oro della Sicilia - Sicilia e Siciliani

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
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oro della Sicilia

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Forse non c’è più una pubblica opinione al Sud, forse c’è solo un’onda di generica voga sentimentale tutta di tarante e di eventi perché, certo, è il posto più bello del mondo il Sud. Se c’è cornice più consona all’impalpabile idea della “qualità della vita” altro luogo non può darsi che può che questo. Si torna sempre a Surriento ma si paga il prezzo di uno stupro, qui. Gli italiani non hanno saputo fare quello che i tedeschi hanno realizzato con l’unificazione della Germania e forse perché la Ddr era povera mentre, invece, qui, questo entroterra – da dove scrivo – era ricco e florido e lo sanno bene gli omini chiamati a custodire il deposito aurifero della Repubblica italiana: il 70 per cento dei lingotti ha lo stemma del Regno delle Due Sicilie. Come ancora non ci siano i nuovi Vespri – la rivolta di popolo – non si sa. Come da Napoli in giù, come tutto il Sud, abbia ancora a muggire paziente è un mistero.
Dal 1860 al 1870 i piemontesi riuscirono a depredare tutto quello che c’era da prendere, svuotarono le casse dei comuni, quelle delle banche, quelle dei poveri contadini, quelle delle comunità religiose, dei conventi; saccheggiarono le chiese e le campagne; rubarono opere d’arte, quadri, statue.
L’attacco dello Stato unitario al Sud
Riserve Auree e Sistema bancario
di signoraggio.com
Al momento dell’unità, il Sud possedeva riserve auree pro capite doppie rispetto al Nord.
Alcuni centri del Sud, anche importanti, erano privi di filiari bancarie, ma questo era anche giustificato dal mite, razionale e semplice sistema fiscale, ed ai fini dello sviluppo economico il sistema fiscale non è meno importante di quello bancario. Inoltre esistevano al Sud 761 stabilimenti diversi di beneficenza, oltre 1.131 monti frumentari, il 65 per cento del totale italiano, che, fornendo anticipazioni per le attività agricole ad interessi quasi nulli, erano una sorta di credito agrario, sia pure embrionale. Ed inoltre vi erano le casse agrarie e di prestanza…
 Due Sicilie 21,4
 Lombardia 32,0
 Toscana 17,0
 Romagna, Marche e Modena 19,0
 Parma e Piacenza 0,4
– I depositi bancari pro-capite alla vigilia dell’unità – Lire
Il relativo ritardo del sistema bancario era dovuto a fattori non strutturali: non erano i capitali a mancare al Sud rispetto alla media italiana! Inoltre la borghesia napoletana presentò nel 1860 il progetto per la costituzione di una moderna banca con L. 25,5 milioni di capitale. Se non se ne fece niente, lo si dovette al governo “unitario”.
Si ripiegò sull’ammodernamento del Banco di Napoli, e nei primi cinque anni dell’unità si scatenò una lotta feroce con la Banca Nazionale, piemontese. Il progetto di legge per radunare le riserve auree del Sud nel Banco non fu approvato dagli organi competenti su pressione della Banca Nazionale. Verso la fine del ’65, la Nazionale era in gravissime difficoltà e lo Stato intervenne a salvarla con la legge sul corso forzoso. Ciò prova che la politica del nuovo Stato italiano penalizzò pesantemente il sistema bancario del Sud. E’ importante sottolineare che entrambi questi istituti di credito sono istituti di diritto privato e pertanto non statali. Ma lo Stato dimostra ancora una volta di non avere a cuore le sorti dell’intera collettività, ma solo di quelle del Nord.
La politica fiscale
La politica fiscale perseguita dallo Stato unitario fu un caso di vero e proprio drenaggio di capitali che dal Sud andarono al Nord. La pressione fiscale in agricoltura crebbe sotto i Piemontesi e crebbe in maniera difforma, non equa. Così, mentre nelle Due Sicilie si pagano 40 milioni d’imposta fondiaria, nel 1866 se ne pagheranno 70, contro i 52 del Nord.
