratello. Ma Eteocle è anche un maledetto. La maledizione di Edipo, in quanto nato dall'unione con la madre Gioca- sta, rende più tragico il suo destino, da cui il pessimismo e la tristezza, che caratteriz¬zano la sua figura.
Prometeo Incatenato
Faceva parte di una trilogia così composta: Prometeo incatenato, Prometeo libera¬to,_ Prometeo portatore del fuoco.
È una tragedia i cui protagonisti sono tutti dèi. Nel prologo, Kratos (Potenza] e Bia (Violenza) fanno incantenare da Efesto per ordine di Zeus, il Titano Prometeo ad una rupe della Scizia perché ha rubato il fuoco agli dèi e lo ha donato agli uomini.
Il Titano si lamenta della pena, lasciato com'è in mezzo alle forze della natura. Ven¬gono a confortarlo le Ocenine, che formano il coro. Oceano gli consiglia di sottomet¬tersi al volere di Zeus e per questo viene trattato con asprezza.
Nella sventura non è solo, arriva un'altra vittima, lo, costretta da Era, gelosa sposa di Zeus, ed errare. Ad essa il Titano presagisce la fine dei suoi mali e la stirpe che na¬scerà da lei, fra cui Eracle, il futuro liberatore di Prometeo, quando Zeus dovrà scen¬dere a patti per salvare il trono, venendo a conoscenza di un segreto.
Ma Prometeo non rivela ad Ermes, inviato dal dio dell'Olimpo, che Zeus perderà la signoria se sposa Teti, e sfida così la sua ira e i fulmini, che lo inabissano nel Tartaro.
Il messaggio di Prometeo è, certamente, da cogliere nella ribellione dell'eroe a una tirannide violenta e ingiusta, nella necessità di beneficiare gli altri di quanto hanno gli
dèi, il "fuoco" ovvero la "conoscenza" e il "progresso".
Problema che Eschilo affronta con una mentalità nuova rispetto a quella religiosa del suo tempo.
Agamennone
Il genio di Eschilo culmina nell'Orestea. Dalla prima tragedia all'ultima è un'unica tragica azione, che alla fine trova la sua catarsi.
Argomento dell'Agamennone è la sua uccisione per mano della moglie Clitenne- stra e del suo amante Egisto, fratello di Agamennone. Nel prologo il guardiano, mes¬so di vedetta sul tetto della reggia, dà la notizia della presa di Troia, comunicata attraverso i fuochi accesi sulle cime dei monti.
Intanto il coro, composto di vecchi Argivi consiglieri del re, esprime le sue angosce per le sorti dell'esercito mandato a combattere per una causa inadeguata e per il re, che ha imposto la guerra al suo popolo e per il sacrificio della figlia Ifigenia, che ha attirato su di lui lo sdegno degli dèi.
Clitennesta, appresa la vittoria, ma anche i disagi e i dolori che sono costati, mani¬festa la sua gioia per il ritorno del marito ma con parole oscure.
Finalmente arriva Agamennone sul carro accanto alla schiava Cassandra, figlia di Priamo, re di Troia, che sulla scena annuncia profeticamente l'uccisione del re.
L'angoscia domina tutta la tragedia e culmina nella visione del destino degli Atridi. Tutto è presente a Cassandra. Agamennone che sta per essere trafitto dalla moglie, ma anche lo strazio dei piccoli corpi dei figli di Tieste e la spada vendicatrice di Oreste.
Finito il delirio si odono le grida di Agamennone, colpito nel bagno. Subito dopo appare Clltennestra macchiata di sangue. Al coro che piange il re morto e rimprove¬ra il delitto, risponde arditamente che ella non è la moglie del morto, ma l'antico de¬mone della stirpe, che deve punire il delitto di Atreo e si è incarnato in lei. Agamennone ha pagato per la fine di Ifigenia.
All'apparire di Egisto, i rimproveri del coro si fanno più aspri e minaccia di vendica¬re l'assassinio. Egisto vuole lanciarsi con la spada In pugno contro i vecchi del coro, ma Clitennestra modera l'impeto. In lei non c'è pentimento o rimorso, tuttavia il delitto compiuto le fa sorgere un'inquieta amarezza,
Goethe definì questo dramma "il capolavoro dei capolavori". Alle scene lente del¬la prima parte, seguono quelle rapide del secondo atto, dove pricipita l'azione e do¬mina l'orrore.
Vera protagonista è Clltennestra, la figura più complessa di tutta la tragedia gre¬ca. Ella pensa e sente come un uomo. E capace di passioni gigantesche. Nulla in lei è meschino o mediocre. Il rancore contro il marito per il sacrificio di Ifigenia, l'ha resa un genio del male.
Per avere la sua vendetta ricorre all'adulazione più accattivante, finché Agamen¬none, senza alcun sospetto, cade nella rete. Consumata la sua vendetta, getta la ma¬schera e con voluttà feroce confessa la propria colpa e il delitto.
Altre note arricchiscono il carattere di questa donna, la gelosia per Cassandra, l'u¬miltà affettuosa davanti a Egisto. Contraddizioni che ci fanno comprendere la pro¬fondità psicologica di Eschilo, che sa cogliere in una donna intrepida e feroce i segni nascosti di una invincibile femminilità, di una umana debolezza nella riflessione di uno strano tormento, che l'agita.
Le Coefore
"Portatrici di libagioni" prendono il nome del coro, composto dalle prigioniere troiane, ancelle nella casa di Agamennone.
Clitennestra spaventata da un sogno orrendo, le ha incaricate di portare offerte espiatorie sulla tomba dell'ucciso.
Intanto, dopo dieci anni di assenza, ritorna ad Argo il figlio Oreste assieme all'ami¬co Pilade per vendicare il padre. Oreste era stato inviato, ancora bambino, dalla ma¬dre nella Focide. Depone una ciocca di capelli, come offerta, sulla tomba e si nasconde. Così assiste all'arrivo delle donne del coro e della sorella Elettra, che ven¬gono per le libagioni.
La cerimonia sembra un sacrilegio ad Elettra, poiché le offerte vengono dalla ma¬dre omicida. Ma poi si decide e versa le libagioni, imprecando contro gli assassini e pregando per i figli del morto. Il coro risponde con lacrime e canti di dolore.
D'un tratto Elettra scopre sulla tomba il ricciolo di Oreste e lo confronta con i suoi capelli. Il coro fa subito il nome di Oreste. Ed Elettra piange mentre spera nella pre¬senza del fratello. Poi vede le impronte dei piedi e le misura con le sue. Allora è presa da una terribile angoscia.
A questo punto Oreste esce dal suo nascondiglio e si fa riconoscere. Elettra in pre¬da all'emozione non vuole credere alla realtà, ma poi si getta nelle sue braccia con parole tenerissime. Ma Oreste torna al pensiero della vendetta e invoca Zeus vendi¬catore, ricordando l'oracolo di Apollo, che impone con la minaccia di mali tremen¬di, di uccidere chi ha ucciso.
