44-preesistenze Maniace - Storia

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I   -  UNA  PROPOSTA  DI  LETTURA
1   -  IL  CASTELLO  E  LE  PREESISTENZE


Come abbiamo poc’anzi accennato, una lunga serie di osservazioni - frutto di prolungati studi condotti sul posto - ci hanno portato alla convinzione che era quel punto in cui sgorgava l’acqua che alimentava il Bagno della regina ad essere il fatto determinante per l’ubicazione stessa del Castello Maniace esattamente in quel sito.

Per restare nel tema, non crediamo sia necessario premettere che la fonte - in quanto tale - doveva comunque preesistere all’impianto del Castello: sarebbe scioccamente lapalissiano.

Nei tempi relativamente recenti qualche sciagurato personaggio (per noi rimasto comunque sconosciuto, come sconosciuti rimasero i suoi fini) aveva effettuato uno scasso in breccia, ed anche di notevole entità, nella massa muraria del triedro formato dai due muri concorrenti nell’angolo occidentale e dal sottostante pianerottolo dal quale l’ultima, breve rampa, scende verso la vasca del cosiddetto bagno della Regina (Fig. 27).


Fig. 27 - Il pianerottolo inferiore; a destra la rampa che scende al cosiddetto Bagno della Regina. A sinistra si vede lo scasso in breccia operato nel pavimento e nel diedro delle soprastanti murature.

Nella sua opera vandalica, l’ignoto demolitore non ha avuto pietà non soltanto della pavimentazione del pianerottolo che era fatta di larghe basole, ma neanche delle splendide murature sveve delle due pareti che si incontrano appunto nell’angolo interno occidentale del piccolo ambiente; egli non ha nemmeno tentato di fare smontare i grossi conci: li ha semplicemente sbrecciati…
Questo mai abbastanza deprecato scasso della muratura, però, ha reso possibile una quantità di osservazioni che si sono appalesate subito pregne di grandi conseguenze per la comprensione dell’oggetto del nostro studio.

Si può fare un’importante constatazione semplicemente controllando il vano che contiene la scala. Nel tratto che sta proprio sopra il menzionato pianerottolo inferiore (che è anche l’unico tratto della scala in cui si può effettuare questo tipo di controllo), la parete del vano-scala verso il lato esterno del Castello, fa palesemente parte di una muratura che è stata soltanto addossata alla retrostante roccia viva verticale: sembra messa in opera quasi a foderarla (Fig. 28).


Fig. 28 -  Lo scasso delle murature ha rivelato (qui a sinistra) che la muratura sveva del vano scala era stata semplicemente addossata alla superficie di una retrostante preesistente parete verticale, ricavata dalla roccia viva: quasi a foderarla.


Occorre intanto sottolineare alcuni fatti: si riscontra anzitutto che ambedue le pareti che fiancheggiano la scala risultano costruite in conci perfettamente squadrati e posti in opera in una tela muraria di bellissima opera pseudoisodoma. Abbiamo potuto controllare e misurare un tratto di quella esterna (che, come abbiamo appena segnalato risulta palesemente soltanto addossata alla retrostante roccia): almeno nel tratto controllato essa mostra di avere lo spessore di appena una quarantina di centimetri. Per la soprastante e rimanente parte di questo muro, con tutto il resto dello spessore , abbiamo già visto che trova la base direttamente sulla roccia viva opportunamente lavorata (osservabile dall’esterno del Castello, cfr. Figg. 2 e 3), anche se ad una quota di qualche metro più in alto rispetto all’interno.

Le osservazioni fatte inducono inevitabilmente ad una riflessione che può sembrare quasi banale: nel formare la trincea in cui allogare la rampa di scale, nessun costruttore sarebbe stato tanto irrazionale da scavarla nella roccia viva molto più larga del dovuto (facendo cioè scalpellare la roccia verticalmente oltre la necessaria larghezza), per doverle addossare in seguito una parete realizzata in costosa muratura, la quale - inoltre - in questo tratto risulta larga solo un decimo dello spessore totale dell’altissimo muro da costruire.
Il secondo fatto importante da rilevare è come - sempre nella sua parte che è possibile ispezionare - questa roccia viva non mostra una superficie grezza, da parete che è frutto di lavoro di cava, ma risulta stranamente liscia (cfr. Figg. 28 e 30). La roccia così levigata, denuncia - e senza possibilità di dubbio - che in origine essa si trovava in un luogo di passaggio; si deduce che questo tracciato era frequentato  anche per un lasso di tempo piuttosto prolungato, e che tutto questo è avvennuto comunque tempo prima della costruzione del Castello per l’Imperatore svevo.

Sul fondo del tanto deprecato scasso della muratura sotto il pianerottolo, abbiamo potuto fare un’ulteriore osservazione: proseguendo nella direzione della roccia “levigata”, in quella parte della massa muraria che era realizzata con calcestruzzo, si vede annegata una colonna di marmo cipollino che risulta messa in opera orizzontalmente - quasi bisettrice del diedro che la roccia forma con la massa del muro N-O (Fig. 29).


