Sicani storia - Sicilia e Siciliani

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
Sicilia
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Sicani storia

Sicani
Secondo gli storici, l’uomo apparve in Sicilia circa ventimila anni fa, durante un periodo chiamato Glaciazione di Wurm. Si sono trovate tracce di questi primi abitanti in numerose grotte sparse per tutta l’isola e, in particolar modo, lungo le coste. Quelle notevolmente più interessanti per le pitture e le incisioni di figure di esseri umani e di animali sono le grotte dell’Addaura e quelle dell’isola di Levanzo, ancora unita, in quel periodo, alla Sicilia.
Dalle ricerche degli archeologi è risultato che diciottomila anni fa, in Sicilia, vi furono insediamenti appartenuti ad una razza Mediterranea, mentre risale ad ottomila anni fa lo sviluppo dell’arte della ceramica. Prima che la Sicilia subisse le varie colonizzazioni che nel tempo si succedettero, esistevano numerosi centri abitati, costruiti sia in muratura che in legno.
Gli uomini di questo popolo erano molto robusti, le donne più piccole ed armoniose. Avevano in prevalenza capelli biondi e occhi chiari, non guerreggiavano fra loro e si nutrivano di frutti, bacche e verdure, che la terra donava loro spontaneamente, di miele selvatico e latte.
Anticamente le comunità erano divise in clan e spesso i matrimoni avvenivano tra appartenenti alla stessa famiglia. I membri di uno stesso clan si consideravano discendenti da un mitico fondatore, dal cui nome derivava il nome della popolazione stessa: gli Eoli da Eolo, gli Elimi da Elimo e i Trinaki da Trinako. Il primo regno dell’isola si sviluppò tra le rive del fiume Sicano, che oggi si chiama Salso o Himera Inferiore.
Si narra che Egeone, che i Greci chiamavano Briareo, sia stato il più antico Re Sicano: questi chiamò il suo primogenito proprio Sicano. Pare che il rapporto di parentela sia stato leggermente diverso, ovvero pare che Sicano fosse figlio di Trinako, a sua volta figlio di Egeone e Cimopolia. Il nome di Trinako significava tridente, simbolo del dio Nettuno mentre pare che il nome di Sicano derivi dalla parola sika, che significava selce.
Proprio con la selce, i sicani costruivano dei pugnali ricurvi detti sike. Alla morte di Egeone il regno passò a Trinako ed il suo territorio fu chiamato Trinaka che divenne poi Trinacria, che non deriva dunque dalla forma triangolare della Sicilia, anche perché con gli strumenti di cui erano in possesso gli antichi, non avrebbero mai potuto stabilire la forma di un’isola così grande.
Che fossero più alti e robusti di noi si è dedotto da molte cose, prima fra tutte le immense costruzioni in pietra che ci hanno lasciato e che, con i mezzi del periodo, solo uomini molto robusti avrebbero potuto erigere, molte di queste sono simili ai dolmen e ai menhir della Gran Bretagna. Forse furono opere di significato religioso.
Questi popoli rispettavano moltissimo le donne, che erano viste come generatrici di vita, queste erano molto gelose dei loro uomini, forse deriva da ciò la proverbiale gelosia dei siciliani. Viceversa gli uomini non erano gelosi delle donne, il Re Cocalo mandava le proprie figlie a spogliare e rivestire gli uomini quando si recavano al bagno. Quando in una tribù le donne erano in numero maggiore degli uomini, erano mandate a cercarsi il marito in altre tribù ed erano chiamate perciò fanciulle vaganti.
Oltre alla sike che allacciavano alla cintura, i sicani usavano altre armi, erano formidabili costruttori di archi. Tagliavano da un albero, simile alla betulla, rami flessibili della lunghezza di circa un metro e mezzo, li tenevano immersi in acqua per alcuni giorni, li scortecciavano dandogli la forma dell’arco, li raschiavano togliendo le impurità, li facevano essiccare all’ombra per circa un mese, li immergevano in una resina mista ad olio fatta sciogliere a fuoco lento. Il legno assorbiva la resina e diventava più flessibile e robusto. Le corde degli archi si ottenevano dalla lavorazione dei tendini di grossi animali, le frecce si ottenevano, invece, tagliando sottili canne d’india, ripulendole e privandole di sporgenze, nei due buchi erano inseriti dei tappi di legno e vi si praticavano: in quello che andava dal lato della corda una tacca per farvela aderire meglio, nell’altro una tacca più profonda dove era conficcato un triangolo di selce.
Quando la punta penetrava nella carne non poteva più essere estratta, perché tirando la canna essa fuoriusciva dalla tacca e rimaneva nel corpo: molti nemici morivano più per le infezioni che per i danni diretti. Lo stesso sistema delle frecce era usato per la fabbricazione dei giavellotti, le punte venivano fissate però, questa volta alle aste molto saldamente.
