Sarcofago di Adelfia - Monumenti romani

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
Monumenti romani
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Sarcofago di Adelfia

cartolina d'epoca il sarcofago un tempo presso il museo archeologico di piazza Duomo di Siracusa



cartolina d'epoca il sarcofago un tempo presso il museo archeologico di piazza Duomo di Siracusa


cartolina d'epoca il sarcofago un tempo presso il museo archeologico di piazza Duomo di Siracusa



isarcofago di adelfia, in alto a sinistra, il presepe



sarcofago di adelfia, partcolare bassorilievi prospetto in alto



sarcofago di adelfia, partcolare bassorilievi prospetto al centro



sarcofago di adelfia, partcolare bassorilievi prospetto in basso



IL SARCOFAGO DI ADELFIA

Immagini e scritti sono tratti dal catalogo della mostra ET LUX FUIT
Le catacombe e il sarcofago di Adelfia, Arnaldo Lombardi Editore, fotografie di Lamberto Rubino


testi a cura di Mariarita Sgarlata

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I. LA SCOPERTA

II sarcofago di Adelfìa venne alla luce il 12 giugno del 1872, durante le indagini che Francesco Saverio Cavallari conduceva nella catacomba di S. Giovanni a Siracusa. Il Cavallari, nella veste di Direttore delle antichità di Sicilia, si era proposto di riportare alla luce il piano di calpestio originale del cimitero, che all'epoca era già conosciuto per ampio tratto. La scoperta ebbe luogo in una delle tre grandi camere circolari che si aprono nella regione meridionale, indicata da allora con il nome di rotonda di Adelfìa. Nonostante il Cavallari fosse ben consapevole di trovarsi in un'area privilegiata della catacomba il rinvenimento del sarcofago giunse del tutto inaspettato, come si apprende dalle sue stesse parole:

«Questa sala prescelta è sormontata da una di quelle volte coniche di sopra descritte, ha una grande Nicchia a guisa di un'Abside di Chiesa con una volta semicilindrica: ai fianchi, altre due Nicchie più piccole dell'istessa forma, ed altre anche più piccole negl'intervalli da una nicchia all'altra. Tutte queste nicchie sono piene di loculi nel suolo delle stesse, ma tutti scoperti e frugati: quelli che contiene la grande Nicchia sono disposti ad altezze differenti [...]. Restai però oltremodo sorpreso osservando che quei loculi situati all'ingresso della grande Nicchia non erano, come tutti quelli ch'esistono in queste catacombe, tagliati nella roccia stessa, ma costruiti di pezzi di tufo dell'apparenza di un altare: i pezzi del suolo erano talmente massicci che non mandavano quel suono speciale che si verifica percotendo allorché sotto esiste un vuoto; una tale novità parvenu meritare un serio esame, ma non mi arrischiava a distrurre quell'opera senza una positiva necessità, e quindi cominciava lo scavo' nel suolo della sala, per avvicinarmi poscia al piede di quella specia di altare [,...]. Avvicinatesi lo scavo verso la grande Nicchia, un piccolissimo buco fece conoscere l'esistenza di un vuoto sotto quei loculi costruiti a guisa di un Altare, e quindi si ebbe la certezza di rinvenire una sepoltura di qual- che ragguardevole personaggio, attesa l'importanza della località, ed io ordinava di togliere una parte dei pezzi che componevano quei loculi; sotto di questi pezzi si rinvennero altre tre grandi lastre di tufo calcareo, le quali, ben murate ai bordi occultavano la costruzione che restava nella parte sottostante. Tolta una delle tre lastre, si rinvenne il Sarcofago [...]. Il Sarcofago era evidentemente nascosto in una fossa appositamente scavata nella roccia, e ricoperti tutti gli intervalli laterali con i detriti stessi della roccia».

Sappiamo che all'esaltazione per la scoperta seguì una cocente delusione quando, rimossi il cemento e le grappe di ferro che saldavano il coperchio alla cassa, furono riportati alla luce pochi resti dello scheletro di una persona ancora giovane, il cui corpo, al momento della deposizione, era stato adagiato su una sottile lastra di piombo ripiegata lungo i lati. Gli scopritori sapevano certamente che avrebbero trovato i resti di un solo corpo poichè, nonostante sulla cassa appaia il ritratto di una coppia di sposi, l'iscrizione sul coperchio fa riferimento ad una sola defunta; la delusione derivava invece dall'assoluta modestia della deposizione, che doveva apparire del tutto inadeguata se messa a confronto con la magnificenza del conte- nitore. Alcuni dei primi commentatori, incapaci di farsi una ragione di tanta semplicità, giunsero persino a sospettare - senza alcun fondamento - che il sarcofago fosse già stato violato in antico. L'eco della scoperta fu comunque enorme nella città, che accorse in massa alla catacomba per ammirare il prezioso monumento recuperato e lo scortò con grande pompa quando dal cimitero venne trasportato al Museo di Piazza del Duomo. Al clamore del rinvenimento seguì la comparsa di una piccola galassia di pubblicazioni miranti ad illustrare la scoperta e ad interpretarne le raffigurazioni, lavori per certi versi paragonabili agli attuali instant books e di valore ovviamente diseguale, che tuttavia forniscono una preziosa messe di informazioni per la ricostruzione del contesto di rinvenimento del manufatto. Altrettanto precocemente, comunque, il sarcofago siracusano destò l'interesse della stampa specializzata internazionale, interesse che da allora non sembra essersi spento. Un punto fermo nella storia degli studi del sarcofago è fornito dalla monografia di Santi Luigi Agnello (II sarcofago di Adelfia, Città del Vaticano 1956), che ad oltre quarant'anni dalla pubblicazione rimane lo strumento più completo per la conoscenza del monumento.
La cassa del sarcofago è alta m. 0,69, larga m. 0,85 e lunga m. 2,07 circa. È composta da due pezzi di marmo saldati internamente mediante grappe di ferro; quella che venne posta in prossimità del labbro anteriore ha reso particolarmente fragile il marmo, provocando la rottura della parte sinistra del bordo e la decapitazione di alcune figure, successivamente restaurate. I rilievi sono conservati in ogni loro parte, ad esclusione di due punti nel registro inferiore. Il coperchio è invece la parte più tormentata del manufatto: si tratta di una lastra di marmo reimpiegata, che reca all'interno tracce di una più antica lavorazione a rilievo con elementi vegetali ed uccelli, poi grossolanamente scalpellate. Le misure sono sensibilmente inferiori a quelle della cassa (m. 0,81 x 2,00), al punto che rispetto al medaglione centrale sottostante l'iscrizione risulta decentrata sensibilmente. L'attico, che ospita l'iscrizione e i fregi, è alto circa cm. 20 , e presenta numerose scheggiature lungo il bordo inferiore, con danni che interessano le stesse figure. Il lato destro presenta fratture in più punti, saldate in antico mediante grappe di ferro. Nelle intenzioni originali il sarcofago doveva essere incassato all'interno di una nicchia, poiché entrambe le testate non sono rifinite. Quando fu deposto nella fossa della catacomba di S.Giovanni il monumento era interamente ricoperto con una ricca policromia, della quale rimangono numerose tracce nel fregio superiore e nel coperchio. I listelli lisci che delimitano i fregi erano interessati da una decorazione geometrica, mentre il fondo delle figure era animato da visto- si motivi vegetali. La qualità della policromia, a giudicare dai resti, non era fra le più elevate. Sulla cornice modanata che inquadra l'iscrizione, in alto, venne dipinto un Cristogramma affiancato dalle lettere apocalittiche, oggi appena apprezzabile.