Fig. 29 - Lo stesso scasso ha rivelato (qui a destra) un rincasso cui è stata data la forma di arco, liscio e piuttosto accuratamente scalpellato nella viva roccia. Per quanto occluso, anche il vano sottostante mostra “gli stipiti”, se così li possiamo chiamare, arrotondati. Sovrapposto ad un fusto di colonna marmorea se ne intravede un ulteriore pezzo più corto, appartenente ad un’altra, anche questo posato nella stessa direzione.

Un modo decisamente insolito per impiegare un elemento architettonico di alto costo, in quanto di un materiale lapideo pregiato e di non facile lavorazione…
Inoltre, sovrapposto a questo fusto di colonna si intravede un ulteriore pezzo, anche se più corto, appartenente al fusto di un’altra colonna: anche questo è murato quasi certamente nella stessa direzione della colonna sottostante.

Questi due apparentemente maldestri e atipici “inserti” nella massa muraria sono decisamente insoliti in un’opera aulica federiciana; visto però che si trovano collocati nella direzione di quegli strani scavi e tagli praticati nella roccia viva e che ricolmi di acqua marina sono ancora in parte visibili all’esterno del Castello  - questi  pezzi di colonne di marmo ci fanno credere di essere stati murati lì intenzionalmente, che sono stati posati lì e con questa direzione soltanto allo scopo di effettuare una sicura occlusione di quello che prima era un passaggio praticabile probabilmente anche dalle persone. Inserendo le colonne, questo passaggio veniva ridotto ad uno stretto pertugio sufficiente per la fuoriuscita dell’acqua eccedente ai bisogni del consumo interno, ma che (dato lo spessore murario in cui si trova) diventava impenetrabile per gli uomini. Infatti è chiaro che, in tempi anteriori alla costruzione di questa parte del Castello, il passaggio verso l’esterno conduceva direttamente verso il mare del Porto Grande; tale sarebbe rimasto sino a quando, dal Quattrocento in poi, all’esterno della mole sveva non siano state addossate le opere fortificatorie “di ammodernameto”.
Ad ogni modo, non è difficile arguire che, anteriormente alla costruzione del Castello Maniace, colui che passava accanto a questa roccia (che abbiamo vista così levigata certamente a causa dei frequenti passaggi), andava molto probabilmente verso la vicina sorgente dell’acqua potabile da un lato, oppure - come abbiamo potuto vedere - quasi certamente verso il mare, dall’altro.

In quanto a noi, dopo aver lavato la roccia ed aver così tolto lo sporco ed il sedime che celava alla vista le sue reali forme, proprio sopra il varco occluso con l’uso delle colonne menzionate, abbiamo notato, infatti, un rincasso a forma di arco, piuttosto accuratamente scalpellato nella viva roccia. Per quanto tompagnato, anche il vano sottostante mostra “gli stipiti”, se così li possiamo chiamare, arrotondati (cfr. Figg. 29 e 30).


Fig. 30 - Lo stesso soggetto, con la cavità parzialmente riempita di acqua; nella vista ravvicinata, notiamo che non soltanto l’arco, ma anche la roccia circostante non sono scabri, ma piuttosto lisci (a destra e a sinistra si scorgono le murature “costruite”).

Questa constatazione solleva però un altro problema: chi erano gli uomini che vi passavano, con una simile frequenza, per lungo tempo e palesemente molto prima che vi fosse costruito il Castello Maniace?

1    -    LE  PREESISTENZE  LEGATE ALLE  SPECIFICHE  LAVORAZIONI


Lungo la cimosa della costa siracusana rimasta libera e non ricoperta dai numerosi e sempre più massicci interventi costruttivi sorti nei tempi seriori, sopravvive ancora una sorprendentemente ricca serie di resti di strani manufatti che sono stati scavati nella roccia viva. Molti di questi si riscontrano anche nell’area dell’attuale Castello Maniace e comunque negli immediati dintorni della sua sorgente di acqua dolce.