Usavano anche un’enorme ascia di pietra molto tagliente, in grado, anche perché maneggiata dalle loro corpulente braccia, di spaccare in due una corazza. Erano soliti combattere nudi, a piedi o su cavalli che montavano senza uso di selle o parature. Non toccavano mai i cadaveri dei nemici e, per stordire gli avversari, usavano la frombola o fionda, che costruivano con un pezzo di foglia di agave e due cordicelle intrecciate di erica. Sulla foglia ponevano un sasso tondo e, facendolo roteare vorticosamente, tenendo i due capi della cordicella, lo lanciavano con enorme forza e precisione contro le teste degli avversari.
A differenza di quanto si è creduto per molto tempo essi erano molto ingegnosi, per costruire, ad esempio, delle opere di una certa altezza, erigevano, vicino alla base della costruzione, delle montagnole di terra argillose mista a pietre. Spingevano i massi lungo il pendio della montagnola fino a portarlo all’altezza desiderata, lo ponevano sopra la base e lo rinsaldavano con argilla. Terminata la costruzione demolivano le montagnole, portavano via i detriti e, dopo aver spianato la zona circostante il monumento, lastricavano tutt’intorno.
I Sicani non seppellivano i loro morti, li sdraiavano su delle piattaforme rialzate e li lasciavano in pasto ad uccelli ed insetti dopo averli ricoperti d’ocra rossa tranne che sul viso e sui genitali, per permettere all’anima che doveva reincarnarsi di scegliere l’aspetto ed il sesso.
Interessanti erano anche i riti che praticavano in agricoltura, nel periodo della semina spargevano i semi tra canti e danze, li pressavano con i piedi, dentro il terreno per impedire agli uccelli di beccarli. Quando le messi erano mature, i più giovani cantavano e suonavano flauti e tamburelli a sonagli per impedire, sempre agli uccelli, di depredare il raccolto. Durante il periodo del raccolto stesso poi avveniva un rito detto delle lumache, delle quali i Sicani erano golosissimi.
Un Re Sicano di cui sono giunte notizie è Licaone, figlio di Belo il Pelasgio, regnò su un popolo di pastori e morì in combattimento insieme ai suoi figli. La moglie Eribea, alla morte del marito sposò un altro re di nome Ofirio, detto libico, che in lingua sicana significava infiammato, probabilmente tale soprannome lo dovette al colore bruno della sua pelle. L’unica figlia che sopravvisse a Licaone fu Peribea, la quale sposò un altro principe sicano, un certo Butaia, figlio del leggendario Sicano ed ebbe con questi due figli: Policaone, detto Erice e Licasta la sacerdotessa.
Policleone regnò per molti anni sulla tribù dei Ciclopi e fu il primo re a far erigere le prime costruzioni in muratura servendosi di manodopera fenicia, sposò una donna di nome Aristecma ed ingrandì il suo regno assorbendo altre popolazioni che vivevano a sud di esso, ebbe due figli: Policreonte e Psofide.
Policreonte si trasferì verso ovest e fondò una nuova città, vicino dove oggi sorge la città di Alcamo, sposò Egesta, figlia del mercante Fenodamante, dalla quale ebbe tre figli: Aceste, Eolo e Segesta, il valoroso Policreonte morì sbranato da un orso.
La sorella di Policreonte, Psofide, sposò il prozio Melkart, più famoso con il nome di Ercole e gli diede due figli: Echefrone e Pronaco e qui la storia si fonde alla leggenda.
Il Cocalo di cui parlavamo prima, figlio di Ebalo, che regnò sull’isola di Favignana, detta allora l’isola delle capre, ebbe un regno molto esteso. Divenne famoso per aver sconfitto l’esercito cretese dei figli di Minosse II, sposò Indara e si dice che abbia nascosto sul monte Kronio, l’attuale San Calogero, un ingente tesoro, ritrovato da un frate del santuario che si trova sul monte, il quale dopo averlo sperperato si pentì e si uccise gettandosi sulla scogliera dallo sperone di Camordino. Dopo la morte di Minosse i cretesi occuparono il sud est dell’isola ed assalirono Cadimo, capitale del regno di Cocalo. Deucalione affidò parte dell’esercito al fratello Accacalle per presidiare il territorio, alcuni abitanti fuggirono verso nord dove fondarono Eraclea, l’odierna Cefalù. Anche questa volta i sicani riuscirono a sconfiggere i cretesi, ponendo termine alla Guerra di Camico o dei cinque anni.
I Sicani, per affamare i Cretesi ricorsero all’astuzia, approfittando di una tregua per seppellire i morti, catturarono molte volpi, nel periodo in cui i Cretesi dovevano raccogliere il grano che avevano seminato per sfamarsi, vicino ai campi di battaglia, legarono delle torce accese alle code delle volpi e le lasciarono libere. Le bestiole, correndo per il dolore, incenerirono il raccolto cretese. Gli assalitori si divisero, alcuni guidati da Japige rubarono le navi e fuggirono, ma una tempesta distrusse la flotta. Altri rimasero e fecero pace con Cocalo che diede loro della terra, dove Accacalle fondò Gangi.
Questo è grossomodo quello che si sa sui Sicani, poi giunsero nell’isola i Siculi e posero termine al periodo delle città – regno.
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