II. LE IMMAGINI

sarcofago di Adelfia, medaglione centrale




II sarcofago siracusano appartiene alla classe dei sarcofagi a doppio registro con l'immagine dei defunti racchiusa all'interno di un medaglione centrale. È opera di un'officina romana, e la sua cronologia, sul piano stilistico, è concordemente posta in tarda età costantiniana, o, più in generale, nel secondo venticinquennio del IV secolo. Non si tratta di un prodotto isolato: nel recente repertorio dei sarcofagi cristiani antichi pubblicato da Jutta Dresken-Weiland vengono raccolti altri nove sarcofagi di varia provenienza, tutti frammentari, affini per struttura e iconografìa a quello di Adelfìa. Sulla cassa si succedono ben tredici scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, con i personaggi che si dispongono l'uno accanto all'altro a formare un unico fregio. Questa del fregio continuo è una convenzione che i cristiani ereditano dalla tradizione figurativa pagana, e che veniva normalmente applicata nella realizzazione di sarcofagi a soggetto profano o mitologico per illustrare in sequenza le principali tappe della vita del defunto o i momenti successivi di un evento mitico. Quando tuttavia, fra il primo e il secondo decennio del IV secolo, gli scultori rivolti ad una committenza cristiana introducono nella decorazione dei sarcofagi la pratica del fregio unitario si verifica un cambiamento sostanziale: gli eventi vetero- e neotestamentari vengono disposti in maniera apparentemente del tutto arbitraria, nel più pieno dispregio della sequenzialità cronologica, scardinando così uno dei principi-base del rilievo continuo di tradizione ellenistico-romana, quello narrativo. Sono state avanzate numerose proposte per spiegare i motivi di un cambiamento tanto radicale, ma in realtà negli studi non si è ancora giunti ad una posizione univoca. A chi continua a credere che gli scultori fossero guidati esclusivamente da criteri di simmetria e di ritmica compositiva si contrappongono quanti ritengono, invece, che la selezione e la distribuzione degli episodi rifletta la successione degli eventi biblici citati nelle preghiere di salvezza: le opere di redenzione di Dio divenivano così paradigmi di salvezza per lo stesso defunto. Allo stesso modo, è opinione largamente diffusa che, almeno in alcuni casi,sia possibile riconoscere un principio ordinatore di natura allegorica o tipologica nel contrapporsi, nel succedersi o nell'alternarsi delle varie scene. Sofisticate indagini compiute in questa direzione su alcuni sarcofagi hanno prodotto risultati apprezzabili, dai quali tuttavia non è possibile enucleare dei criteri universalmente applicabili. Per quanto il sarcofago di Adelfia non sia stato ancora fatto oggetto di un'analisi di questo tipo, si possono mettere a fuoco alcuni nessi significativi nella disposizione dei vari episodi a puro scopo esemplificativo. Esiste, così, un evidente rapporto tipologico fra la prima scena del registro inferiore, la condanna dei tre Ebrei di Babilonia, e quella centrale con l'Adorazione dei Magi, rapporto che non si limita ovviamente al solo piano iconografico - in entrambe le scene appaiono infatti tre figure maschili in vesti orientali - ma si esalta nella contrapposizione fra il rifiuto dei giovani babilonesi di adorare un falso idolo e la gioiosa adorazione del vero Dio da parte dei Magi. Nel registro superiore sono invece collocate ai due lati della conchiglia, in un abbinamento comune ad altri sarcofagi, la raffigurazione di Mosè che riceve la Legge e quella del sacrifìcio di Abramo. È indiscutibile che a tale disposizione abbiano contribuito motivi puramente strutturali, poiché il particolare schema iconografico elaborato per i due episodi si prestava ad occupa- re nel modo più naturale una parte critica del fregio, dovendosi rispettare l'andamento curvilineo del medaglione. Va tuttavia considerato quanto i primi cristiani fossero propensi ad interpretare figure ed eventi del Vecchio Testamento come prefigurazioni di figure ed eventi del Nuovo; sappiamo così, come vedremo più oltre, che il sacrifìcio di Abramo veniva interpretato come prefigurazione della Crocefìssione, e che la consegna della Legge poteva adombrare il motivo dell'Ascensione di Cristo. Da questa prospettiva l'insistita collocazione delle due scene ai lati del medaglione può apparire frutto di una scelta meditata; considerando anzi che sul sarcofago siracusano alla base della conchiglia viene raffigurata, come si è detto, l'Adorazione dei Magi, il ritratto dei defunti viene a trovarsi inserito fra le tre principali coordinate del percorso di redenzione di Cristo, la nascita, la passio- ne ed il ritorno al Padre. Le motivazioni fin qui illustrate non escludono infine - come ha suggerito W. Deichmann - che l'adozione del fregio unico venisse addirittura considerata significativa in sé. Dal modo in cui i protagonisti di episodi diversi agiscono gomito a gomito, con il compenetrarsi e il confondersi di scene del Vecchio e del Nuovo Testamento (si noti, ad esempio, come nella già citata scena di Abramo l'altare su cui sta per compiersi il sacrifìcio si sovrapponga all'immagine del Cristo guaritore del cieco nato) può trasparire la volontà dello scultore di dare l'impressione di un avvenimento unitarlo, a significare come, pur nella molteplicità degli eventi biblici, unico sia il disegno soterico. Il sarcofago di Adelfìa appartiene ad un periodo successivo alla Pace della Chiesa del 313, quando l'iconografìa cristiana, superato lo stadio sperimentale delle prime fasi, allarga in modo considerevole il repertorio biblico, fissandone più o meno stabilmente tipi e caratteri. Gli artisti, di fronte alle richieste di una committenza che andava avanzando richieste sem- pre più specifiche ma che, per ovvie ragioni, non comprendeva altro linguaggio se non quello proprio dell'arte romana imperiale, attinsero a piene mani dall'enorme serbatoio di immagini fornite dalla tradizione, piegandone gli schemi ad esprimere i nuovi significati. Nella descrizione delle scene offerte dal sarcofago si farà cenno, di volta in volta, agli eventuali modelli pagani che hanno fornito lo schema per la loro realizzazione. La cassa del sarcofago presenta complessivamente tredici scene, la maggioranza delle quali - otto - fa riferimento al Nuovo Testamento. L'immagine di Cristo ricorre nove volte, compresa l'Adorazione dei Magi, dov'è raffigurato bimbo in grembo a Maria, e la prima scena del registro superiore, ispirata alla Genesi, dove si manifesta come Logos. Come sempre avviene sui sarcofagi a doppio registro Cristo appare giovane, privo di barba e, al pari degli altri personaggi maschili, indossa la tunica e il pallio; il solo elemento distintivo è dato dalla pettinatura, con i capelli ricci che ricadono sul collo, in aperta contrapposizione alla tipica acconciatura costantiniana esibita normalmente dalla altre figure. Se le scene presentate dalla cassa non comportano particolari problemi di interpretazione, lo stesso non può dirsi delle figurazioni del coperchio; le immagini della parte destra, in particolare, sono state fatte oggetto di letture di segno opposto. Su di esse torneremo più oltre.


