I Vespri Siciliani.
Ebbero inizio a Palermo il 30 o 31 marzo del 1282, lunedì dell'Angelo, nel corso della celebrazione del Vespro nella Chiesa di Santo Spirito di Palermo, oggi inglobata nel cimitero di Sant'Orsola,
E la palumma gialla isò la testa
e dritta si puntò supra li pedi:
si vitti l'ugna addivintari accetti;
nta l'occhi ntisi lu focu svampari
e scattari lu cori intra lu pettu,
dda propriu unni la manu la firìu.
E lu lupu di raggia si vistìu,
e a ogni pilu na lancia ci spuntò,
strazzò lu celu ccu li ranfii all'aria
e ccu li denti muzzicò lu ventu.
Luttò aggirbatu, ccu li lami all'occhi
e la terra trimò, russa di sangu.
E la palumma gialla, ad ali stisi,
vulò tutti li munti e li chianuri
e l'acqua di lu celu e di lu mari
e tutta, d'intra e fora, la vutò.
Muzza cascò la testa di lu lupu
sutta na macchia tènnira di cìciri
e la palumma gialla chiusi l'ali
e nta lu giuccu so turnò a cuvari.
Palumma, ca vulannu jornu e notti,
vai carriannu fraschi a lu to nidu,
chi non lu vidi ca li palummeddi
su' spersi cca e dda, n-cerca d'amuri?
Ma cu' po dari amuri a li to' figghi,
si n-celu e n-terra arregna lu spruveri?,
si ancora, pi paisi e pi trazzeri,
lu lupu a gargi aperti arraggia ancora?
Cridisti ca ccu l'ali l'ammazzasti,
ma è lupu a setti viti e a setti testi
chi cangiò di pilami e di culuri,
ma ccu la testa nova azzanna ancora
Lu celu è chiummu e l'arvuli su' sicchi,
la terra è nugghia e pènnunu li rosi,
frisca lu ventu e sbattunu catini
e càscanu li pinni a li to' ali.
E pùngiunu li spini di li to' zammari
e lu sangu ti nesci di li vini.
Si' stanca, palummedda, di vulari !
Te' cca, palumma e mettitillu intra lu pettu;
te' stu me sangu e jìnchiti li vini
e vola pi li strati d'ogni celu.
Cerca Duceziu e fatti cunsignari
tutta la forza so e lu so curaggiu,
jùngila ccu la forza di li Vespri
e chiama a lu so latu tutti pari:
Eunu, Salviu, Alesi e Squarcialupu,
nfina a Bagnascu e a Ntoniu Canèpa:
su' tutti Vespri, palummedda mia,
Vespri ca tu ha' purtatu pi li voschi
a ricampari pàmpini di cerza
nfina a lu sogghiu di lu nidu to,
unni però lu lupu, a tradimentu,
senza nudda pietà ti l'ammazzò.
Lu lupu è forti, palummedda mia,
forti e ngannusu, latru e senza cori
e tu non poi chiù ancora lacrimari:
Isa la testa, palummedda mia,
punta li pedi e tòccati lu pettu,
fàuci l'ugna fatti addivintari
e l'ali aperti addivintari accetti;
vola tutti li munti e li chianuri,
rivota l'acqua tutta, d'intra e fora,
e grida ancora mora mora mora.
TURI LIMA
Carlo I d'Angiò (1246-1285), Conte, sconfitto ed ucciso Manfredi, si fece incoronare re di Sicilia nel 1266.fu successivamente anche re di Albania, re di Gerusalemme e principe di Acaia, e, infine, conte di Provenza per il suo matrimonio con Beatrice di Provenza.
Il suo innato odio per i Siciliani, lo portò a vessarli ingiustamente, oltre ogni limite, con un sistema feudale arretrato e corrotto fondato sulla violenza e sull'arbitrio e ferì l'orgoglio dei Siciliani trasferendo la capitale da Palermo a Napoli.
Molti nobili siciliani lasciarono l'isola per rifugiarsi alla corte di Pietro III d'Aragona che aveva sposato Costanza, figlia di Manfredi, sperando di convincerlo ad intervenire contro il tiranno.
Carlo d'Angiò e il suo stemma
Le ragioni dei Vespri
Alla morte di Federico II la corona imperiale passò al figlio Corrado IV; questi, essendo impegnato in Germania a causa di continue tensioni politiche, nominò suo Vicario il fratellastro Manfredi (figlio naturale di Federico e di Bianca Lancia, che l'imperatore sposò "in articulo mortis").