E così si giunge al cuore della tragedia. Oreste, Elettra, il coro, diventano le voci della grande sinfonia del lamento funebre, che deve risvegliare l'anima del morto, perché aiuti il figlio nella vendetta.
Il rimpianto per la morte miseranda del re, i lamenti per la casa desolata degli Atri- di, fanno posto a poco a poco al selvaggio desiderio di vendetta, che è sentito come una necessità e come un dovere. Le vergini del coro agitano le chiome, si percuoto¬no le membra, piangono e gemono.
Quando il canto tace, Oreste ed Elettra continuano ad implorare il padre per richia-mare alla loro mente l'ignominia subita.
L'azione ormai è al compimento. Fingendosi un forestiero della Focide, Oreste si pre-senta a Clitennestra e la informa che suo figlio è morto. Clitennestra piange di dolore e introduce il forestiero nella casa per ospitarlo. Un grido svela agli spettatori l'ucci¬sione di Egisto e un servo lo annuncia a Clitennestra, che ha parole di affetto per l'a¬mante. Parole che spingono Oreste ad essere spietato e cerca di ucciderla. Ma davanti alla donna che gli mostra il seno materno, la spada del figlio cade.
Allora interviene Pilade, che gli ricorda l'oracolo di Apollo e i giuramenti. Oreste non esita più e risponde alle suppliche della madre con parole di giustiziere. Tuttavia quel-l'attimo di esitazione è bastato a rendere umana la figura dell'uccisore, a mitigare l'orrore del matricidio. Oreste porta la madre sulla tomba del padre e la uccide.
L'esaltazione del delitto compiuto spinge Oreste a gridare II suo trionfo, come fece Clitennestra su Agamennone. Ma passato il momento, anche per Oreste comincia il turbamento e molto più profondo di quello vissuto da Clitennestra. Con la mente scon-volta vede le Erinni vestite di nero, con il capo intrecciato di fitti serpenti, dai cui occhi cola sangue.
In questa brevissima scena, Eschilo ancora una volta, si rivela poeta e psicologo grandissimo. Prima ancora che Oreste abbia la mente sconvolta, muta il suo superbo discorso di trionfo in pianto, in una tristezza che palesa il suo smarrimento. E contro questo l'eroe cerca di lottare, chiama tutti gli Argivi a testimoniare della giustezza del delitto. Ma tutto è vano, "le cagne" della madre lo assalgono e non gli danno tregua.
Le E u meri idi
Prendono nome dal coro, che è composto dalle Erinni, le dee che puniscono i delit¬ti, venerate ad Atene con il nome di Eumenidi (le benevole).
La prima parte dell'azione si svolge presso il Tempio di Apollo, la seconda ad Atene.
Il dramma si apre con una scena serena. La Pizia, sacerdotessa del dio, prega pri¬ma di entrare nel Santuario. Entra e ritorna indietro spaventata. Ha visto uno spettaco¬lo orribile. Un uomo con le mani che stillano sangue è in atteggiamento di supplice e davanti a lui c'è una schiera di donne dormienti, che sembrano Gorgoni o Arpie, russano e piangono lacrime di sangue e hanno crini di serpenti.
Poi la Pizia scompare e si apre la porta del tempio. Accanto a Oreste e alle dee addormentate appare Apollo, che rassicura l'omicida e lo raccomanda ad Ermes per-ché lo guidi fino alla città di Pallade, dove troverà la fine dei suoi dolori. Ma appena si mettono in cammino, ecco l'ombra di Clitennestra che incalza le Erinni contro il fug¬gitivo. Ma le trattiene, armato di arco, Apollo che le scaccia dal suo santuario.
L'azione di questa scena è rapida, essenziale e per questo acquista una drammati¬cità inarrivabile. Ma la tragedia non ha toccato il suo vertice. Cambia il luogo di azione e ritorna la situazione di prima.
Oreste è ad Atene, inginocchiato davanti alla statua di Pallade e prega. Entrano le Erinni, come cani cercano il matricida, per lanciarsi addosso alla preda, e portarlo sotto terra. Oreste impassibile, continua a pregare. Egli celebra Atena e la sua potenza.
Allora le Erinni si stringono intorno all'altare e intonano attorno all'omicida un canto di orrore in una danza selvaggia. Formando così una specie di catena magica. I no¬di sono le strofe del canto, che "lega le anime". La tragedia è all'apice con le Erinni che esaltano il proprio ufficio e celebrano la propria vittoria, la loro missione divina fissata dalle Parche, che rovinano le glorie umane più auguste per affermare la loro legge implacabile.
Appare improvvisamente Atena, che convince le Erinni a rimettere ogni decisione a un tribunale di Ateniesi. Segue la scena del giudizio con i giudici che sfilano solen¬nemente e vanno ad occupare i loro seggi. Le Erinni dopo essersi proclamate, anco¬ra una volta, ministre di Dike, sono le accusatrici. Apollo appare all'improvviso e si dichiara insieme testimone, difensore e responsabile.
Prima della votazione Atena istituisce per l'eternità il tribunale ateniese dell'Aeropa- go per giudicare il sangue versato. Oreste è assolto perché vi è parità di voti per l'as¬soluzione e la condanna. È stato decisivo il voto di Atena in suo favore. Con l'assoluzione di Oreste e il suo ritorno ad Argo si conclude la storia.
Ma le Erinni non contente della sentenza, protestano e minacciano l'Attica di ogni sorta di mali. La loro ira traspare dai loro canti. Atena, che sa convincere, a poco a poco le placa. Così i canti di rovina e di morte si trasformano in canti di benedizio¬ni. Non la sterilità ma la prosperità e la pace, le terribili dee, daranno ad Atene.
Le Erinni sono divenute Eumenidi e gli Ateniesi festeggiano le divinità divenute be¬nevoli e le accompagnano con una processione solenne al lume delle fiaccole nel¬l'antro sotterraneo, dove saranno venerate.
In tal modo la cupa tragicità della trilogia svanisce nella serenità di un canto sacro, si smorza nel lirismo delle parole, nella musica dell'ultima scena delle Eumenidi.
In essa vediamo il poeta dei pensieri e delle azioni ciclopiche. Lingua, stile, sintassi, rispondono alle situazioni create con una straordinaria fantasia. Ogni suo dramma è diverso dagli altri, solo il pathos tragico è la caratteristica costante.


SOFOCLE
Figlio del ricco ormaiolo Sofilo, nacque ad Atene nel 497 a.C. nella stessa città che raccolse le sue spoglie nel 406.
Nel 480 a seguito della vittoria riportata a Salamina guidò un coro di giovinetti. Onore dovuto, certamente, alla sua abilità nella danza e nella musica.
Nel 468 riportò la sua prima vittoria nelle gare drammatiche con una trilogia di cui faceva parte Trittolemo, battendo Eschilo. Ma nel 441 fu vinto a sua volta da Euripide.