II. 1 LA CASSA. REGISTRO SUPERIORE.

La fronte della cassa presenta al centro il ritratto a mezzo busto di una coppia di sposi all'interno di una grande valva di conchiglia, simbolo di rinascita nella tradizione pagana, che i cristiani ereditano con le stesse intenzioni. L'uomo, sulla destra, porta i capelli nella foggia tornata in voga sotto Costammo, corti, aderenti al capo, con una breve frangia che scende sulla fronte. Indossa tunica, dalmatica e toga tabulata, e regge nella mano destra un rotolo sul quale posano l'indice ed il medio dell'altra mano che compie il gesto della parola; il viso, privo di barba, si volge verso la sposa. La donna, in tunica e palla, avvolge con la sinistra le spalle del compagno, e con l'altra mano gli tocca il braccio destro. Porta una collana formata da un giro di pietre fra due di perle, e un'armilla cordonata con castone centrale al polso destro. La testa, che si rivolge verso sinistra in direzione dell'uomo, è cinta da una corona formata da una folta treccia di capelli, nell'elaborata acconciatura che caratterizza il ritratto della madre di Costantino, Elena, su monete emesse nel 332 d.C. Nel registro superiore appaiono otto scene, che descriviamo a partire da sinistra.


1. Imposizione del lavoro ad Adamo ed Eva (Genesi 3, 16-19). Cristo- Logos, al centro del gruppo, impone ai protoparenti il lavoro come conseguenza ed espiazione del peccato originale. Consegna ad Adamo, verso il quale volge il capo, un fascio di spighe e ad Eva una pecora che regge per le zampe anteriori, simboli l'uno dell'agricoltura, l'altra della fila- tura della lana e, in senso lato, della confezione dei tessuti che, nel mondo antico, veniva considerata la più importante delle attività femminili. Adamo ed Eva, ritratti rispettivamente alla destra e alla sinistra del Logos cui volgono lo sguardo, appaiono entrambi nudi nell'atto di portare le mani ai genitali che coprono con una foglia di fico. A terra, ai piedi di Adamo, è posato un secondo fascio di spighe.