Lo storico ottocentesco Holm segnalò genericamente la presenza di una «…grandissima quantità di buche rotonde, che servivano per cisterne, aventi in media il diametro di 1 metro, le quali si trovano lungo tutti i bordi della spiaggia [di Siracusa, nota dello scrivente]. In gran parte ora sono sotto il livello del mare e ripiene» .
Visto che sono scomparse tutte le sovrastrutture murarie che con massima probabilità dovevano essere fatte per proteggere queste buche rotonde ed anche per completarle funzionalmente, oggi possiamo soltanto tentare di interpretare l’originaria destinazione d’uso delle residue sopravvivenze di quelle forme, che la mano umana, in origine armata solamente di ascia o di maglietto e scalpello, era riuscita a ricavare nella roccia viva: esse intanto non sono affatto tutte e soltanto rotonde .
Proprio a causa del loro numero e delle loro forme così varie, si ha la netta impressione che, almeno da una certa epoca in poi, in quei paraggi - allora extraurbani, fuori moenia - fossero concentrate le lavorazioni legate anzitutto alla concia delle pelli , e in seguito certamente anche quelle legate all’arte tintoria . Si doveva trattare, insomma, di tutte quelle attività lavorative che generavano tante polluzioni, ma che risultavano anche tanto bisognose d’acqua dolce  e per le quali era comunque favorevole la vicinanza del mare, se null’altro, per la necessità dello smaltimento dei rifiuti.
     Questa ipotizzata concentrazione delle specifiche manifatture non dovrebbe poi risultare neanche tanto strana dato che, a solo un centinaio di metri di distanza, nelle immediate vicinanze della fonte Aretusa – e pertanto nella stessa situazione idrografica  - sopravvivono tuttora cospicue tracce di strutture appartenenti con assoluta certezza ad alcune folloniche , e dato inoltre che anch’esse erano rifornite da proprie cospicue fonti di quell’acqua dolce della quale queste specifiche lavorazioni non avrebbero potuto fare a meno .
È ben saputo, però, che da queste parti in età normanna - e non solo nei possedimenti normanni - le attività altamente specialistiche di conceria e specialmente di tintoria, erano concentrate in buona parte nelle mani degli ebrei .  
È altrettanto noto che «I Giudei della Sicilia in faccia alla suprema autorità politica erano considerati, e lo erano per davvero, nello stato di servile condizione: servi regiæ cameræ, venivano sempre appellati nei documenti ufficiali…» . Si poteva perciò «…acquisire il possesso di ebrei soltanto tramite concessione regia, […]. Dalla frequenza e dall’uso di tali concessioni possiamo però desumere che alla regalìa di ebrei, ossia ai diritti regi sui relativi benefici, doveva essere attribuito grande significato» .  
«Il fatto che ai potenti del Regno di solito veniva concesso tra i diritti sugli ebrei anche quello sulla loro attività di tintori o sulle entrate fiscali che ne derivavano, indica che si trattava di diritti tradizionali tramandati dal tempo di autonomia politica. La dominazione normanna in linea di principio aveva avocato alla corona anche il diritto di proprietà sull’industria tintoria degli ebrei, i quali - per poterla esercitare - dovevano pagare un’imposta» .  Questo voleva dire, però, che anche se non proprio per eccesso di amore verso questa minoranza eterodossa, i regnanti in qualche misura dovevano per il proprio tornaconto proteggere questi lucrosi cespiti, usandoli anche per gli scopi di politica interna.
Tutto questo è tanto vero che è facile riscontrare sui documenti come i principi normanni, oltre a cedere in gabella il notevole gettito fiscale derivato dal lavoro di intere comunità giudaiche e in particolare dei tintori ebrei, lo destinassero frequentemente, come rendite, alle cattedrali ed altre istituzioni religiose da loro fondate .  

3   -    ח׳׳ם  -  HAYYM

La meticolosa ricerca riguardante i marchi dei lapicidi, un lavoro che abbiamo con grande cura esteso su tutte le tele murarie del Castello che ci erano accessibili, oltre alla puntuale registrazione di tutti i segni riscontrati, ci ha portato anche ad una inattesa scoperta: all’incirca a metà della lunga rampa che conduce verso il cosiddetto Bagno della regina, sulla parete destra scendendo, abbiamo trovato incisa una breve scritta in caratteri palesemente ebraici (Figg. 31 e 32).


Fig. 31 - L’accurata ricerca dei marchi dei lapicidi incisi sui conci delle del Castello ci ha fatto scoprire, sulla parete destra della rampa più lunga, un concio recante questi inaspettati segni.


Fig. 32 - I segni incisi sono una breve scritta in caratteri ebraici, letta e traslitterata è HAYYM.