In questo particolare clima, l'annoso conflitto tra Chiesa e Impero si acutizzò e papa Innocenzo IV non se ne stette inoperoso, anzi, volendo evitare che il papato fosse soffocato dalla morsa sveva da nord a sud, cercò di dare una rapida soluzione al problema della successione al trono di Sicilia e con una politica antisveva si mosse in una duplice direzione: da un lato, appoggiandosi ai baroni ribelli del regno, e dall'altro, cercando un principe ligio alla Chiesa, cui concedere l'investitura e riportare, quindi, l'Isola sotto il controllo pontificio.
Servendosi della mediazione di Bartolomeo Pignatelli, Arcivescovo di Cosenza, acerrimo nemico di Manfredi, offerse, nel 1252, la corona della Sicilia sia a Riccardo di Cornovaglia, fratello di Enrico III d'Inghilterra, sia a Carlo d'Angiò, fratello di Luigi IX di Francia. Ma le condizioni del Papa erano così onerose che entrambi rifiutarono. Alla morte di Corrado IV, avvenuta per malattia il 21 maggio 1254, essendo erede il piccolo Corradino, che si trovava in Germania, la reggenza tocco al Manfredi.
A seguito di questa nuova situazione, il 25 maggio di quell'anno, Enrico III accettò la corona siciliana per suo figlio Edmondo di Lancaster, che assunse ufficialmente il titolo di Re di Sicilia. I papi che seguirono, Alessandro IV e Urbano IV, fecero di tutto per affermare la loro supremazia sull'Isola. Le trattative tra la Corte Inglese e la Santa Sede si trascinarono senza convinzione per più di sei anni e quando si capì che gli Inglesi non avevano alcuna voglia di venire in Sicilia, Alessandro IV depose Edmondo e scelse, al suo posto, Carlo d'Angiò.
A Carlo, in quanto cadetto, veniva data l'opportunità imprevista di ottenere un regno.
Questi aveva ben poco interesse per la Sicilia in sé, ma promise che con l'investitura avrebbe rinunciato ai diritti della "Legatia Apostolica".
Incoronato a Roma cinque anni dopo (nel 1265) da Clemente IV, Carlo, dichiarata una guerra santa con lo scopo di sottomettere definitivamente il Regno di Sicilia, partì per sottrarre l'Isola a Manfredi, che teneva il trono dal 1258, essendo stato eletto, nel frattempo, Re di Sicilia dalla "Voluntas Siculorum", cioè dal Parlamento Siciliano, con conseguente incoronazione solenne nella cattedrale di Palermo.
Manfredi cercò disperatamente di difendere l'indipendenza del regno, ma nella battaglia di Benevento del 1266 venne sconfitto e ucciso dai francesi. Dante, con ammirazione, ne cantò la morte e lo descrisse: "biondo era bello e di gentile aspetto, ma l'un de' cigli un colpo avea diviso", lamentando come l'Arcivescovo di Cosenza gli avesse negato perfino la sepoltura, lasciandone il corpo in pasto ai cani sulle sponde del fiume Calore. L'animo dei siciliani, per lealismo verso la casa sveva, si rivolse allora a Corradino invitandolo a trasferirsi in Sicilia per cingere la corona che gli spettava, quale discendente di Federico. La spedizione di Corradino si concluse a Tagliacozzo, dove fu sconfitto il 23 agosto 1268. Tradito, nel castello di Astura, dai Frangipane, fu consegnato agli angioini che lo decapitarono il 29 ottobre, nella Piazza del Mercato di Napoli. Carlo d'Angiò, per punire la ribelle Sicilia, mandò nell'isola il più feroce e spietato dei suoi luogotenenti, Guglielmo d'Etendart, che commise efferatezze indicibili e soprusi di ogni genere.
Iniziava, così, dopo quattro anni di sangue e di orrori, nel 1270, la dominazione francese, periodo da annoverare tra i più tormentosi della storia siciliana.
Il regno angioino non fu felice. Carlo non seppe farsi amare, non venne in Sicilia se non una volta e di passaggio. Spostò il centro del regno nel continente, trasferendone la capitale da Palermo a Napoli.