2. Scena del gallo. In questo tipo di immagine viene comunemente riconosciuta la predizione del rinnegamento di Pietro (Matteo 26, 34; Marco 14, 30; Luca 22, 34; Giovanni 13, 38). L' Apostolo, in tunica e pallio, con un bastone nella sinistra abbassata, si volge di profilo a destra verso Cristo; porta i capelli corti ed una folta barba riccia, animata da numerosi fori di trapano. La mano destra è portata al mento, in un gesto che nel codice figurativo classico si presta ad indicare uno spettro di emozioni abbastanza esteso, ma che nella sua accezione originaria serviva ad esprimere l'inquietudine del destinatario di un oscuro presagio. Ai ripetuti dinieghi dell'Apostolo - prima del canto del gallo - allude con maggiore chiarezza lo stesso gallo rappresentato ai suoi piedi, in primo piano. Cristo, con il corpo in posizione frontale, volge il capo verso Pietro sollevando la mano destra nel gesto della parola le tre dita distese possono indicare il triplice rinnegamento preannunciato all'Apostolo. Nell'altra mano regge un rotolo che lo qualifica come Maestro. Danno un diverso significato al motivo della mano portata al mento e alla presenza del gallo quanti vedono in questo genere di scena l'investitura di Pietro (Giovanni 21, 15-17): il gesto alluderebbe in tal caso alla tristezza dell'Apostolo a causa delle tre domande di Cristo, tristezza incarnata in qualche modo dal gallo, a ricordo del rinnegamento seguito alla notte di Getsemani; anche il gesto della mano di Cristo, in tal caso, indicherebbe il conferimento del primato a Pietro.

3. Guarigione dell'emorroissa (Marco 5, 25-35; Luca 8, 43-48).
La scena è proposta secondo l'iconografia tradizionale, desunta dal tipo monetale romano nel quale l'imperatore appare come restauratore dei diritti di una provincia (restitutorprovinciaè). Cristo volge il capo all'indietro, trattiene con la mano sinistra un lembo del pallio, e pone la destra sul capo della donna ritratta inginocchiata ai suoi piedi; questa, di modulo minore, presenta il capo coperto dalla palla, e tocca con la mano destra l'orlo della veste del Cristo. Assiste al miracolo una giovane figura maschile che compare alle spalle dell'emorroissa.

4. Mosé riceve la Legge (Esodo 19, 1-ss.). Mosé si presenta come una figura giovanile, priva di barba, volta verso destra. Indossa calzari, tunica e pallio, un lembo del quale trattiene con la mano sinistra, forse perché la sopraveste non sia d'impaccio nell'ascesa al monte Sinai, indicato dalle asperità del terreno. Con la destra sollevata riceve le tavole della Legge dalla mano di Dio, che compare fra le nubi poste nella zona compresa fra il listello superiore del fregio e la sommità della conchiglia che contiene il ritratto degli sposi. Le tavole sono rappresentate nella forma di un dittico richiuso. I Padri riconobbero Mosé come figura e tipo di Cristo. La scena della consegna della Legge, in particolare, poteva essere interpretata come prefigurazione veterotestamentaria dell'Ascensione, ed è a questo modello iconografico che si farà riferimento, in Occidente, per creare la versione figurata dell'evento: come Mosé, Cristo ritorna al Padre in cima ad una montagna, ed è la mano divina fra le nuvole ad accoglierlo. Non a caso nella celebrazione dell'Ascensione venivano letti anche i passi dell'Esodo relativi alla consegna della Legge.

5. Sacrificio di Abramo (Genesi 22, 1-4). La scena è caratterizzata, al pari della precedente e con deliberata simmetria, dal motivo della mano di Dio che appare fra le nubi, in questo caso per fermare il braccio di Abramo in procinto di sacrificare il figlio. Il patriarca, barbato, veste una tunica esomide e brandisce nella destra sollevata un gladio, mentre la mano sinistra posa sul capo del piccolo Isacco. Il bambino, che indossa una tunica manicata, si presenta inginocchiato di profilo a destra, con le mani legate dietro le spalle. Il sacrifìcio sta per esse- re consumato presso un piccolo altare - sul quale brucia una fiamma - che chiude il lato destro della composizione. Nella tradizione patristica il moti- vo del sacrifìcio di Abramo, frequentissimo nell'arte funeraria, veniva considerato prefigurazione della Crocefìssione.

6. Guarigione del cieco nato (Giovanni 9, 1-41). Cristo, che appare dietro l'altare della scena precedente, tiene il rotolo nella mano destra e stende l'altra a toccare gli occhi del cieco con l'indice ed il medio, certamente per imporre la miscela di fango e saliva ricordata dal passo evangelico. Il cieco - di modulo minore come già precedentemente l'emorroissa - indossa una tunica con maniche, priva di cintura, e si appoggia ad un bastone. È accompagnato da una figura maschile, priva di barba, che compare in secondo piano con una mano poggiata sulla sua spalla; vi si può riconoscere un apostolo o un semplice testimone del miracolo. Le fonti patristiche vedono nella guarigione del cieco nato un'allusione al sacramento del Battesimo: dal buio del peccato il credente viene richiamato alla luce dalla grazia battesimale.

7. Moltiplicazione dei pani e dei pesci ^Matteo 14, 19; 15, 36; Marco 6, 41; 8. 6; Luca 9, 16; Giovanni 6, 1). La rappresentazione di questo episodio evangelico nell'arte cristiana primitiva poteva essere invece considerata una chiara allusione al sacramento dell'Eucarestia. Cristo, rappresentato frontalmente, allarga le braccia per benedire i pani e i pesci che gli vengono presentati dai due Apostoli che lo affiancano. Quello di sinistra, nel quale si può forse riconoscere Pietro per la somiglianzà dell'immagine con la figura proposta nella scena del gallo, tiene un cesto di vimini pieno di pani; l'altro, privo di barba, regge invece nelle mani congiunte i pesci, raffigurati nell'aspetto di due piccoli delfìni. Ai piedi delle due figure, che vestono tunica e pallio e volgono lo sguardo verso Cristo, giacciono altri sei cesti colmi di piccoli pani che recano un segno cruciforme. Il fatto che nella scena appaiano sette cesti può essere considerato un riferimento diretto a Matteo 15, 37, dove vengono menzionate le sette sporte di pezzi avanzati. Tale numero ricorre generalmente nelle pitture catacombali, mentre sui sarcofagi esso viene di norma ridotto a sei, a tre o ad uno.