Non conoscendo né la lingua, né l’alfabeto ebraico, ma riconoscendone le forme, ne abbiamo eseguito una fedele copia che abbiamo sottoposto all’attenzione del prof. Benedetto Rocco, nella sua qualità di apprezzato semitista .  
La lettura, che ci è stata prontamente e gentilmente fornita dallo studioso, subito ci è parsa veramente pregna di stimoli: la scritta recita HAYYM, che tradotto in italiano starebbe a dire “(acqua) viva”.
È ben noto quanto sia importante ed indispensabile per i fondamentali riti lustrali in uso in tutte le comunità ebraiche la presenza di acqua sorgiva .
Proprio in quello strano punto del Castello abbiamo trovato non l’indicazione di una fonte, ma della  fonte di acqua viva…
Ma un ebreo, nei tempi svevi, per quale motivo avrebbe lasciato così profondamente incisa e nitidamente scritta nel suo idioma e quasi calligrafata con i caratteri del suo alfabeto, questa memoria chiaramente, per ovvi motivi, interessante solo per la sua gente?
«… sotto Federico II prese le mosse una concezione più chiara della regalia della tintura; se fino ad allora l’organizzazione centralizzata del monopolio era stata impedita dal fatto che i normanni avevano lasciato il possesso degli ebrei e dei loro tributi alle autorità locali, con l’energica politica ebraica dell’imperatore, che considerava tutta la comunità israelitica del paese a sua diretta dipendenza, si presentò la possibilità non solo di centralizzare le tasse sulla tintura nel sistema fiscale dello Stato, ma anche di mirare ad un monopolio totale sull’industria tintoria. […]  È del tutto probabile che Federico sia stato spinto in tal senso mentre era in Palestina tra il 1228 e il 1229 dove esisteva già un monopolio di tintura» .
Per le conclusioni che abbiamo ipotizzato, è di notevole importanza tenere presente inoltre che «Il monopolio della seta era affidato individualmente a determinati ebrei e veniva da questi amministrato; la tintura invece veniva esercitata da singole comunità ebraiche o da parti di essa in maniera più cooperativistica,…» .  
Parlando dell’area attorno al Castello Maniace, i numerosi resti di vasche  e di altri manufatti scavati nella roccia e dei quali abbiamo scritto sopra, risultano oggi visibili tutti soltanto lungo l’orlo del banco di roccia prospiciente il mare (alcune si vedono addirittura semisommerse), cioè in quello spazio di risulta che nel progresso del tempo non venne occupato dal continuo accrescersi del numero delle costruzioni militari: si vedono, cioè, tutte a corona attorno alla base delle varie parti del Castello (Figg. 33, 34, 35 e 36).


Fig. 33 - Lo sbocco dell’acqua proveniente dalla fonte del cosiddetto Bagno della Regina si trova ad una ventina di metri all’esterno del Castello. Anche se non ci è stato dato di poter esplorare il suo percorso, oggi occultato dalle opere militari del Quattrocento e del Cinquecento, qui ne vediamo la fuoriuscita, ma – sorprendentemente – dentro un ampio ambiente, a sua volta collegato con mare aperto, ed il tutto ricavato con cura nel banco delle viva roccia.


Fig. 34 - Nel banco roccioso su cui sorge il complesso di Castel Maniace si vedono un pò dappertutto resti delle escavazioni fatte nella viva roccia; qui è una addirittura con i gradini che scendono in acqua.  


Fig. 35 - Altri resti di strane escavazioni fatte nella viva roccia, come questa qui, che oggi risulta parecchio sotto il livello del mare. Attualmente questi manufatti risultano di difficilissima interpretazione.

Fig. 36 - Anche sul lato che è esposto all’azione erosiva delle onde provenienti dal mare aperto si vedono tuttora, seppure sommersi, abbondanti resti di lavorazioni umane cui il banco di roccia era sottoposto nel corso del tempo.

Ma anche così, per chi ha voglia di guardarli con un minimo di attenzione, questi relitti delle strutture rovinate ed abbandonate sono un muto testimone di un’antica violenza: molte di esse sono un eloquente segno della soppressione di  tante attività produttive che certamente fiorivano sull’intera cuspide rocciosa dell’Ortigia prima che l’inesorabile decisione dell’Imperatore facesse erigere il suo enorme Castello proprio lì.  
Questi resti abbandonati starebbero così a narrare di una volontà assoluta e implacabile, per la quale decine di artigiani, tintori e conciatori, dovettero lasciare definitivamente i luoghi dove tradizionalmente - forse - anche vivevano, ma dove certamente esercitavano il loro mestiere con sapienza ed esattamente per il monopolio dello Stato impersonato, questo, proprio dall’Imperatore che li avrebbe scacciati da lì.
Anche questa, però, non era la prima volta in cui l’autorità sarebbe intervenuta pesantemente nella vita della popolazione siracusana: si è nel periodo in cui il grande Imperatore aveva già realizzato la prima fase dello sconvolgimento della composizione etnica e degli equilibri economici in seno alla popolazione locale. Si tratta soltanto di deduzioni che si possono ragionevolmente formulare, tali purtroppo anche quando sono basate rigorosamente sui fatti storici .
Questo trasferimento delle attività - molto probabilmente proprio verso l’area delle sorgive di Fonte Aretusa - fu facilitato dalla generale contrazione della città, per cui una parte della popolazione ebraica avrebbe benissimo potuto occupare il quartiere appena abbandonato dalla popolazione musulmana  a seguito delle operazioni di quella risoluta e generale “pulizia etnica” che  era stata operata in tutto il territorio della Sicilia dalle milizie federiciane solo qualche anno prima, quasi in concomitanza con gli inizi dei lavori sul Castello  .
Con grande probabilità sarebbe stata proprio questa l’origine della scritta lasciataci incisa lì da un ebreo: la scritta  ח׳׳ם, Hayym, che tanto ci intrigava.