Dal 443 cominciò a ricoprire importanti cariche pubbliche. Fu eletto amministratore del tesoro della Confederazione Attica. Nel 441-440 fu eletto stratego con Pericle. So-praggiunta in quell'anno la guerra contro Samo, fu inviato con una piccola flotta a Chio e a Lesbo per chiedere rinforzi
A Chio, Sofocle conobbe il poeta Ione, che divenne suo grande amico. Nel 428-427 fu nuovamente stratego, questa volta collega di Nicia. Nel 413, dopo il disastro della spedizione in Sicilia, fece parte dei dieci probuli che prepararono il governo dei Quat-trocento.
Dopo la sua morte fu venerato come un eroe. Gli Ateniesi gli innalzarono un santua¬rio e stabilirono in suo onore sacrifici annuali. In tal modo onoravano assieme al poe¬ta, l'uomo religiosissimo, che aveva veduto in sogno Eracle e aveva accolto nella sua casa la statua del dio Asclepio, trasportata solennemente nel 420 da Epidauro ad Atene. Infatti in memoria dell'ospitalità data al dio, lo adorarono con il nome di De- xione (l'accoglitore).
Sofocle fu il tragico secondo il cuore del popolo ateniese, come attestano le sue 18 vittore, più di quelle di Eschilo, che vinse 13 volte, e di Euripide, che ne riportò cin¬que. Scrisse oltre 120 tragedie, di cui ne restano solo sette: Antigone, Aiace, Edipo re, Elettra, Filotteto, Trachinie, Edipo a Colono, più un dramma satirico I Segugi.
I suoi drammi si concentrano sul protagonista, eroe di una grande e complessa umanità.
Secondo Aristotele introdusse tre innovazioni importanti nella tecnica della trage¬dia. Aggiunse il terzo attore, che dava al dramma maggiore varietà di svolgimento, portò il numero dei coreuti da 12 a 15 in modo da potere formare due semicori e il corifeo poteva partecipare più agevolmente al dialogo degli attori. Infine svincolò la tragedia dal legame della trilogia. Infatti presentò ai concorsi tetralogie, ma con quattro drammi indipendenti l'uno dall'altro, avendo argomento diverso.
Come si rileva dai suoi lavori ebbe una visione pessimistica della vita, il cui unico conforto stava nella nobiltà dell'animo.
L'individuo si crede saggio, potente, padrone della sua vita e degli altri, prepara la sua azione, ma un'altra, quella degli dèi o del fato si scatena e l'abbatte. Di fronte a
questo ignoto, l'eroe stroncato senza colpa, geme e accetta.
Lontano dalla fede di Eschilo e dall'acuta problematica di Euripide, Sofocle non sfi¬da il cielo, si piega alla divinità, lontana e incomprensibile, pertanto la sua dispera¬zione non è meno cupa di quella degli altri tragici. Fra i suoi eroi, vittime innocenti di un cieco destino, Edipo nelle sue celebri tragedie, assume una dimensione esemplare.
Lo stile, fondato sulla chiarezza espressiva e sul torbido pathos dei personaggi, hanno determinato il successo del suo teatro fino ad oggi.
Antigone
Una questione religiosa domina l'intero dramma. Creonte, re di Tebe, ha proibito di dare sepoltura al cadavere di Polinice, traditore della sua città. Antigone, sorella dell'ucciso, la pensa diversamente. Crede dovere morale dare sepoltura al fratello. Pertanto infrange il decreto del re e per questo viene condannata a morte. Viene chiusa viva in una caverna, dove si uccide.
Ma la sua morte provoca altri lutti, la rovina della casa di Creonte. Emone, figlio del re, fidanzato di Antigone, non resiste a tanto dolore e si uccide. Lo stesso fa sua madre Euridice. A Creonte, per non aver voluto o saputo conciliare il conflitto nato tra il diritto di famiglia e quello dello Stato, entrambi legittimi, non resta che invocare la morte.
Un dramma, questo, di grande attualità. Sembra una storia dei nostri giorni. Antigo¬ne ci riporta alle donne incarcerate, torturate, violentate, uccise per reati di opinio¬ne, perché sorelle o mogli di cittadini ritenuti pericolosi (quanto dire traditori) dai governi a regime dittatoriale.
Sofocle in questa tragedia rivela la sua drammaturgia, alla quale resterà fedele in tutte le sue opere. La tragedia è per lui una serie di violenti contrasti, accentrati ad un eroe, al protagonista, che domina tutta l'azione.
Antigone è l'eroina del dovere religioso, è un carattere indomabile, che solo quanti hanno il senso dell'eroico possono ammirare ed amare.
Aiace
Un problema morale è tutta la storia di Aiace, l'eroe più forte dell'esercito greco dopo Achille.
Questi non ha ottenuto dai suoi compagni le armi dell'ucciso Achille, che sono sta¬te assegnate, invece, a Odisseo. Atena, la dea della saggezza, ha fatto impazzire Aiace perché, empio e malvagio, ha respinto nella sua tracotanza l'aiuto divino.
Così Aiace si è disonorato, facendo strage di greggi mentre crede di uccidere gli Atridi e i capi dell'esercito greco.
Il dramma è tutto nell'Aiace savio, che comprende di avere perso la sua gloria, il suo onore, che invoca la morte come unico modo per riabilitarsi.
Infatti senza dubbi o momenti d'incertezza, come un martire della fede, si getta sul¬la sua spada. La sua durezza, la sua inflessibilità, il suo invincibile orgoglio, sono ma¬gnanimità degne di considerazione.
Edipo Re
Argomento dell'Edipo Re è la rovina, senza sua colpa, di un uomo felice e potente. Edipo ci appare nel prologo al colmo della potenza e della gloria. Nell'esodo, dispe¬rato e cieco, vergognoso di sé, infelicissimo nella sua innocenza. In questo è il senso della tragedia.
Edipo, senza saperlo né volerlo, ha ucciso il padre Laio e sposato la madre Gioca- sta. La peste si è diffusa a Tebe su cui governa.
La scena si apre con i Tebani supplici, che invocano dal re, padre del popolo, un sollievo alla malattia. Questa contrasta con l'arrivo di Creonte, che torna gioioso da Delfi con il responso di Apollo.
La peste avrà fine purché si punisca l'uccisore di Laio. Il coro ritorna a pregare e a sperare. Edipo proclama il bando contro l'ignoto colpevole.
Ma la situazione si fa di nuovo angosciosa con l'arrivo di Tiresia, il cieco indovino, che fa le sue terribili predizioni ed è minacciato da Edipo, sicuro di essere innocente di ogni colpa. Tiresia, per pietà, non vorrebbe parlare, ma proprio le sue reticenze irritano Edipo. La tensione si aggrava con il dissenso creatosi con Creonte, sospettato di accordo con l'indovino, e con l'intervento di Gicasta, che corre a mettere pace fra il fratello e il marito. E cercando di rassicurare Edipo, gl'insinua senza volere i primi sospetti.
Allora Edipo vuole ascoltare il pastore, testimone dell'uccisione di Laio. Intanto arri¬va un messo da Corinto che gli annuncia la morte di Polibo, che ha sempre conside¬rato come suo padre.