8. Resurrezione del figlio della vedova di Naim (Luca. 7, 12-15). L'episodio non deve essere confuso con la resurrezione di Lazzaro, che nelle testimonianze iconografìche del periodo compare normalmente all'interno di un'edicola funeraria. Nella scena va invece riconosciuta, con ogni probabilità, la resurrezione del figlio della vedova di Naim: Cristo, con il rotolo nella sinistra sollevata, è volto in dirczione del piccolo defunto e gli tocca il capo con la virgo thaumaturga che regge con la destra. Il piccolo defunto, avvolto completamente nel sudario che lascia libero il solo volto, emerge con la testa e le spalle da un sarcofago strigliato con mandorla centrale, posto direttamente sul terreno. La presenza della verga miracolosa indica in maniera inequivocabile che il miracolo è nel suo svolgersi; ne è testimone una giovane figura maschile in tunica e pallio ritrat- ta a fianco del Cristo, anch'essa con un rotolo in mano. È inutile sottolineare la confacenza dell'episodio alla decorazione di un monumento funerario.

II. 2 LA CASSA. REGISTRO INFERIORE.

1. I tre Ebrei condannati al supplizio della fornace (Daniele 3). Paradigma di liberazione dalla morte, come la scena appena descritta, e insieme di fermezza nella fede è la prima scena del registro inferiore, la più estesa ed arti- colata fra quelle proposte dal sarcofago. Vi è rappresentata la fase iniziale del racconto relativo ai tre giovani Ebrei di Babilonia, Sidrac, Misac e Abdenago, condannati alle fiamme per essersi rifiutati di adorare il simulacro aureo di Nabucodonosor. La scena è aperta dallo stesso re, che indossa pantaloni sotto una corta tunica cinta in vita ed una lunga clamide fissata sulla spalla destra; con la destra indica all'adorazione il proprio ritratto, anch'esso caratterizzato da capelli corti cinti da un diadema e da una folta barba. Nel simulacro - un mezzo busto su colonnina tortile con capitello composito - Nabucodonosor appare coperto dalla sola clamide, convenzione tipica del ritratto dinastico ellenistico-romano. I tre Ebrei sono invece rappresentati nell'atto di allontanarsi procedendo verso destra; il giovane al centro volge decisamente le spalle al re, mentre gli altri due, retrospicienti, compiono lo stesso, ampio gesto in segno di diniego. Porta- no capelli lunghi coperti da un berretto frigio, tunica e clamide annodata sul petto.. Nella figura maschile con rotolo che chiude la scena abbracciandola con lo sguardo va probabilmente riconosciuto, più che un semplice spettatore, l'angelo che salverà i giovani Ebrei dalla fornace.

2. Miracolo delle nozze di Cana (Giovanni 2, 2-11). La scena è composta da due sole figure. Un giovane Apostolo avvolto nel pallio si volge a destra, verso Cristo, che tiene sollevato un lembo del suo mantello con la mano sinistra; nell'altra mano, abbassata, Cristo reggeva la verga che toccava i tre vasi colmi d'acqua posti a terra per trasformarla in vino. L'avambraccio della figura e la verga sono andati perduti. Il miracolo di Cana, per la presenza dell'acqua e del vino a un tempo, veniva messo in rapporto sia con il Battesimo (era infatti menzionato nelle liturgie e nelle preghiere connesse a questo sacramento), sia con l'Eucarestia.

3. Adorazione dei Magi. Questo soggetto è modellato sullo schema elaborato dall'arte romana imperiale per rappresentare Orientali vinti che, in segno di sottomissione, recano doni al sovrano vincitore. Sul sarcofago l'adorazione dei Magi è raffi- gurata sotto il ritratto degli sposi, in modulo minore rispetto alle altre scene. I Magi procedono verso destra, recando nelle mani protese i loro doni; il primo regge una corona con gemma centrale (a indicare l'offerta dell'oro), mentre i due che lo seguono portano entrambi una pisside con coperchio (incenso e mirra). Tutti e tre indossano il berretto frigio sui capelli lunghi, tunica e clamide, e sono accompagnati dai loro cammelli, le cui teste, a rilievo molto basso, appaiono in secondo piano. Maria, in tunica e palla che le ricopre parzialmente il capo, siede di profilo verso sinistra su una cattedra ricoperta da un drappo, reggendo in grembo Cristo bambino, vestito della sola tunica, che tende le braccia per ricevere le offerte. Il motivo dell'adorazione dei Magi conobbe un particolare favore a partire dall'età costantiniana, quando si iniziò a dare rilievo liturgico alle celebrazioni dedicate all'Incarnazione del Verbo.

4. La caduta (Genesi 3, 1-13). Al centro è raffigurato l'albero del bene e del male, carico di frutti, al cui fusto si attorciglia il serpente che volge la testa a destra, in direzione di Eva. Ai due lati dell'albero i progenitori, nudi, coprono i genitali con una foglia di fico fermata dalla mano sinistra; con l'altra mano Adamo compie il gesto della parola, mentre Eva porta un frutto all'altezza del viso. A terra, fra Adamo e l'albero, è posto un fascio di spighe, una chiara prefigurazione dell'imposizione del lavoro raffigurata nel registro superiore. A sinistra del gruppo, a rilievo basso, è posta una giovane figura maschile, in tunica e pallio, che ripete il gesto oratorio di Adamo. In essa difficilmente può essere riconosciuta un'immagine di Dio padre, che pure fa la sua comparsa su alcuni monumenti di età costantiniana, ma è sempre caratterizzata dalla barba; si tratta più probabilmente di un angelo, come è stato da tempo proposto.