Non lo sapremo forse mai con assoluta certezza, ma non riusciamo a sottrarci ad una mesta suggestione: un appartenente alla tartassata comunità israelitica che proprio in quei tempi, o poco prima, era dal Sovrano privata dell’uso della fonte che tradizionalmente le apparteneva; costretto magari a fare le mensili pulizie del Castello attingendo l’acqua proprio a quella fonte che, per qualche motivo che ci sfugge, ai suoi antenati forse era persino sacra (la vera fonte di acqua viva!); nella solitudine da antro che può essere la rampa di scale che conduce quella Fonte Vera, alias Bagno della Regina - egli trovava solo questo modo per tramandare a quei lontani discendenti della sua gente che sarebbero stati capaci e pronti a recepire il messaggio della verità riguardante la sua fonte.
Non nascondiamo che c’è stato un momento, quello dell’intuizione, in cui anche noi ci sentivamo pronti a considerarci in qualche modo destinatari di questo messaggio e ciò, malgrado il tempo, gli uomini ed il bradisismo che avevano già definitivamente offuscato la possibilità dell’incanto.

Comunque, e fatalmente per la comunità giudaica, la  Fonte Vera ed il suo sito servivano all’Imperatore, o - meglio - alla funzionalità del Castello da lui voluto.

Nell’esporre questa nostra tesi, alla fine ci siamo sentiti incoraggiati dalle conclusioni finali di una recente segnalazione che rendeva nota l’esistenza di uno «straordinario bagno ebraico (miqweh) medievale» nell’area su cui insisteva la giudecca di Siracusa . Gli autori che nel breve articolo riferiscono di questa loro recente scoperta , pur opinando che il notevole complesso sia stato scavato nella roccia viva ex novo «nella seconda metà del VII secolo d.C.», nella descrizione del suo ambiente principale parlano di «un’ampia sala quadrata di oltre cinque metri per lato in cui quattro imponenti pilastri posti in quadrato, anch’essi scavati nella roccia, fanno da sostegno ad un’elegante volta a crociera centrale e a quattro voltine a botte sugli ambulacri laterali» .  
Solo recentemente abbiamo avuto l’opportunità di visitare questo affascinante complesso ipogeico d’indubbio interesse sia storico, sia culturale in genere; dopo averlo visto, ci sentiamo comunque spinti a fare alcune considerazioni riguardanti la segnalazione citata sopra  .
Un modo di costruire una copertura strutturalmente così complessa come lo è certamente una volta a crociera, diverrà il modo abituale per sopperire ad una specifica necessità costruttiva solo con l’architettura romanica, per trovare il suo apogeo nel periodo gotico. Nel caso siracusano testé segnalato però non si è affatto in presenza di una costruzione, ma piuttosto di uno scavo (quasi di un lavoro teso a scolpire una scultura cava), per cui possiamo dire che si è in realtà in presenza di una  pseudo-crociera, ossia di un manufatto monolitico che è rimasto consolidale con la roccia-madre.
Vista la situazione, non crediamo sia indispensabile disquisire ulteriormente attorno al fatto che con questo laborioso ed abile procedimento si voleva ottenere solo la  forma, la  geometria di una crociera. Ci troviamo, insomma, in presenza di un vero e proprio manierismo architettonico; questo fenomeno culturale presume però che la copertura a crociera costruita doveva essere già da gran tempo tanto diffusa, che la sua forma era diventata così familiare da suggerire la riproduzione delle sole  sue sembianze, svuotate però di ogni ruolo strutturale…

Se a queste nostre osservazioni aggiungiamo la segnalazione degli stessi Autori che una “Associazione III Millennio” ha in corso anche «…lo studio delle ceramiche e del sito (sic!), databili al XIII secolo», ci sembra di potervi vedere la conferma di quello che avevamo già - a nostro avviso - ragionevolmente ipotizzato. In altre parole, nelle sue attuali forme, l’interessante manufatto sarebbe frutto di una rielaborazione databile al Duecento. Ma se questo è da ritenere come vero, il grosso lavoro necessario per portare al termine questo importante impegno non poteva essere intrapreso che da un nutrito gruppo di persone fortemente motivate. Crediamo che si dovesse trattare proprio di quel compatto gruppo di ebrei siracusani che erano stati scacciati dall’Imperatore dalla loro sede naturale che si trovava fuori dalle oramai ristrette mura urbiche di Siracusa, verso la punta di Ortigia.
Questo gruppo etnico, a causa della intolleranza religiosa già ab antiquo obbligato a vivere fuori dalla cinta muraria, ora venne costretto ad abbandonare la propria sede centenaria. Si offriva però agli ebrei la possibilità di andare ad occupare quell’oramai svuotato quartiere cittadino, ubicato tra Graziella e Spirduta, che da diversi secoli, e sino a pochi anni prima, era abitato dalla popolazione musulmana più povera. Sloggiati i musulmani dal loro Rabato, esso sarebbe stato così occupato dagli ebrei più miseri: a causa della compattezza del loro gruppo, proprio lì si sarebbe formata nel tempo la prima giudecca siracusana .  