Questa notizia sembra annullare la verità dell'oracolo. Ma non è così. Edipo ritorna a preoccuparsi. Non teme di aver ucciso il padre, ma di avere sposato la madre. La seconda parte dell'oracolo può compiersi ancora.
Il messo vuol togliergli ogni timore e invece lo insospettisce di più, rivelandogli che non è figlio di Polibo. Al che Giocasta comprende tutto e corre a uccidersi.
Edipo non comprende nulla e si proclama figlio della Fortuna, e il coro canta accarez-zando le speranze del re. Ma ecco che arriva il pastore tebano da cui scopre la veri¬tà, precipitando nell'estrema sventura. Il coro piange l'irrimediabile infelicità umana, e col suo canto allenta la tensione, l'angoscia. La sventura di Edipo rientra in quella universale degli uomini.
Ma questo momento dura poco. La cupa tristezza ritorna nel racconto della morte di Giocasta e dei lamenti di Edipo, che si è accecato e commisera la sua sorte, men¬tre accarezza brancolando le figlie.
Elettra
Tratta lo stesso mito delle Coefore di Eschilo, ma in modo differente. Elettra di Sofo¬cle è un dramma umano, tende più che alla vendetta al riconoscimento tra fratello e sorella, mirabilmente preparato.
Oreste, ritornato ad Argo, racconta la sua falsa morte e porta l'urna con le sue ce¬neri. Elettra, che vuole compiere un atto di giustizia uccidendo la madre assassina, propone alla sorella Crisotemi di aiutarla nel suo proposito. Ma è Oreste a compiere il matricidio, così come l'implacabile Elettra aveva sperato.
Elettra anche se vede nel fratello il vendicatore, ama Oreste ricordandolo, quando bambino, lo circondava di cure materne. Amore, che si esterna nella scena della con-segna dell'urna, che è la più bella della tragedia. E qui, nel piangere il fratello credu¬to morto, si scopre l'animo forte di Elettra, che non conosce né esitazione né viltà, la sua personalità maturata tra infinite sofferenze, la sua tenerezza, che fanno di lei una delle più care e poetiche figure di donna, mai create.
Elettra è il dramma dell'inganno e della morte. Con l'inganno Clitennestra d'accor¬do con Egisto uccise Agamennone, ancora con l'inganno Oreste d'accordo con Elet¬tra ammazza la madre.
La falsità e il tradimento sono le prime armi che il più debole usa, passando poi ai fatti, per sconfiggere i forti e i potenti, per vendicarsi delle offese subite, delle mise¬rie patite.
Un monito e un incitamento, questo, a vivere nella comprensione e nella fedeltà dei principi giusti, nella concordia e nella lealtà, per evitare tanti mali. Lasciando il giudizio e la punizione alla divinità.
Filottete
È il dramma delle sofferenze di Filottete. Ferito a un piede da un morso di serpente, l'eroe è stato abbandonato dai Greci nell'isola deserta di Lemno perché la sua piaga
rendeva pestifera l'aria e le sue grida affliggevano i compagni.
Dopo 10 anni sbarcano a Lemno, Odisseo e Neottolemo, mandati dai Greci per tor- gliergli l'arco e le frecce, che erano appartenute a Eracle. Senza queste armi, secon¬do una profezia, Troia non può essere presa. Poiché non riescono ad avere le armi, i due compagni ricorrono ad un inganno. Ma Neottolemo per pietà e onestà svela a Filottete la menzogna. Segue uno scontro fra Neottolemo e Odisseo, fra Filottete e quest'ultimo, deciso a farsi consegnare le armi.
Ma l'eroe riconferma la sua volontà, Il suo rifiuto, finché appare Eracle, suo compa¬gno d'armi e ricorda a Filottete il destino glorioso che gli è serbato. Come pure l'ordi¬ne divino di andare a Troia perché deve essere espugnata da lui e Neottolemo con il suo arco infallibile.
L'eroe cede al comando divino, che vince il suo odio implacabile contro i compa¬gni. Quell'odio che gli aveva impietrito il cupre, a cui aveva sacrificato ogni emozione.
Di odiare egli ha avuto tutte le ragioni. È rimasto solo per tanti anni senza nessun aiuto in una grotta. Unico suo conforto è stato l'arco con il quale ha ucciso le fiere per sfamarsi. Inselvatichito dal male, dalla vita squallida, dalla solitudine, ha saziato il suo cuore di rancore contro i compagni che lo avevano abbandonato.
Eppure tanti anni di sofferenze non hanno spento nel suo animo i più nobili senti¬menti umani. Si commuove quando sente parlare la sua lingua a Neottolemo, ricor¬da i suoi amici più cari, è vinto dalla pietà religiosa.
Le Trachinie
L'opera prende il nome dalle donne di Trachis, che formano il coro. Contiene due diverse azioni in relazione fra di loro, la tragedia di Deianira e quella di Eracle.
Deianira, al contrario degli altri personaggi di Sofocle, ferrei e risoluti, è debole, do¬cile, esitante e incerta. La sua vita è stata tutta dolorosa. La sua bellezza non le ha portato fortuna. Suo marito Eracle è sempre lontano, per terre straniere a combattere con mostri e malvagi per il bene del genere umano. E Deianira vive in ansia, in attesa del ritorno di Eracle.
E quando le viene annunciato il suo rientro, ha appena il tempo di gioire perché apprende che Iole, la nuova schiava di Eracle, è la sua favorita.
Ma questa donna debole è fortemente innamorata e nell'amore è tutta la sua vita, tanto da perdonare il marito. Tuttavia non si rassegna e vuole riconquistarlo ad ogni costo.
Deianira non ha un impeto d'ira, né un pensiero di venàetta. Soltanto invia allo spo¬so infedele la tunica di Nesso. Crede che sia un talismano d'amore. Invece le rivela¬no che si tratta di uno strumento di morte. Allora in silenzio, senza dire una parola, corre ad uccidersi. Rivelando nel morire quella risolutezza mai mostrata durante la vita.
Con la fine di Deianira comincia la tragedia di Eracle, straziato dalla tunica fatale. Eracle è l'eroe tipico di Sofocle, aspro, intrattabile. Per la sposa morta non ha pietà, né rimpianto, anche quando si convince della sua innocenza.
L'eroe fortissimo è uno sventurato, il quale dopo anni di lotte e di pericolio, non go¬de neanche di un'ora di felicità e muore in modo orrendo, senza che suo padre Zeus lo aiuti.
Ancora una volta i personaggi di questo dramma sono due vittime di un cieco e doloroso destino, strumenti dei misteriosi disegni degli dèi.
Edipo a Colono
È il dramma della morte di Edipo o della sua trasformazione in eroe, raccontato in quattro episodi.
L'arrivo di Edipo, vecchio e cencioso, mendico e cieco a Colono, accompagnato e sorretto dalla figlia Antigone. L'accoglienza prima ostile, poi sempre più benevola, degli anziani di Colono. L'ospitalità concessa da Teseo in nome del popolo ateniese. Infine la morte soprannaturale di Edipo.