5. Ingresso a Gerusalemme (Matteo 21, 1-11). Il registro inferiore si chiude con la rappresentazione dell'ingresso di Cristo a Gerusalemme, un soggetto modellato sulla formula iconografica dell'adventus, l'arrivo dell'imperatore fra i suoi sudditi. Cristo avanza verso destra sul dorso di un'asina; con la sinistra abbassata regge le redini e sol- leva l'altra mano, atteggiata nel gesto della parola o - più opportunamente, in questo contesto - in segno di benedizione. Con perfetta aderenza alla narrazione evangelica il percorso di Cristo è lastricato di fronde e di vesti: fra le zampe dell'asina si distingue chiaramente un ramo di palma, mentre una piccola figura maschile, rimasta con indosso la sola tunica, stende il proprio pallio sotto le zampe anteriori del quadrupede; un piccolo lembo di stoffa, curiosamente, ricade sul listello che delimita inferiormente la scena. Sul fondo, tra le fronde di un albero, compare una seconda figura maschile che volge lo sguardo a Cristo. Si tratta, quasi certamente, di un Ebreo intento al taglio dei rami, come si racconta in Marco 11,8. Meno probabile è che si voglia fare riferimento all'episodio di Zaccheo, che trova invece la sua collocazione nel racconto relativo all'ingresso di Cristo a Gerico (Luca 19, 1-10); la carriera iconografica di Zaccheo, del resto, inizierà su monumenti più tardi, databili nell'ultimo quarto del secolo. La scena è inquadrata dalle figure di due giovani discepoli in tunica e pallio che volgono lo sguardo a Cristo; quello che chiude il lato destro della composizione si poggiava probabilmente ad un bastone, oggi perduto. Nel motivo dell'ingresso a Gerusalemme si può riconoscere una prefigurazione terrena del trionfo celeste di Cristo: infatti, come è stato notato, da Costantino in poi Gerusalemme non è soltanto la capitale dei Giudei o il teatro della passione di Cristo, ma è soprattutto la Gerusalemme celeste della Cristianità: entrando in essa Cristo trionfa sulla morte.

II. 3 IL COPERCHIO

La zona centrale è occupata dall'iscrizione, posta all'interno di una cornice modanata e sorretta sui due lati da una coppia di geni alati, nudi, con le spalle coperte da una clamide. Sulla parte destra del coperchio ritorna invece il motivo dell'adorazione dei Magi, proposto secondo una formula iconografica differente, integrata dalla presenza del presepe. A destra si riconoscono i tre Magi, che avanzano con i loro doni posti su un piatto: il primo regge la corona d'oro e solleva la mano destra ad indicare la stella che li ha guidati nel cammino; il secondo, retrospiciente, reca sei grani d'incenso; l'ultimo, due fiale di mirra. Di fronte ai Magi è rappresentata un'esile tettoia, coperta con tegole e coppi, che ripara Cristo bambino, avvolto nelle fasce e posto a giacere dentro una larga cesta di vimini intrecciati; lo scaldano il bue, in primo piano, e l'asino, posti ai piedi del bimbo. Com'è noto, la presenza del bue e dell'asino è taciuta dai Vangeli; essa deriva dai commentar! alle profezie di Isaia (1, 3) e di Abacuc (3, 2), poi accolta nel resoconto apocrifo della Natività dello pseudo-Matteo (14,1). La presenza della tettoia è invece conforme alla versione figurativa dell'evento propria dell'Occidente, poiché in Oriente, quando la scena non è ambientata all'aperto, viene rappresentata normalmente la grotta. Immediatamente a destra della tettoia appare uno dei pastori ai quali l'angelo annunciò la nascita del Cristo (Luca 2, 4-19); indossa la tunica esomide, regge il pedum, il tipico bastone ricurvo, e si volge verso la Vergine, con la quale si chiude la composizione. Maria è seduta, completamente avvolta nella palla; volge lo sguardo verso la tettoia, porta la mano destra all'altezza del seno, e con la sinistra si appoggia alla roccia che le serve da sedile.