Non ci sarebbe nulla da stupirsi per questi violenti cambiamenti, trattandosi delle decisioni dell’Imperatore. Infatti, oltre a quelli della sopravvissuta popolazione musulmana deportata in Puglia, sono noti e bene documentati anche altri trasferimenti forzosi, persino quelli riguardanti le popolazioni cristiane di intere città; basti pensare alle sopravvissute masse dei ribelli cittadini di Capizzi e di Centorbi (odierna Centuripe) costrette per ordine imperiale ad abbandonare le loro distrutte case per trasferirsi – almeno una parte di loro – persino in Palermo, dall’altro lato dell’Isola. Con grande probabilità anch’essi vennero esiliati proprio lì per colmare i vuoti lasciativi dalla popolazione musulmana che ne era cacciata o fuggita… .

A Palermo, inoltre, in quel torno di tempo venne ammesso un certo numero di neoarrivati ebrei forestieri; richiedendo essi in uso le abitazioni rimaste vuote nel Cassaro vecchio (il centro della Palermo antica, con la Cattedrale e tante altre chiese e conventi), l’Imperatore «…consentiva a che ne ricevessero idonei (casalini) in altre parti della città» .

Tutto questo ragionamento nulla toglie alla nostra convinzione sulla possibile esistenza in Siracusa (come in tante altre città siciliane) di un ulteriore gruppo di israeliti , insediatisi già  precedentemente e non sappiamo quanto in maniera sparsa o compatta, ma, comunque, all’interno della Città murata , e con ogni probabilità proprio nell’area siracusana che la storia in seguito avrebbe definito come Giudecca. Si trattava di una popolazione che probabilmente esercitava i più svariati mestieri consentiti dalle leggi allora vigenti nel Regno, anche lucruosi . In questa situazione ci si troverebbe nel caso di una “dissociazione spaziale” della popolazione ebraica cittadina: un fenomeno urbano di cui a ragione parla il sempre ben documentato Bresc, riferendosi particolarmente all‘eventualità della presenza in città di un gruppo dedito alle «… attività artigianali considerate poco pulite o pericolose…» . A tal proposito l’autore cita i casi delle comunità giudaiche prosperanti in diverse città di Sicilia le quali, di conseguenza, per le loro esigenze religiose si dotavano sovente anche di sinagoghe separate.
A questo punto ci sembra di grande interesse l’insistere di Bresc sul fatto che «Il bagno rituale è il complemento indispensabile della sinagoga, perché garantisce la purezza del rito»… ; in tal caso, oltre alle sinagoghe diversificate per vari raggruppamenti, sarebbero esistiti diversificati nella stessa città anche i rispettivi miqweh.
   

4  -  LA  FONTE  ED  IL  CASTELLO

A prescindere dalle nostre osservazioni e tenendo presente solo quanto scrisse il Fazello , ci sembra comunque più che ragionevole la nostra ipotesi secondo la quale, nell’arco di oltre sette secoli e mezzo dalla fondazione del Castello Maniace, l’abbassamento del banco roccioso, il cosiddetto bradisismo negativo, abbia superato (sembrerebbe anche abbondantemente) un metro di altezza. Se così fosse, il fondo della “vasca” nel Bagno della regina sarebbe stato in origine adeguatamente più alto del pelo d’acqua marina e ciò tenendo presente anche l’escursione tra l’alta e la bassa marea (qui, invero, piuttosto modesta, come ci hanno confermate le strisce di colore visibili sopra la vasca nel Bagno). Per quanto dovesse necessariamente esistere una comunicazione diretta tra il vano in cui è stata costruita la “vasca” ed il mare del Porto Grande ,  l’acqua potabile della fonte sarebbe rimasta comunque tale e perciò disponibile per un gradevole consumo alimentare.

La sorgiva d’acqua dolce riforniva quella riserva che una romantica quanto tardiva tradizione chiamerà con il nome di bagno della Regina , e si rivela così come l’unica fonte che era capace di assicurare l’assolutamente indispensabile approvvigionamento idrico-alimentare dell’erigendo palazzo-fortezza. Celata dai costruttori in quel sito remoto e quasi segreto del Castello, la fonte sarebbe stata inoltre immune persino dagli attacchi degli eventuali assedianti i quali – per interrompere l’erogazione di questo elemento assolutamente vitale - avrebbero invece potuto tagliare facilmente un qualsiasi acquedotto esterno…
È ovvio che in opposizione alle motivazioni dell’onnipotente Imperatore - qualunque tipo di ragioni potessero addurre vari tintori e conciatori ebrei, tutti quanti comunque e soltanto servi della Camera regia - queste non potevano avere alcuna importanza: per loro si poteva rapidamente trovare un altro sito dove avrebbero potuto ad ogni modo continuare a lavorare e produrre anche quella parte del reddito che, per inveterato diritto, spettava  all’Imperatore…