La sperequazione è anche più evidente se si considerano le aliquote per ettaro: nelle province di Napoli e Caserta si pagano L. 9,6 per ettaro contro la media nazionale di L. 3,33. Lo stesso avviene per le tasse sugli affari che incidono per L. 7,04 pro capite in Campania, ontro 6,4 in Piemonte e 6,87 in Lombardia.
In seguito, quando si pose il problema di perequare l’imposta nelle provincie [nota61: L’imposta non era sul reddito, ma si stabiliva, secondo certi parametri, su base regionale] (Lombardia, napoletano) che pagavano di più, il risultato fu che le tasse diminuirono in Lombardia ed aumentarono nel napoletano. Si calcola che l’ingiustizia fiscale sia costata al Sud 100 milioni/anno e che abbia ricevuto dall’erario nei primi 40 anni dall’unità molto meno di quanto sborsasse.
Negli anni seguenti le cose non cambieranno, così nel primo decennio del secolo una provincia depressa come quella di Potenza paga più tasse di Udine e la provincia di Salerno, ormai lontana dalla floridezza dell’epoca borbonica essendo state chiuse cartiere e manifatture, paga più tasse della ricca Como.
 Imposta personale
 Tassa sulle successioni
 Tassa sulle donazioni, mutui e doti; sulla emancipazione ed adozione
 Tassa sulle pensioni
 Tassa sanitaria
 Tassa sulle fabbriche
 Tassa sull’industria
 Tassa sulle società industriali
 Tassa per pesi e misure
 Diritto d’insinuazione
 Diritto di esportazione sulla paglia, fieno ed avena
 Diritto sul consumo delle carni, pelli, acquavite e birra
 Tassa sulle “mani morte”
 Tassa per la caccia
 Tassa sulle vetture
– Le imposizioni fiscali che furono imposte al Sud subito dopo la conquista piemontese
Con l’unità, inoltre, il Sud farà altre spiacevoli conoscenze, oltre che con la massa di tasse portate dai piemontesi: il debito pubblico pro-capite degli Stati sardi era il quadruplo di quello dell’Antico Regno e il Sud fu costretto ad accollarsi centinaia di milioni spesi dal Nord. Il debito pubblico si accrescerà di altri 3,4 miliardi nei primi dieci anni dell’unità.
Non è tutto: la vendita dei beni ecclesiastici frutterà allo Stato unitario oltre 600 milioni. I capitali del Sud furono così rastrellati e resi disponibili per iniziative al Nord, i latifondi risultarono incrementati, sottraendo ai contadini gli “usi civici” precedentementi trattati.
La pressione fiscale non diminuirà al Sud neanche nel periodo 1885-97, i duri anni della crisi protezionistica: indicative sono le cifre per espropiazioni per il mancato pagamento di tasse.
La spesa pubblica
La spesa pubblica appare prevalentemente concentrata al Nord.
 Lombardia 92.165.574
 Veneto 174.066.407
 Emilia 130.980.520
 Sicilia 1.333.296
 Campania 465.533
– Distribuzione della spesa pubblica in Lire (1860-1898)
Il totale delle spese pubbliche fino al 1898 fu di L.458milioni e di esse solo tre regioni settentrionali ottennero 370milioni, mentre nel Sud l’unica spesa di un certo rilievo fu l’acquedotto pugliese (peraltro realizzato dopo il 1902). La media pro-capite per queste spese fu di L. 0,39 per abitante del Mezzogiorno continentale (L. 0,37 in Sicilia) contro la madia nazionale di L. 19,71.