La decorazione del lato sinistro del coperchio rappresenta indubbiamente, sotto il profilo iconografico, la parte più originale del sarcofago. Se infatti tutte le scene fin qui esaminate trovano agevolmente confronti più o meno immediati nel repertorio figurativo dell'arte funeraria dei primi cristiani, lo stesso non può dirsi per queste immagini, che sembrano al contrario pro- porsi come un unicum. All'estrema sinistra è rappresentata una falda rocciosa, sormontata da una colossale testa maschile barbata, dalla quale scaturisce una fonte. Ai piedi della fonte si china una figura femminile, vestita della sola tunica cinta in vita, che protende un vaso per raccogliere l'acqua. In secondo piano compare invece una giovane figura maschile, pari- menti rivolta alla falda rocciosa verso la quale tende il braccio destro. Segue un gruppo composto da tre figure femminili a capo scoperto: quella al centro, vestita come la donna alla fonte, avanza verso destra sostenuta dalle due compagne che indirizzano lo sguardo verso di lei. A destra appare, infine, un gruppo di cinque donne in tunica e palla, tutte a capo velato. Una posizione di indubbia preminenza è occupata da quella che siede frontalmente su un trono con suppedaneo, alla quale le altre quattro volgono lo sguardo. Una delle donne siede in terra, alla sinistra del trono, e leva in alto la mano destra che fuoriesce dalla palla; altre due, ritratte in piedi alle sue spalle, compiono lo stesso gesto. La quarta, invece, a destra del trono, assume la posa ricercata che nella tradizione figurativa ellenistico-romana veniva assegnata ad un tipo di Musa. È impossibile, in questa sede, passare in rassegna le numerose proposte di decodificazione avanzate riguardo a queste immagini fin dal periodo immediatamente successivo alla scoperta del sarcofago. Basti pensare che gli interpreti sono in disaccordo persino sulla scansione da dare al testo figurativo, diviso da alcuni in due, da altri in tr scene distinte. Rinviando ancora una volta alla monografìa di Santi Luigi Agnello per un esame analitico delle diverse posizioni assunte dagli studiosi fino agli anni Cinquanta, qui sarà sufficiente illustrare le due linee interpretative principali, rimaste, da allora, sostanzialmente immutate. La più antica, che ha successivamente trovato la sua espressione più articolata e raffinata nello studio di Cecchelli del 1952, vede nel fregio la raffigurazione della receptio ad coelum della defunta: l'anima di Adelfìa si disseta con l'acqua della sapienza scaturita dalla petra spirituali! sulla, quale è raffigurato l'Antico dei Giorni (la grande testa maschile barbata); in seguito, purificata dall'acqua e scortata da due protettrici, Adelfìa viene ammessa alla visione del trono di Cristo, che si rivela nelle sembianze femminili di Sophia (la donna in trono). L'interpretazione, fondata sulla sofisticata combinazione di elementi desunti da fonti bibliche e patristiche, non riesce tuttavia a rischiarare alcune zone d'ombra. In primo luogo, come è stato rilevato, rimane vaga l'identità della figura maschile presso la fonte e quella delle donne attorno al trono. Inoltre, ammettendo che la figurazione del coperchio sia stata creata espressamente per illustrare il percorso ultraterreno di una defunta - Adelfìa - perché sulla cassa la stessa defunta verrebbe ritratta accanto al marito? Dovremmo concluderne che il solo coperchio fu scolpito per Adelfìa?
In tempi recenti ha invece trovato nuovi sostenitori la seconda prospettiva esegetica - inaugurata dallo studioso tedesco de Waal già nel secolo scorso e ripresa nel 1992 in uno studio di E. Jastrzebowska - che riconduce queste immagini ai cicli apocrifi della vita di Maria. In realtà occorre ammettere che alla giovane donna a capo scoperto protagonista delle prime due scene il nome di Maria si addice assai più di quello di Adelfìa. Secondo le convenzioni figurative dell'epoca, infatti, diffìcilmente una clarissima femina come Adelfìa avrebbe accettato di comparire nell'aspetto disadorno che caratterizza l'immagine, senza alcun riferimento all'altezza del suo rango. Si deve inoltre sottolineare che almeno la prima scena, quella della fonte, trova confronti più che persuasivi su documenti figurativi più tardi, sui quali è stata riconosciuta l'Annunciazione alla Vergine presso la fonte così come viene descritta nel Protovangelo di Giacomo (XI, 1-3), nello Pseudo- Matteo (IX, 1-2) e nel Vangelo dell'Infanzia Armeno (V, 1.8). Particolar- mente efficace è il confronto con un dittico d'avorio del Tesoro del Duomo di Milano, che nella sostanza si discosta dalla figurazione del coperchio per la sola caratterizzazione dell'Angelo affiancato a Maria presso la fonte, già alato sul documento milanese, aptero su quello siracusano (ma fino al V secolo l'arte cristiana non conobbe un'iconografìa univoca dell'angelo, che sui monumenti più antichi non presenta alcun tratto distintivo). Il fregio dovrebbe quindi dividersi in tre scene. Nella prima - l'Annunciazione - vanno riconosciuti l'Angelo, in piedi, e Maria che attinge acqua dalle fonte di Nazareth, personificata, secondo una radicata consuetudine dell'arte ellenistica e romana, dalla grande testa barbata. È la traduzione in immagini del resoconto dello Pseudo-Matteo. «Tre giorni prima, mentre Maria era presso la fonte per riempire l'orciolo, apparve a lei un Angelo del Signore e disse: "Sei beata o Maria perché hai preparato nel tuo seno un ricettacolo per il Signore. Ecco verrà la luce del ciclo per abitare in tè, e attraverso tè splenderà all'universo». Nella seconda scena la Vergine, ancora a capo scoperto e vestita della semplice tunica, viene guidata da due figure femminili; nell'ultima, infine, Maria viene venerata nel suo aspetto di Madre del Cristo, seduta in trono e con il capo velato. L'immagine della sola Maria in trono è parsa ad alcuni troppo precoce: il sarcofago di Adelfìa è infatti ancorato, su basi stilistiche, al secondo venticinquennio del IV secolo, quando l'iconografìa mariana non ha ancora intrapreso un itinerario autonomo, come avverrà in seguito, ma rimane fortemente condizionata dalla presenza del Cristo. Va però ricordato al riguardo che alcuni studiosi ritengono il coperchio stilisticamente più recente della cassa, e che, come si vedrà oltre, esistono numerosi indizi che non soltanto invitano a considerare cassa e coperchio frutto di un reimpiego, ma consigliano anche di collocare la sepoltura di Adelfia in un'epoca sensibilmente più tarda della cronologia tradizionale. Tuttavia anche ritardando di qualche decennio la creazione del coperchio, qualora si accetti l'interpretazione appena illustrata, esso non perderebbe un importante primato: considerando infatti che anche nella Natività rappresentata sul lato sinistro compare la sola Vergine, a chiudere una serie di figurazioni a soggetto interamente mariano, ci troveremmo di fronte al più antico ciclo di immagini giunto fino a noi esclusivamente dedicato alla vita di Maria.