5 - LE  CONSEGUENZE

Non ci è noto invece alcun dettagliato studio sulla popolazione musulmana in Siracusa e non ci sembra sia stato fatto qualcosa nella direzione della riscoperta degli eventuali resti della civiltà materiale pertinente ad essa, anche se risulta certo che una forte comunità musulmana abitava nella risorta città da oltre tre secoli e mezzo e che prima della sua definitiva espulsione questa comunità - oltre ad essere numerosa - con grande probabilità era anche molto attiva sotto il profilo economico. Infatti, essendosi nel 1088, dopo un assedio di sei mesi, la loro Siracusa arresa a patti alle forze d'attacco guidate da Ruggero I, si suppone che non soltanto la città non venne devastata, ma che neanche la sua popolazione abbia subito eccessivi danni, comprese le sue componenti musulmana ed ebraica.
Durante il dominio dell’Islam, nella ripopolata Siracusa la nuova classe dominante aveva certamente occupato le parti più “appetibili” della città, lasciando ai propri artigiani e i mercanti ad espandersi per tutta l’area confacente alle loro attività. Dopo l’occupazione normanna e la conseguente ricristianizzazione della città, era ovvio che i conquistatori cristiani avrebbero a volta loro occupato progressivamente le parti centrali e più interessanti della città, provocando la ritirata dei musulmani nell’area del Rabato. Negli anni ’30 del Duecento, con la cacciata generale dei musulmani dalla Sicilia, essi avrebbero lasciato svuotato anche questo quartiere.
Quel tartassato gruppo etnico israelita, che invece a causa dell’intolleranza religiosa già ab antiquo era obbligato a vivere fuori dalla cinta muraria sulla cuspide meridionale dell’Ortigia - in quegli stessi anni ‘30 del Duecento, come abbiamo visto - venne anch’esso costretto ad abbandonare la propria sede centenaria. Si offriva però molto probabilmente a questi ebrei la possibilità di andare ad occupare quell’oramai svuotato quartiere cittadino, ubicato tra Graziella e Spirduta che, da diversi secoli e sino a pochi anni prima, era abitato dalla popolazione musulmana più povera. Insomma, sloggiati i musulmani dal loro Rabato, esso sarebbe stato occupato dagli ebrei più miseri: a causa della compattezza del loro gruppo, proprio lì si sarebbe formata nel tempo la prima giudecca siracusana.
Ci sembra doveroso estenderci nel tempo prefissatoci, essendo molto stimolante quanto sull’argomento recentemente scrivono Mulè e Scandaliato, che cito: «Il quartiere ebraico era chiamato nel XIV secolo Rabato cioè sobborgo rispetto al nucleo centrale nell’area attorno al Duomo che per il livello altimetrico rispetto alle altre zone di Ortigia e per la conformazione a terrazza sul porto, aveva mantenuto fin dal periodo greco una configurazione monumentale.
Dal documento si evince che il Rabato era circondato da un fossato nella parte orientale (sic!)  che lo separava dalle mura.»  A dire il vero, il documento - emanato da Federico III nel 1311 - che gli A. citano dal Liber privilegiorum et Diplomatum nobilis et fidelissime Syaracusarum urbis, a tal proposito recita testualmente soltanto che, nonostante un precedente ordine reale di chiusura della stessa «…iudeos dicte civitatis Syracusarum nolle claudere portam Rabathi eourum ex parte Occidentis…» (grossolanamente verso il Porto Grande), malgrado il fatto che i malfattori vi si introducevano nel Rabato. Si constata inoltre «Nec etiam velle tenere et fieri macellum eorum in fossato dicti Rabathi…» per cui vi si possono furtivamente macellare le bestie rubate.… Sembrerebbe poter individuare questo macello in una piccola xilografia pubblicata dalla Dufour  (Fig. 36).
Comunque, Mulè e Scandaliato concludono giustamente: «Il documento pone il problema dei confini del quartiere ebraico che appaiono, alla luce delle fonti del secolo successivo, più sfumati rispetto a quelli individuati dal Privitera, per la caratteristica di tutte le giudecche siciliane, di essere come delle nebulose nei contesti cittadini, con abitazioni sparsi un po’ dovunque nei quartieri limitrofi.
È da sottolineare inoltre che mentre nel XIV secolo il quartiere ebraico è individuabile come Rabato dei  giudei, nel Quattrocento è sempre chiamato Iudaica, il termine Rabato indica la zona tra via Maestranza e via Mirabella; in un contratto del XV secolo è descritto un “tenimento di case posto intus parrocchiam Sancti Thome in contrata vocata di lu rabatu”» .
Ci sembra palese, che anche dal vecchio Rabato dove si erano insediati, gli ebrei sarebbero stati progressivamente estromessi nel corso del Trecento ed anche nel Quattrocento, quando cominceranno sorgervi grossi complessi palazziali e le varie opere di aggiornamento fortificatorio.
In quanto alla possibile esistenza di diverse sinagoghe con i rispettivi miqweh, tutti questi ragionamenti nulla tolgono alla nostra convinzione sulla possibile esistenza in Siracusa (come in tante altre città siciliane) di un’ulteriore gruppo di israeliti, insediatisi già precedentemente (o anche sucessivamente) e non sappiamo quanto in maniera sparsa o compatta ma comunque all’interno della Città murata, e con ogni probabilità proprio nell’area Siracusana che la storia in seguito avrebbe definito come Giudecca. A proposito della consistenza numerica della popolazione ebraica di Siracusa, disponiamo soltanto di dati (purtroppo anch’essi di stima) riferentisi all’epoca di un secolo e mezzo più tarda del periodo che qui ci interessa: secondo BRESC «La gisia ci dà l’immagine di un antico stato della popolazione ebraica dell’Isola, un punto di partenza del popolamento. Quattrocento case a Palermo verso il 1325, trecento a Siracusa nel 1369… altrettante si troverebbero anche a Trapani» .
Si trattava di una popolazione che probabilmente esercitava i più svariati mestieri consentiti dalle leggi allora vigenti nel Regno, anche lucrosi. In questa situazione ci si troverebbe nel caso di una “dissociazione spaziale” della popolazione ebraica cittadina: un fenomeno urbano di cui a ragione parla il sempre bene documentato Bresc, riferendosi particolarmente all‘eventualità della presenza in città di un gruppo dedito all’occupazione che «…riguarda le attività artigianali considerate poco pulite o pericolose…» . A tal proposito l’Autore cita i casi delle comunità giudaiche prosperanti in diverse città di Sicilia le quali, di conseguenza, per i loro bisogni religiosi si dotavano sovente anche di sinagoghe separate.
A questo punto ci sembra di grande interesse l’insistere del Bresc sul fatto che «Il bagno rituale è il complemento indispensabile della sinagoga, perché garantisce la purezza del rito» ; in tal caso, oltre alle sinagoghe diversificate per vari raggruppamenti, sarebbero esistiti diversificati nella stessa città anche i rispettivi miqweh.