I prestiti di favore per edificare edifici scolastici raggiungono per il Sud la punta massima in Puglia di L. 5.777 per ogni 100.000 abitanti (Campania L. 641, Calabria 80); nel Nord le punte sono L. 13.345 in Piemonte e L. 15.625 in Lombardia. Al Nord le scuole tecniche sono distribuite in ragione di una ogni 141 mila abitanti, al Centro una ogni 161 mila abitanti, al Sud una ogni 400 mila abitanti [nota64: Dati relativi al 1897] ; analoga la situazione delle Università.
Gli appalti sono concessi quasi esclusivamente al Centro-Nord e così pure le società con monopoli, privilegi e sovvenzioni sono al Centro-Nord.
Trasporti
Anche per i trasporti il Sud è svantaggiato: mandare una merce via mare da Genova a Napoli costa L. 0,85/quintale; in senso inverso costa L. 1,50/quintale.
Le spese per spiagge, fari e fanali ammontano al Nord a L. 278 mila per ogni Km. di costa, a L. 83 mila al Centro, a L. 43 mila al Sud ed a L. 31 mila in Sicilia; nella stessa epoca il Parlamento respinge i progetti di leggi speciali per i porti del Sud ed approva quelli per il Centro-Nord.
Ferrovie
Un gran parlare si è fatto sulle spese ferroviarie che lo Stato unitario ha fatto al Sud: L. 863 milioni per la parte continentale, 479 milioni. Il tutto, però, va commisurato al totale di 4.076 milioni spesi nello stesso periodo per l’Italia intera! Il Sud ebbe perciò meno di un terzo dello stanziamento complessivo. Ma fu già tanto: magari questo fosse avvenuto in tutti i settori! In effetti, questo atto di “generosità” si rese necessario per collegare i mercati a favore degli interscambi, utili sopratutto al Nord.
Spese ordinarie
Analogamente avveniva per ciò che concerneva le spese ordinarie per le normali funzioni pubbliche dello Stato: il Sud riceveva molto meno di quanto dava.
Si deve ancora a Nitti se la leggenda del “burocratismo” meridionale sia stata smantellata, poiché egli ha provato, con un’analisi condotta con puntigliosità teutonica, come gli uffici dello Stato fossero prevalentemente concentrati al Nord (scuole, magistratura, esercito, polizia, uffici amministrativi ecc.). Tutti i codici e l’intera struttura statale erano piemontesi, del buon “mondo borbonico” non fu conservato un bel niente! Eppure ci si continua a riferire dispregiativamente alla Burocrazia borbonica come in un’estasi di ignoranza più o meno intenzionale. Il solo Piemonte ebbe, fino al 1898, 41 ministri contro 47 dell’intero Sud e la situazione era la stessa per tutti gli alti gradi dello Stato, come ha documentato lo stesso Nitti.
Capitolo secondo
L’attacco della Banca Nazionale al Banco di Napoli
I primi tentativi di soffocare o subordinare il sistema bancario del Sud
Come detto, gli attacchi al sistema bancario del Sud cominciarono subito attraverso il divieto di costruire la moderna banca di circolazione e credito con L. 25,5 milioni di capitale.
Seguirono una serie di tentativi per ridurre il Banco di Napoli a Monte di Pegni, privarlo della Cassa di sconto o delle operazioni di tesoreria a vantaggio della Nazionale. Si cercò anche di varare un progetto per la costituzione di una Banca unica di emissione, nella quale al Sud avrebbe avuto solo il 20% delle azioni [nota67: Invece, come visto in precedenza, il Sud aveva partecipato per il 66% alla costituzione del nuovo erario]. Questi tentativi fallirono anche perché la borghesia meridionale riuscì a mantenersi compatta a difesa del “suo” Banco di Napoli.
Nel frattempo al Sud proliferarono altre di Casse di Deposito del Nord: un quarto di quelle che saranno costituite in Italia in quegli anni. Il Banco doveva invece ottenere l’autorizzazione statale per aprire filiali al Nord.