Il culmine poetico di questa tragedia sta nel racconto della serena bellezza di Co¬lono e del meraviglioso dileguarsi di Edipo nel bosco della città, fatto per scuotere gli Ateniesi d'un brivido religioso;
Gli dèi hanno mandato in rovina Edipo e ora lo innalzano, non per le sue involonta¬rie colpe, ma perché essi vogliono così. In questo si rivela la fede profonda di Sofo¬cle, fatta soprattutto di rassegnazione davanti ai misteri divini. Per questo i suoi eroi sono tutti grandi anime, che anche nella sventura conservano intatta la loro nobiltà.



EURIPIDE
Nacque a Salamina il giorno e l'anno della famosa battaglia di Salamina 5 settem¬bre 480 a.C. Apparteneva a una famiglia agiata e la tradizione che lo fa figlio di un erbivendolo, deriva da un'invenzione scherzosa dei comici.
A testimonianza di ciò, citiamo quanto attesta Filocoro che era uno storico serio del III secolo, e il filosofo Teofrasto. Il primo dice che la madre discendeva da una famiglia nobilissima, l'altro che Euripe, giovinetto, fu coppiero nelle danze sacre, organizzate ad Atene dai cittadini di condizione molto elevata, intorno al tempio di Apollo Delio.
D'altra parte per poter divenire un tragediografo, dovette ricevere una buona edu-cazione poetica e musicale. Euripide fu il primo a possedere una biblioteca.
Era un uomo molto colto, sentì forte l'influsso del filosofo Anassagora, dei sofisti e di Socrate. Fece presentare la sua prima tragedia le Peliadi nel 455, un anno dopo la morte di Eschilo. Scrisse 92 drammi, ma ne conosciamo 17 e un dramma satiresco il Ciclope.
Nel 408, invitato da Archelao, re di Macedonia, si recò alla sua corte, a Pella, ac¬colto con grandi onori. E qui morì nel 406 a.C.
Quando Sofocle ebbe la notizia della morte, stava per rappresentare una sua te-tralogia. Si presentò al popolo vestito a lutto e come lui gli attori e i coreuti.
Delle tragedie conservate, la più antica, Alcesti è del 438, le due ultime Ifigenia in Aulide e le Baccanti, furono rappresentate dopo la morte del poeta dal figlio Eurpi- de il giovane. Si possono datare con certezza Medea (431), Ippolito (428), le Troadi (415), Elena, (412), Oreste (408).
La cronologia ha particolare importanza perché Euripide, genio inquieto, tentò sem-pre vie nuove, rinnovò continuamente la struttura e la tecnica anche con l'uso del Deus ex machina, la musica e la metrica del dramma. Cose che gli consentirono di rende¬re più complessa l'azione e di trattare con più libertà la materia mitica. Infatti in certi suoi drammi appare come il creatore della poesia e del mito.
Euripide è l'uomo della ricerca e dell'innovazione. Operò di continuo uno smantel-lamento delle divinità tradizionali e lo spirito eroico appare deformato dall'interesse per i suoi personaggi deboli e umili. In effetti la polemica di Euripide fu diretta contro l'Olimpo tradizionale proprio in nome di un'esigenza acutissima dell'eticità del divi¬no, a cui erano lontani dal corrispondere i fantocci del mito.
Quanto agli eroi il poeta ne assunse i nomi tradizionali, ma li fece scendere dai lo¬ro piedistalli. Con il suo razionalismo e scetticismo, con il suo pessimismo e soprattutto la sua finezza psicologica, penetrò a fondo l'animo umano. Nel suo teatro l'uomo, da oggetto rassegnato e impaurito dalla capricciosa incomprensibilità del Fato, si fa sog¬getto attivo e sofferente del proprio destino.
Alcesti
Admeto, re di Fere in Tessaglia, deve morire. Ma per dono speciale di Apollo, che è stato suo ospite, può evitare la morte se qualcuno si sacrifica per lui.
Né il vecchio padre Ferete, né la madre, vogliono dare la vita per il figlio. Soltanto la giovane moglie, Alcesti, accetta il sacrificio.
Ella muore e Admeto piange la sua scomparsa, che non ha impedito. Nella reggia funestata, appare improvvisamente Eracle e Admeto lo accoglie con larga ospitalità senza parlare del suo dolore.
Ma Eracle ha qualche sospetto e domanda a un servo. Commosso della sventura di Admeto, raggiunge Thanatos presso la tomba di Alcesti. Lotta con lui, prende la giovane, il cui eroismo rifulge sull'egoismo e la mediocrità degli altri personaggi, e la riporta sulla terra.
Medea
È una delle tragedie più famose. Ha una perfetta unità estetica ed è un capolavo¬ro di psicologia.
Nel prologo la nutrice di Medea impreca contro Giasone, che ha abbandonato la sua padrona per sposare Glauce, la figlia di Creonte, re di Corinto. Il pedagogo dei figli di Medea comunica alla nutrice che il re vuole scacciare la sua padrona dalla città.
Si odono venire dalla casa, grida di dolore. È Medea che piange la sua infelicità e si assicura il silenzio delle donne del coro nel suo piano di vendetta. Poi fingendosi tranquilla e rassegnata, riesce ad ottenere da Creonte di potere rimanere fino a sera nella città, perché ha già pensato di uccidere con l'inganno la rivale e il re.
Intanto ha un colloquio con Giasone e gli ricorda di avergli salvato la vita, di avere abbandonato famiglia e patria per seguirlo. Ma i suoi lamenti sono vani e la freddez¬za del marito la spinge a perfezionare il suo piano. Manderà i figli dalla rivale, a offri¬re una veste preziosa, che a chi la tocca, dà la morte. Poi ucciderà i figli per vendicarsi ancora più crudelmente dell'offesa ricevuta.
Così per mettere in atto la sua decisione, con fare ingannevole, ottiene da Giaso¬ne il permesso di mandare il dono alla nuova moglie. Tutto si compie com'ella ha tramato.
Un messo annuncia la morte di Glauce e di Creonte. Medea gioisce e non esita più, ha superato i sentimenti di affetto materno. Entra a casa e uccide i figli. Intanto arriva Giasone, che non sa ancora della morte dei figli, per avere ragione della mo¬glie uccisa. Troppo tardi, Medea è già sul carro alato del Sole e gli rivolge parole
spietate e non gli concede neanche i corpi dei figli.
A Giasone non rimane che piangere la sua colpa e la sua sventura. La tragedia è tutta nell'anima di Medea, nel suo indomabile e feroce amore, che si tramuta in odio e in brama di vendetta. Ella sa bene che facendo l'infelicità di Gia¬sone, fa soprattutto la propria.
Ippolito
È un dramma d'amore, concepito come una malattia, una passione indomabile.
Il prologo è recitato da Afrodite. Ella si vede trascurata dal giovane Ippolito, figlio di Teseo, che disprezza l'amore e venera solo Artemide, dedicandosi alla caccia.
Ma di lui è innamorata Fedra, la seconda moglie del padre. La dea causerà la morte di tutti e due.