Esattamente duecento anni dopo la nascita di Federico, il cristianissimo re di Spagna espulse per sempre dai suoi domini i sudditi israeliti: era ovviamente più cristiano dello stesso papa, il quale non si sognava neanche di commettere una tale ottusa e fanatica bestialità…

ח׳׳ם

UNA SCRITTA EBRAICA NEL CASTELLO MANIACE



di  Benedetto  ROCCO


L’iscrizione, scoperta recentemente dal prof. Zorić, giace su un rigo lungo cm. 13,5 (Fig. 37).

Fig. 37 - ח׳׳ם   (traslitterato HYYM)  o  hayyîm .     



Le lettere leggibili sono quattro. La prima a destra misura in altezza cm. 5,2 ed alla base cm. 3,2. Andando verso sinistra, la seconda lettera, che si ripete alla terza, misura appena cm. 1,8. La quarta, che ci dà un quadrato quasi perfetto, misura in altezza cm. 4,2 con la base di cm. 4,3.

I. Esame Paleografico.
Non c’è dubbio che si tratta di quattro lettere dell’alfabeto ebraico, fortemente incise su un concio di bianca pietra calcarea siracusana, con la quale è stato costruito il Castello Maniace.
La prima lettera è un het e presenta nelle due aste verticali discendenti una leggera curvatura a sinistra. La seconda e la terza sono due yod. La quarta è un mem nella sua nota caratteristica grafica, assunta quando è finale di parola: presenta un’apertura a sinistra nell’asta ascendente che raggiunge appena metà del rigo.
Abbiamo dunque la parola ח׳׳ם (traslitterata HYYM), da vocalizzare hayyîm, o – secondo altra maniera di rappresentare i suoni in lettere latine – chajjim.


II. Esame grammaticale.
Nella struttura sintattica della parola è facile riconoscere un plurale maschile in  -yîm; il singolare sarebbe hayy-, radice che contiene l’idea di “vita”, “vitalità”, “vigore”.

Potremmo dare dunque due significati diversi alla parola in esame, secondo l’uso letterario ebraico del periodo biblico, postbiblico e medievale:
a) Come sostantivo. Vita, che fu usato, e lo è ancora, come nome di persona presso gli ebrei: è presente pure in qualche cognome siciliano, come Vita o Di Vita, che hanno originato anche il toponimo di Vita, cittadina nel trapanese.
b) Come aggettivo. Vitali, vegeti, che significa una qualità soprattutto dell’acqua sorgiva, quando non è stata alterata da altri ingredienti.
In genere, riferito all’acqua, si suole aggiungere la parola acqua (cioè  mayîm), che nel nostro testo manca.

Quindi – sintetizzando i due significati possibili della parola – possiamo dire che o siamo in presenza di una “firma” di qualche occasionale “utente”, o vi troviamo un riferimento all’acqua che di fatto si trova alla distanza di pochi gradini dalla nostra scritta.
I motivi per i quali sarebbe stata omessa la parola acqua si possono soltanto congetturare.

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