Nei primi anni post-unitari la situazione nei rapporti di forza tra Banca Nazionale e Banco di Napoli è di sostanziale parità: la Nazionale ha un capitale superiore a quello del Banco, ma l’istituto napoletano la sopravanzerà per lungo tempo per ciò che attiene alle riserve auree e alla circolazione [nota70: Le riserve auree della Nazionale, infatti, passano da 26 a 32 milioni dall’unità al 1866, e la circolazione (che avrebbe dovuto essere in rapporto di 3 a 1 con le riserve) passerà da 55 milioni nel 1861 ai 124 della prima metà del 1866. Avrebbe dovuto essere di 96 milioni se il rapporto 3:1 fosse stato rispettato. Il Banco, invece, passa da 48 milioni di riserve auree del dicembre ’60 a 78 milioni del 30 giugno ’63, a 52 milioni del 31 maggio ’64, a 43 milioni del 14 aprile ’66; la sua circolazione, dopo aver raggiunto una punta massima di 135-145 milioni nel 1864, scenderà a 108 milioni alla vigilia del corso forzoso e solo allora, dopo 5 anni, la Nazionale supererà lievemente il volume di circolazione del Banco, che spessissimo l’aveva sopravanzata, ma non supererà le sue riserve] .
Vi furono però una serie di provvedimenti governativi tesi a favorire la Banca Nazionale, non per motivazioni economiche, bensì allo scopo di renderla dominante a livello nazionale, e con essa la borghesia del Nord [nota71: Così si impedì al Banco di Napoli di rastrellare l’enorme quantità di monete auree e metalliche che esistevano al Sud (fino a 400 milioni), che avrebbero permesso di aumentare gradualmente fno a 1.200 milioni la circolazione cartacea (rapporto 1:3). Eppure il progetto di legge al”uopo preparato aveva avuto l’approvazione del barone Rothschild, nonchè di uno dei più noti esperti finanziari dell’epoca, Michel Puysat. Se si scorrono le cronache di quei tempi ci si rende conto che l’unica vera giustificazione di un simile operato fu quella che l’ on.Avitabile, esponente del Banco, palesò senza mezzi termini: il progetto si era insabbiato “per non dare dispiacere alla Banca Nazionale”].
Dove finiva l’oro del Banco di Napoli?
Nel periodo 1861-1866, il Banco vede calare le sue riserve di 35 milioni; per contro le riserve della Banca Nazionale, che pure ingoiava oro senza mollarne in contropartita, aumentano di solo sei milioni. L’arcano crediamo possa spiegarsi in un solo modo: in quegli anni la Nazionale ha costituito e sostiene al Nord quattro banche di credito mobiliare per finanziare l’industria settentrionale in crisi.
Queste banche, dovendo sostenere una industria in crisi, sono anch’esse in difficoltà poiché devono dare crediti difficilmente esigibili. Solo il continuo, discreto, apporto della Nazionale permette loro di sopravvivere.
In sostanza si priva il Sud di oro e di capacità di credito, a favore dell’industria del Nord.
E così l’industria del Sud paga le spese della crisi al Nord con una strozzatura del credito. Ora, però, all’inizio del 1866, la situazione delle banche sostenute dalla Nazionale si fa assai difficile, mentre si profila la controffensiva del Banco di Napoli: il governo la contrastò al grido “a mali estremi, estremi rimedi!” Il 10 maggio 1866 è approvata la legge sul corso forzoso.
La legge sul corso forzoso del 1866
Nel Piemonte preunitario le riserve auree garantivano solo un terzo della moneta circolante. Le Due Sicilie la garantivano integralmente. Così, con la conquista, il Piemonte non solo mise le mani sull’ingente ricchezza dell’Antico Regno, ma moltiplicò subito per tre il capitale circolante! Due terzi erano pura evenienza attiva per il Nord, ma almeno un terzo di capitale nominale sarebbe dovuto restare al Sud, in luogo dei bei ducati d’oro di una volta. Ma non fu così! Abbiamo visto che con la vendita dei terreni demaniali, il vorace Stato si impossesò quasi di tutto, rastrellando il risparmio e lasciando il Sud senza capitali e senza crediti (chi è disposto a dare crediti a chi è privo di capitali e di garanzie?).