Giunge sulla scena Ippolito, ancora vibrante della caccia, con i servi e la muta dei cani. Appende una ghirlanda alla statua di Artemide, schernisce Afrodite e scompare.
Il coro compiange il male sconosciuto di Fedra. Ella non tocca cibo e sfiorisce nel¬la sua bellezza. Appare Fedra sostenuta dalle ancelle e si abbandona all'amoroso delirio. Subito si riscuote, si vergogna e piange. Poi confida il suo combattutto amore alla nutrice. Onesta com'è non vuole cedere all'amore, ma nemmeno sa resistere al¬la passione. Unico scampo è la morte.
La nutrice la conforta e le consiglia di guarire dall'amore con un filtro. Invece va da Ippolito e gli rivela il sentimento di Fedra.
Ippolito risponde con ingiurie sdegnose. Allora Fedra, svergognata e affranta, sep¬pure innocente, crede di poter salvare la propria reputazione calunniando Ippolito. Così si uccide, lasciando a Teseo uno scritto, dove accusa il figlio di averla violata.
Con questo comincia la tragedia di Ippolito. Teseo crede alla calunnia della mor¬ta. Ma Ippolito ha giurato alla nutrice di tacere, ed egli vuole rimanere fedele al pat¬to, anche se gli è stato strappato con l'inganno. Così Teseo lo maledice e lo scaccia.
La maledizione s'avvera subito. Ippolito viene travolto dai suoi cavalli, atterriti da un mostro che Poseidone ha fatto sorgere dal mare per preghiera di Teseo, suo figlio. Ma prima che il giovane muoia appare Artemide e proclama la sua innocenza e Te¬seo chiede e ottiene il suo perdono.
Ippolito è un'asceta fanatico della sua castità, che merita commiserazione e com-pianto. La sua giovinezza, la sua innocenza e ingenuità, lo rendono degno di umana pietà. E per questo la sua morte ci commuove di più.
Fedra è la vera creatura del poema, disegnata con insuperabile finezza. Il suo amore parla dolorosamente al nostro cuore, perché ne è vittima.
EraclicH
Hanno per oggetto l'ospitalità che Atene concede ai figli di Eracle, perseguitati da Euristeo. L'episodio più bello è quello del sacrificio della giovinetta Macaria, che ob-bedendo a un oracolo, affronta volontariamente la morte per dare la vittoria ai suoi.
Andromaca
Rappresenta le sventura della vedova di Ettore, che è schiava di Neottolemo, al quale ha dato un figlio. Molosso.
Madre e figlio sono perseguitati da Ermione, moglie di Neottolemo e da suo padre Menelao. Entrambi sarebbero uccisi, se all'ultimo momento non fossero salvati dal vec-chio Peleo.
Alla fine giunge Oreste, che conduce via Ermione, che sposa dopo aver fatto ucci¬dere Neottolemo a Delfi.
Supplici
Le Supplici, che hanno come titolo anche "Le Madri", è una delle più belle e più sconsolate tragedie di Euripide. In essa la sventura delle madri è narrata con straordi¬nario lirismo. Le madri dei sette caduti a Tebe vanno ad intercedere presso Etra, ma¬dre di Teseo, perché si rechi nella città e recuperi i corpi dei figli per dare loro sepoltura.
Teseo chiede la restituzione dei corpi e non ottenendola muove guerra ai Tebani. Li vince e così riporta i corpi alle madri su cui possono piangere tutto il loro dolore, il loro amore perduto.
Le Supplici ci riportano a storie dei nostri giorni. Alle madri di Palermo, di Napoli, dei desaparecidos nel mondo, scese in piazza per reclamare i propri figli alla mafia, alla droga, ai soprusi del potere, mettendo a nudo tutta la loro sofferenza, cercando di scuotere l'opinione pubblica, di trovare umana solidarietà.
Ecuba
Polidoro, figlio di Ecuba e di Priamo, re di Troia, è stato ucciso a tradimento dall'o¬spite Polimestore, re di Tracia. Nel prologo si lamenta di non avere ancora sepoltura.
La prima parte della tragedia presenta il sacrificio di Polisenna sulla tomba di Achille. La quale, pur piangendo la sua giovinezza, affronta coraggiosamente la morte inve¬ce di divenire schiava dei Greci. Ed ella stessa conforta la madre angosciata.
Nella seconda parte mentre Ecuba si appresta a seppellire Polisenna, le viene ri¬portato il cadavere di Polidoro. Allora l'infelice madre, riacquistando vigore, prepara freddamente la vendetta. Con l'aiuto delle prigioniere troiane introduce nella tenda Polimestore e gli strappa gli occhi.
La pietà e l'orrore sono le dominatrici della tragedia.
Troadi
Le sventure delle donne triane sono rappresentate più compitamente nelle Troadi.
Troia è stata conquistata e si addensano le sciagure sulle prigioniere troiane, che sono assegnate come preda di guerra ai Greci vittoriosi. Cassandra diventa schiava di Agamennone e nel suo delirio predice le sventure dei Greci, che ritornano in pa¬tria. Andromaca, schiava di Neottolemo, piange il suo Ettore e abbraccia per l'ultima volta il figlio Astianatte, che i Greci getteranno dalle mura della città espugnata. La vecchia Ecuba, schiava di Odisseo, prima di essere condotta via, dà sepoltura al ni¬pote e ne piange la sorte.
Alla fine Troia crolla tra il fumo e le fiamme.
Tutta la tragedia ha la sua unità nella commossa pietà del drammaturgo, nella sua simpatia per i vinti, nella sua esecrazione della guerra, rappresentata in tutta la sua crudezza.
Eracle
Un cupo pessimismo si avverte in tutta l'azione. Nella prima parte Anfitrione, padre di Eracle, sua moglie Megara e i suoi figli, durante l'assenza dell'eroe, sono condan¬nati a morte da Lieo, tiranno di Tebe.
Ritorna Eracle, uccide Lieo e salva i suoi cari. Ma per volere di Era, senza nessuna colpa, impazzisce. Allora Eracle uccide con l'arco la moglie e i figli, a stento si salva il padre.
Poi l'eroe cade in un sonno profondo. Destatosi, ritorna in sé e piange amaramente la sua sventura. Lo conforta Teseo, che lo conduce ad Atene per purificarsi dei delitti.
La fortuna, la felicità, la gloria di Eracle vittorioso in tanti scontri e battaglie, sono ad un tratto annientate. L'eroe, che non ne comprende la ragione, affranto, vergo¬gnoso e infelice, invoca invano suo padre immortale.
Elettra
Tratta la stessa materia delle Coefore eschilee. Euripide, però, ha trasformato il mi¬to. Ha trasportato Elettra in campagna, dov'è divenuta soltanto di nome, la moglie di un onesto contadino, e l'ha fatta divenire la vera ispiratrice del matricidio di Oreste.
Oreste giunge con Pilade presso la modesta abitazione della sorella. Avvenuto il riconoscimento, concertano il piano della vendetta contro Egisto e la madre Cliten-nestra.
