parlamento nel 600
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Il Parlamento siciliano nel Seicento
L'EPOCA DELLE CONGIURE LA SICILIA TRA RIVENDICAZIONI E PARTICOLARISMI
Grazie all'azione del governo di Filippo II, nel 1600 la Sicilia potè contare su uno Stato straordinariamente organizzato: la burocrazia spagnola era riuscita a mantenere sotto controllo i sudditi più focosi e a creare un compromesso politico con le città, tradizionalmente contro l'autorità centrale. Il governo vicereale agì indisturbato nel consolidare il proprio potere, approfittando dello stato di quiete che in Sicilia si sarebbe protratto per tutta la prima metà del XVII secolo, interrotto soltanto dall'antagonismo tra Palermo, Messina e Catania. Il Parlamento, l'istituzione garante dell'identità della nazione, incominciò a mostrare evidenti segni di stanchezza; il riconoscimento di molti privilegi aveva allentato l'interesse del braccio nobiliare e la classe baronale, in particolare, registrò frequenti assenze dei propri rappresentanti (i procuratori arrivarono a sostituire fino a quindici parlamentari). L'azione dell'Assemblea ridusse la propria efficacia. Come scrissero i giuristi e gli intellettuali del tempo, l'assenteismo si rivelò deleterio: le delibere diventarono decisamente più arbitrarie e svuotarono di valore l'istituto parlamentare. L'Assemblea chiese alla Corona di rendere obbligatoria la partecipazione alle sedute, oppure permettere la sostituzione solo ad un personale delegato:naturalmente la risposta del sovrano, che non aveva nessun interesse a intervenire, fu che il re aveva sì il dovere di convocare tutti, ma non quello di costringere a partecipare.
L'intento della Corona di mantenere immutata la situazione e la connivenza della nobiltà siciliana creò tra i numerosissimi funzionari pubblici una propensione quasi fisiologica alla corruzione.
L’epoca delle congiure
Quella burocrazia che in Sicilia aveva costituito un punto di forza della politica spagnola ora stava per diventare un pericoloso fattore destabilizzante; gli impiegati pubblici, allettati dalle lucrose offerte dei potentati locali, regolarmente anteposero all'interesse dell'ufficio quello privato; la magistratura si rivelò incapace di resistere alla degenerazione dei funzionari corrotti. La rivalità municipale contribuì ad acuire la crisi: i palermitani non vollero che gli incarichi amministrativi della città fossero ricoperti dai messinesi e viceversa; i viceré dovettero fare attenzione a non offendere l'orgoglio cittadino quando nominavano i funzionari. Si rinforzarono solo i feudatari: i baroni che usufruivano di immunità ed esenzioni strappate ad un governo in difficoltà; quel poco che sfuggì alla nobiltà fu raggranellato dal ceto borghese che sperava nell'ascesa sociale. Per tutto il secolo si contarono numerose rivolte del popolo siciliano, esasperato dalla miseria, dalle ingiustizie e dal fisco. Tutte però furono sedate facilmente, perché prive di una seria guida politica. Sulla scia di quanto stava accadendo in Francia e a Napoli con Masaniello, nel 1647 Francesco Vairo tentò di far leva sul malcontento popolare per instaurare una Repubblica democratica siciliana; a questo primo moto seguirono quelli del '48 e del '49, capeggiati sempre da elementi dell'aristocrazia e della borghesia colta. La dominazione spagnola, che molti in questo periodo consideravano scricchiolante, potè tranquillamente assorbire i deboli urti provocati da pochi congiurati ricchi di slancio e ideali, ma poveri di forze.
Da tempo in Sicilia era in atto un'intensa rivalità municipale.
La Sicilia tra rivendicazioni e particolarismi
Palermo rappresentava l'epicentro della vita politica regionale, ma non era ancora riuscita a conquistarsi un'indiscussa funzione di capitale e aveva così permesso a Messina di esercitare un ruolo di comprimaria:
Palermo era il più grande centro consumo, Messina deteneva il primato della produzione; Palermo aspirava all'egemonia politica, Messina puntava a dividere il Regno in due parti per assicurarsi il controllo orientale dell'Isola. L'acceso antagonismo aveva innescato, per tutto il Cinquecento e il Seicento, una serie di rivendicazioni da parte delle due città, orientate per lo più alla conservazione delle prerogative municipali. In questa ottica va letto l'acquisto di privilegi che Messina fece nel 1591, tramite cui aveva ottenuto dal governo spagnolo di non sottostare alla ripartizione dei donativi approvati dal Parlamento, se non concordati con i propri amministratori. In questo modo la città sullo Stretto travalicava i poteri dell'Assemblea siciliana, acquisendo un'autonomia preoccupante per il mantenimento dell'unità del Regno. Ad uscirne duramente ridimensionata era l'autorità dell'istituto parlamentare. Messina esercitò con vigore i suoi diritti. Durante il Parlamento tenutosi a Palermo nel 1612, si rifiutò di versare i donativi alla Corona in virtù del parere contrario espresso dai suoi rappresentanti.
Questo portò ad una vera e propria crisi che il viceré risolse con un intervento armato, facendo arrestare gli amministratori messinesi. Ma l'Assise del 1615 registrò una vittoria morale della città ribelle, la quale, a conferma delle disposizioni del 1591, ottenne l'esenzione dai contributi votati dall'Assemblea siciliana e, come dimostrazione di forza, versò un donativo superiore a quello richiesto. Il Parlamento del 1630 cercò una soluzione al problema innescato dalla richiesta di Messina di scindere il Regno in due distinti governi, uno con sede a Palermo, l'altro a Messina. L'emergenza convinse l'intera Assise, esclusi i messinesi, a coalizzarsi con Palermo e con la Deputazione del Regno, per chiedere alla Corona di assicurare un governo unitario. Ma la vicenda restò aperta e avrebbe preluso alla più grave crisi in cui la Sicilia sarebbe piombata tra il 1674 e il 1678.