Instaurò un'avida politica fiscale e riempì l'Isola di truppe francesi, per lo più mercenarie, che ovunque passavano razziavano e perpetravano ogni forma di abuso e di delitto. E se a questa miserevole situazione aggiungiamo la proibizione assoluta, per i siciliani, di portare armi che consentiva ai soldati di perquisire anche le donne, la tassa sul matrimonio - una sorta di "jus primae noctis" - e tanti altri balzelli, ben si potrà comprendere ciò che avvenne la sera del Vespro, allorquando il sergente francese, Drouet de Genlis, dinanzi alla Chiesa di Santo Spirito, oltraggiò la giovane nobildonna Benvenuta di Mastrangelo, sposa di Guglielmo di Santafiora, mettendole le mani addosso con la scusa di una perquisizione alla ricerca di armi nascoste. Al grido di "mora, mora", la reazione popolare fu terribile e spietata. Gli Angioini furono cacciati da ogni luogo della Sicilia, senza ausilio di forze straniere. Il 3 aprile 1282, Palermo e Corleone stipularono un "atto di confederazione", un accordo sottoscritto da ventinove rappresentanti delle due città per combattere l'Angiò.
L'atto di confederazione, rogato da un certo notaio Benedictus (conservato presso la Biblioteca Nazionale di Palermo), tra le altre cose, istituiva la bandiera dei Vespri, giallo-rossa - il colore giallo della bandiera di Palermo e il rosso della civica di Corleone -, in diagonale con la triskèles al centro.
Nel giro di pochi giorni, quasi tutte le città siciliane insorsero. Anche Messina - che pure era stata la favorita degli angioini -, dove le truppe di Carlo furono respinte dal popolo, chiamato a raccolta, la notte dell'8 agosto, da due coraggiose donne, Dina e Clarenza, ricordate ancora oggi nelle due figure bronzee che battono le ore nell'orologio meccanico del campanile del Duomo. Solo a Sperlinga il vespro non suonò, fu l'unica fortezza a non ribellarsi ai francesi: «Quod Siculis Placuit Sola Sperlinga Negavit» (La sola Sperlinga negò ciò che piacque ai siciliani). Una guarnigione di francesi ivi presente, dovendo scegliere tra la fuga, la resa e la difesa, si asserragliò all'interno del castello.
Per circa un anno gli angioini resistettero all'assedio, aiutati da alcuni signori locali, che facevano loro arrivare viveri e armi. L'assedio, che sembrerebbe solo una leggenda, fu confermato dallo storico Michele Amari, che trovò alcuni documenti nell'archivio della corona a Napoli. (I fatti accaduti a Sperlinga, per la loro singolarità, suscitarono sgomento e clamore in tutta la Sicilia ed anche altrove e per imperitura memoria, sul finire del XVI secolo, sull'arco a sesto acuto del vestibolo del maniero fu inciso l'esametro latino).
Il Parlamento Siciliano, sia per lealtà dinastica, sia per liberarsi definitivamente dalla tirannide francese, espresse, ancora una volta, la "Voluntas Siculorum" chiamando Pietro III d'Aragona che aveva sposato Costanza d'Altavilla, figlia di Manfredi e legittima erede al trono. Pietro fu incoronato a Palermo il 4 settembre 1282.
La guerra del Vespro durò venti anni e si concluse con la Pace di Caltabellotta, sottoscritta il 31 agosto 1302 da Carlo di Valois, comandante delle forze francesi, e da Federico III, terzogenito di Pietro d'Aragona.
La Pace ottenuta fu un trionfo per la Sicilia che, grazie ad un'epica rivoluzione, era riuscita a salvare la propria indipendenza e sovranità.
Restava però un grosso problema: una clausola del trattato prevedeva il ritorno dell'Isola agli Angioini - che continuavano a mantenere il titolo di Re di Sicilia -, alla morte di Federico III, a cui veniva concesso il titolo di Re di Trinacria. Da parte sua, Federico non pensò minimamente di rispettare tale formula e non trovò mai il tempo di fare ratificare il trattato dal Parlamento Siciliano, ben sapendo che senza quella ratifica la clausola non avrebbe avuto nessun valore legale. Anzi, nel documento del 31 agosto 1302, con il quale annunciava ai siciliani che era stata firmata la pace, scrisse orgogliosamente: «habemus insulam Siciliane et Rex Siciliae remanemus».
Come il suo bisnonno "Stupor Mundi", Federico III amò molto la Sicilia ed ebbe una particolare predilezione per la città di Catania, nella cui cattedrale, alla sua morte, volle essere sepolto. Spirò il 25 giugno del 1337 all'età di sessantatre anni, dopo quarantuno anni di regno glorioso. Di sicuro "I Vespri Siciliani" rimangono fulgido esempio della dignità e della fierezza del Popolo Siciliano che coscientemente combatté per la sua libertà, affrontando responsabilmente tutte le incognite della guerra contro il Francese, attentatore della propria sovranità. Una pagina di storia schietta e pura che, nel tempo, ha ispirato poeti, pittori e musicisti.
Giuseppe & Salvo Musumeci