Egisto viene ucciso per primo, mentre celebra in campagna un sacrificio in onore delle Ninfe. Oreste reca il cadavere a Elettra, su cui sfoga il suo odio. Clitennestra vie¬ne attirata con la falsa notizia che Elettra ha partorito. Così si reca nella rustica abita¬zione e qui il figlio la uccide.
Dopo l'omicidio i due fratelli sono turbati dai rimorsi, ma l'intervento dei Dioscuri scio¬glie il nodo dell'azione. Elettra diventerà sposa di Pilade ed Oreste perseguitato dalle Erinni si recherà ad Atene, dove Pallada e l'Aeropago lo assolveranno.
Elena
La bellissima Elena, causa della guerra di Troia, nel prologo racconta le sue disgrazie.
Paride, ingannato degli dèi, ha condotto a Troia il fantasma di Elena, mentre que¬sta veniva trasportata da Ermes, per ordine di Era, in Egitto alla corte di Proteo.
Così la moglie di Menelao, fedele al marito di cui non ha più notizie, non è l'imma¬gine per la quale combattono da anni Greci e Troiani.
In Egitto, Teoclimeno, il figlio del re, se ne è invanghito e vuole sposarla. Elena si rifu¬gia, supplice, presso la tomba di Proteo, che è morto.
Sopraggiunge Teucro, fratello di Aiace, reduce di Troia, il quale è stato cacciato dalla sua città, Salamina, dal padre Telamone perché non ha saputo impedire il sui¬cidio di Aiace. Pertanto sta cercando una nuova patria.
Teucro informa Elena della caduta di Troia e della morte di Menelao. Disperata vuole uccidersi, ma il coro la persuade a consultare l'indovina Teonoe, sorella del re Teo-climeno,
Mentre si reca da lei, giunge naufrago Menelao con la falsa Elena, che è rimasta nascosta in una grotta vicino alle navi. Qui, sorpreso, incontra la vera Elena. Marito e moglie si riconoscono, mentre un messaggero annuncia che la falsa Elena si è di¬leguata.
I coniugi decidono di fuggire e di ritornare a Sparta. Con l'aiuto di Teonoe tramano un inganno contro Teoclimeno. Così s'imbarcano con il pretesto di rendere onore a Menelao, morto in mare, e veleggiano verso la propria terra.
Il re sdegnato, non potendo vendicarsi sui fuggiaschi, vuole uccidere la sorella com¬plice del fatto. Ma appaiono i Dioscuri, i divini fratelli di Elena, i quali salvano l'indovi¬na e placano l'ira del re.
Elena, come Ifigenia taurica e Ione, fa parte dei drammi definiti di Tyche (sorte), che li fa agire a suo arbitrio. Tutte e tre le tragedie a lieto fine, culminano in un incontro e in un riconoscimento, che è opera, infatti, della sorte.
Ifigenia taurica
La giovane, che la dea Artemide ha salvato dal sacrificio in Aulide, è stata condot¬ta fra i Tauri, dove è divenuta sacerdotessa della dea.
Ifigenia stessa recita il prologo. Biasima i sacrifici umani dei quali è costretta ad es¬sere ministra e racconta un sogno riguardante anche il fratello Oreste.
Ed ecco che due prigionieri sono condotti presso di lei. Sono Oreste e Pilade. Ore¬ste, perseguitato dalle Erinni, si è recato nel paese dei Tauri per trasportare ad Atene la statua di Artemide. A questo patto Apollo gli ha promesso di liberarlo dalle Erinni.
I due giovani non conoscono Ifigenia. Né questa, loro. Oreste e Pilade, secondo le leggi del paese, devono essere sacrificati alla dea. Ifigenia li interroga e sa che sono di Argo. Decide di salvare uno di essi purché porti una lettera ad Oreste.
Ognuno dei due amici vorrebbe morire per l'altro. Vince Oreste. Ifigenia consegna il messaggio a Pilade, il quale vuole che lo ripeta a voce, in caso di smarrimento del¬la lettera. Il racconto porta al riconoscimento dei due fratelli tra la gioia di riabbrac¬ciarsi, il ricordo delle sventure passate e l'ansia del pericolo incombente, che li spinge a formulare la fuga.
Ifigenia inganna il re Toante con la scusa di purificare I prigionieri e la statua della dea nel mare. Così s'imbarcano su una nave diretta ad Argo.
II re vorrebbe inseguirli, ma Atena li protegge e fa desistere Toante dal suo proposito.
Ione
L'azione si svolge nel vestibolo del tempio di Apollo a Delfi. Mercurio nel prologo spiega l'antefatto.
Creusa, figlia del re Eretteo, sedotta da Apollo, ha avuto un figlio, che ha esposto ai piedi dell'Acropoli, dove ha subito la violenza. Mercurio per volere del fratello, ha preso il piccolo e lo ha portato a Delfi, dove la sacerdotessa trovatolo presso l'altare, lo ha allevato e consacrato al servizio del dio.
Ad Atene, intanto, Creusa ha sposato Xuto, uno straniero che ha avuto in premio la fanciulla e il trono per aver combattuto per la città.
I due sposi non riuscendo ad avere figli, si recano a Delfi per interrogare Apollo. Il dio vuole che Ione appaia figlio di Xuto e che lo conduca ad Atene per divenire signore della città. Così avviene il falso riconoscimento, che fa ingelosire Creusa tan¬to da volere avvelenare Ione.
Scoperta, deve morire. Il figlio stesso vuole ucciderla e l'insegue con la spada. Creusa si rifugia presso l'altare del dio. Lì trova il cesto dove era stato esposto Ione con gli amuleti e altri segni di riconoscimento.
Madre e figlio si abbracciano. Ione andrà ad Atene e diventerà il capostipite della stirpe ionica. I figli che nasceranno da Xuto e Creusa diventeranno i capostipiti dei Dori e degli Achei.
Ancora una volta la sorte è soggetto attivo di ogni azione umana.
Fenicie
È una delle tragedie che serve meglio a caratterizzare e a fare ammirare l'arte di Euripide. Una serie di scene rappresenta tutta la guerra di Tebe.
Il fatto inizia con il ritorno di Polinice a Tebe insieme ad Adrasto, re di Argo e un po¬tente esercito. È venuto a rivendicare al fratello Eteocle, che lo rifiuta, il diritto a re¬gnare alternativamente nella città.
La madre Giocasta cerca di riconciliarli. Ma è vano. La guerra è inevitabile. Creon¬te, zio materno, consiglia Eteocle a preparare le difese e manda a chiamare l'indovi¬no Tiresia, il quale predice la vittoria se Meceneo, figlio di Creonte, sarà sacrificato.
Meceneo muore eroicamente presso le mura della città. L'assalto degli Argivi è re¬spinto. Si stabilisce allora di risolvere la contesa con un duello fra i due fratelli, dove periscono entrambi. Giocasta a tanto dolore si toglie la vita, mentre la sorella Antigo¬ne e il vecchio Edipo sfogano in lamenti il loro cordoglio.