Le folli spese militari e la mania di grandezza facevano volgere la situazione al peggio. Così avvenne l’italica moltiplicazione dei pani e dei pesci, nota come corso forzoso.
Con la legge del corso forzoso fu eliminata la convertibilità della moneta in oro
[nota73: Convertibilità che ricordiamo era nel rapporto 3 lire di carta = 1 lira d’oro].
Certo le giustificazioni non mancarono: all’epoca si addussero motivi patriottici e cioè di far guerra con l’Austria. Ma se così fosse stato, perché il corso forzoso fu mantenuto fino al 1883, ben oltre quindi la breve guerra del ’66?
Si disse anche che la necessità del corso forzoso derivasse dalla crisi dell’industria, messa in ginocchio dalla concorrenza straniera. Perché allora non si ricorse al sistema normale della tariffa doganale al posto di quello indiretto e macchinoso del corso forzoso? Ma soprattutto perché si riconobbe il principio della inconvertibilità solo per la moneta della banca Nazionale e non per quella del Banco di Napoli, suo unico reale competitore?
La risposta a tali domande è che il corso forzoso [nota74: La commissione parlamentare, per quanto dominata dalla destra fautrice della legge, concluderà nel 1868 l’inchiesta sul corso forzoso, dicendo che di esso non vi era “veruno bisogno”] era stato introdotto per cavare di impaccio la Nazionale e le banche ad essa collegate che, grazie alla loro allegra finanza, erano sull’orlo del fallimento.
Ma la inconvertibilità della sola moneta della Nazionale permette a questa banca di continuare placidamente il suo drenaggio di capitali e di oro dal Sud, essendo rimasta convertibile la moneta del Banco di Napoli [nota75: In Parlamento il ministro Scialoja, napoletano e traditore, rispose all’on. Avitabile che era “una volgare verità” il fatto che il Banco di Napoli veniva sacrificato dalla legge, ma che ciò era una triste necessità] .
Il partito unitarista ebbe come slogan quello del libero mercato, contro il “protezionismo” borbonico, ma se si fossero lasciate agire liberamente le forze del mercato, la Nazionale e le sue collegate sarebbero forse fallite, lasciando il Banco di Napoli alla testa del sistema bancario italiano.
Ancora una volta, però, l’intervento politico dello Stato sabaudista risolse una partita, che a livello economico si metteva malissimo per il Nord.
da “CAPITOLO QUARTO – La negazione di Dio”
..Anche il mondo affaristico-liberale dell’epoca (quello che, per intenderci, faceva lavorare i bambini in fabbrica per 14 ore al giorno) aveva interesse a sbarazzarsi di un Paese che si proponva come “modello di sviluppo alternativo”, coordinatore della crescita, attento alla ridistribuzione della ricchezza, e dunque socializzatore per le masse, con “laboratori” sociali e produttivi come quello di San Leucio. Inoltre la situazione economico – finanziaria dell’Antico Regno costituiva un forte allettamento per chi era invece a livello di bancarotta: come si è visto nei capitoli precedenti, il capitale circolante delle Due Sicilie era più del doppio di quello di tutti gli altri Stati della penisola messi insieme; il debito pubblico era completamente garantito, tanto che i suoi certificati erano quotati a Londra ben oltre il valore nominale; il rapporto tra debito, con interessi, e prodotto interno lordo era il 16%.
Tanto per parlare chiaro, tale rapporto in Piemonte era del 75%: il Regno Sardo non presentava bilanci all’approvazione del suo parlamento da cinque anni ed era praticamente in fallimento.
C’era quindi questa ricca realtà economica che faceva gola a tutti i potentati europei grandi e piccoli; ne sono la prova inoppugnabile le innumerevoli intromissioni diplomatiche e non negli affari interni del Regno.


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