Creonte assume il governo e ritenuto Edipo responsabile delle sciagure, lo condan¬na all'esilio assieme alla figlia, e ordina che Polinice resti insepolto. Ma Antigone non si piega al suo volere. Seppellirà il fratello e andrà raminga con il padre cieco, che sa di dovere morire presso Atene.
L'umanità e la nobiltà dei sentimenti di alcuni personaggi si contrappongono ai sen-timenti di durezza e di violenza degli altri, causa di distruzione e di morte.
Oreste
L'opera si divide in due parti. Nella prima appare l'eroe, delirante nel suo letto, tor-mentato dalle Erinni per avere ucciso la madre. Elettra lo conforta amorevolmente.
Nella seconda parte Oreste è giudicato e condannato dal popolo di Argo. Per ven-dicarsi di Menelao, che non lo ha difeso per salvarsi la vita, con l'aiuto di Pilade ucci¬de Elena e s'impadronisce di Ermione. Accorre Menelao a liberare la figlia, ma inutilmente.
Allora appare Apollo e rivela che Elena è stata salvata da Zeus e assunta in cielo.
Per suo ordine Oreste andrà ad Atene, dove assolto dall'Aeropago, sposerà Ermione.
Il poeta con una serie di eventi ha voluto dimostrare che una vera purificazione del protagonista non è possibile. Questi non può liberarsi dalle conseguenze del suo de¬litto senza commetterne un altro.
Ifigenia in Aulide
È l'antico mito del sacrificio di Ifigenia, figlia di Agamennone e di Clitennestra. È una tragedia ricca di contrasti e di mutamenti psicologici.
Agamennone, sentito l'oracolo, esita a sacrificare la figlia. Prima scrive alla moglie di condurre Ifigenia in Aulide con la falsa scusa di sposare Achille. Poi invia una se¬conda lettera con l'ordine di non muoversi.
Il fratello Menelao, che intercetta la lettera, lo rimprovera in nome dei Greci, impa¬zienti di salpare verso Sparta. Agamennone fa appello ai suoi sentimenti paterni. Ma quando giunge Clitennestra con Ifigenia è Menelao a non volere il sacrificio, com¬mosso dal àolore di Agamennone.
Ma questi, proprio quando gli si offre la possibilità di salvare la figlia, ricorda il suo dovere di capo al di sopra di ogni altra realtà e decide di sacrificarla.
Ifigenia, che ama la vita e le nozze, supplica il padre di risparmiarla. Ma quando Achille è pronto a rischiare la vita per aiutarla, trova gloriosa e necessaria la sua mor¬te. Il pensiero di essere l'eroina della vittoria dei Greci sui barbari con la presa di Troia, la conforta, la ricompensa della mancata gioia delle nozze e dei figli.
E così nella sua giovinezza va incontro alla morte come a una festa. Invita le vergini a cantare il peana di Artemide, a celebrare con il canto il suo sacrificio.
Nel finale appare Artemide a consolare Clitennestra e le rivela che Ifigenia è salva, perché ha sostituito la fanciulla con una,gerva.
Baccanti
Argomento è la vendetta di Dioniso o Bacco contro i nemici del suo culto. Recita il prologo il dio stesso. Egli è venuto a Tebe, nella città di sua madre Semele, per istituire il suo culto e per
vendicarsi delle sorelle di sua madre, Agave, Autonoe e Ino, che incredule della divi¬nità del nipote, disprezzano e calunniano Semele.
Il coro composto di Menadi Lidie esalta i prodigi e la potenza del dio. Le donne tebane guidate da Agave, celebrano il culto, avviandosi verso il monte Citerone. An¬che il vecchio padre Cadmo e l'indovino Tiresia si avviano per partecipare alle misti¬che orgie.
Soltanto Penteo, re di Tebe, figlio di Agave, si oppone. Schernisce gli anziani, deri¬de il dio e lo fa imprigionare. Subito si compie la liberazione. Trema la terra e la reg¬gia va in fiamme. Penteo si salva a stento.
Dioniso ritorna fra le sue seguaci. Un messo racconta al re i prodigi delle Baccanti, che allattano i cuccioli dei lupi, fanno scaturire acque, miele dai tirsi, come pure la devastazione che stanno apportando in tutta la contrada, distruggendo gli armenti, avventuandosi contro di lui e i suoi compagni nel tentativo di riportare Agave a Tebe.
Penteo vuole domare le ribelli, che a suo giudizio, stanno sovvertendo l'ordine mo¬rale, e non tiene conto di questo ammonimento.
Spinto da Dioniso, che gli toglie il senno, si traveste da Baccante e va al Citerone. Qui, Agave sotto l'impero della sacra pazzia, strazia con le altre Baccanti il figlio Pen¬teo. Così appare sulla scena con infitta sul tirso la testa del figlio, che crede di un leo¬ne, glorficandosi della bella preda e invocando Dioniso.
Ma, a poco a poco, riprende coscienza e riconosce il misfatto. Comprende la ven¬detta del dio, il suo trionfo. Si è servita della madre per punire l'empietà di Penteo.
Le Baccanti non sono il dramma dell'ebrezza dionisiaca, ma il dramma dell'umana debolezza dinanzi alla potenza, anche ingiusta e crudele, della divinità.
Infatti, la scena più atroce è quella del rinsavimento di Agave. Quando passa in un crescendo, dal delirio bacchico allo stupore, allo sbigottimento, all'orrore, alla di-sperazione consapevole.
Nelle opere di Euripide le nuove idee sofiste di mettere tutto in discussione, di scru¬tare il fondamento di ogni cosa, senza mai arrestarsi, sono esposte, teorizzate, da avere l'impressione che ne sia propagandista e apostolo.
Euripide è un ricercatore di Dio, giusto e buono, sovrano ordinatore del mondo. Ma la sua speranza viene meno nella considerazione dei casi e delle azioni degli uomini, delle sventure e del male del mondo. Per cui, come rileviamo dai lavori, la sua anima rimase sempre in balia di quella "speranza" continuamente perdente e altresì risorgente, insita nella realtà quotidiana della vita stessa. E da questa, nella considerazione della debolezza umana e dell'irrimediabile infelicità, sono generati i suol eroi forti e innocenti, fragili e sognatori, affettuosi e passionali, che acquistano il diritto alla nostra pietà.
Il loro eroismo è come un fiore delicato, nato dove non ci si sarebbe aspettato. In questo è l'originalità, la poesia di Euripide, creata per gli spiriti che sanno intendere la sua delicata sensibilità, la sua traboccante tenerezza.

CONCLUSIONE
Il ricorso biennale delle rappresentazioni classiche nel teatro greco ci consentono di conoscere la poesia dei tragici greci, di riaccostarci alla perennità dei principi etici- morali contenuti nelle loro opere. In questo è il loro eterno valore.
L'illusione del teatro gioca il suo fascino per ritrovare nei personaggi e nei fatti delle tragedie le voci nascoste e universali dell'anima, il mistero degli esseri umani.
Sulla scena rivivono i travagli e le speranze, le vittorie e le sconfitte degli uomini, nella ricerca costante della felicità.

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