III. L'ISCRIZIONE E I PROBLEMI CRONOLOGICI.


L'iscrizione, su tre linee, incisa e rubricata, è posta dentro una tabula ansata risparmiata nel colore del marmo su fondo dipinto in rosso:


IC ADELFIA C F
POSITA CONPAR
BALERI COMITIS

(H)ic Adelfia c(larissima) f(emina) /posita conpar /Baleri comitis
Qui è deposta Adelfia clarissima femina moglie del conte Valerio.
Determinante per la ricostruzione della storia del sarcofago è l'identifica- zione del suo aristocratico committente, il Valerio citato nell'epigrafe come marito della defunta. Il comes Balerius fu identificato dal Garana con il Lucius Valerius Aradius Proculus Populonius, consularis Siciliae negli anni 325-330. Di questo illustre rappresentante della famiglia senatoria degli Aradii, il quale, per vie diverse, è stato candidato anche al ruolo di proprietario della Villa di Piazza Armerina, gli storici hanno tracciato un profilo abbastanza chiaro, attribuendogli una brillante carriera sotto Costantino, connessioni con l'universo ludico di Roma, terre in Africa e, quel che più conta, una ferma adesione alla religione pagana tradizionale, professa- ta dalla sua famiglia almeno fino alla metà del IV secolo. Un'eventuale adesione al paganesimo del marito di Adelfia potrebbe non essere un ostacolo insormontabile alla proposta di Garana, considerando che in questo periodo non erano infrequenti i matrimoni misti. Esistono tuttavia altri elementi che invitano a rigettare l'identificazione: in primo luogo, in altre attestazioni epigrafìche il consularis Siciliae viene chiamato Proculus, mai Valerius; in secondo luogo, un uomo che ha rivestito tré prefetture e un consolato con il nome di Proculo difficilmente avrebbe accettato la generica qualifica di comes Balerius sulla tomba della propria moglie; in ultimo,è lecito sospettare che il titolo di comes senza ulteriori specificazioni della funzione svolta all'interno del nuovo sistema gerarchico concepito da Costantino possa appartenere ad un'età posteriore all'imperatore e alla sua dinastia, quando il potere politico del comitato, attraverso sostanziali modifiche, perde autorità fino ad assumere una connotazione esclusiva- mente militare. Risulta evidente che l'identificazione di Garana riposa, in buona parte, sulla compatibilita fra la cronologia di Lucio Aradio e quella del sarcofago, ancorato su basi stilistiche alla tarda età costantiniana. Le nuove indagini condotte dalla Pontifìcia Commissione di Archeologia Sacra sul suolo antistante il nicchione in cui fu rinvenuto il sarcofago hanno consentito di ricostruire le fasi precedenti la sepoltura di Adelfìa e la fase della monumentalizzazione, nella quale il nicchione assunse una fisionomia assimilabile alle sepolture privilegiate delle cripte storielle romane (soluzione architettonica architravata non lontana dal binomio ciborio-altare a blocco). I dati desunti dalle indagini dimostrano che la privatizzazione del settore riservato alla sepoltura di Adelfìa nella rotonda non è contemporanea alla creazione del mausoleo sotterraneo che, nella sua ese-cuzione originaria, era già destinato a differenziarsi ideologicamente dal resto della catacomba. Se l'innesto del sarcofago ha comportato il taglio e la distruzione parziale di due sepolture preesistenti, nonché la distruzione totale di una terza tomba, la distinzione di una fase successiva di intervento all'interno del nicchione diventa un dato inoppugnabile. Una prima sistemazione dello spazio interno prevede una disposizione scenografica con effetto ascensionale, cui segue, in una seconda fase, un'organizzazione dello spazio esterno caratterizzata da due gruppi allineati di tre fosse terragne conformate all'andamento dell'apertura della grande nicchia e quindi posteriori ad essa. La terza fase nasce con l'innesto del sarcofago e termina con la monumentalizzazione del nicchione. La restituzione grafica ideale del prospetto del nicchione, dotato di una trabeazione impostata su colon- ne nelle sembianze di un vero e proprio protiro di tempio, trova straordinarie analogie a Roma negli assetti monumentali, riconducibili all'iniziati- va di Papa Damaso (366-384), di alcune tombe venerate nella Spelunca Magna del cimitero di Pretestato e nel cimitero dei SS. Marcellino e Pietro a Roma. Dato che i lavori all'interno della catacomba di S. Giovanni - esclusi ovviamente le diramazioni periferiche e i dispositivi architettonici aggiunti - sono stati racchiusi fra la data del 313 (Pace della Chiesa) e la data del 360 (iscrizione datata di Euterpe alla fine del decumanus maxi- mus), diventa macroscopica la difficoltà di comprimere la storia della crea- zione della rotonda e delle modifiche apportate al nicchione all'interno di questi due estremi cronologici. Nell'arco di un quindicennio circa si sno(lerebbero i diversi momenti segnati da: 1- progettazione della catacomba; 2- avvio dei lavori; 3- modifiche al progetto originario di tipo comunitario per soddisfare le richieste delle aristocrazie della Chiesa e dell'Impero; 4- creazione della rotonda; 5- prima fase; 6- seconda fase; 7- terza fase di monumentalizzazione in rapporto all'innesto della sepoltura della moglie di un comes. Si può comprendere come abbracciando la tesi tradizionale, e quindi continuando a ritenere valida l'identificazione comes Balerius=Valetio Proculo, ci troveremmo giocoforza costretti ad ammettere che la successione degli eventi sia avvenuta in modo pressoché sincronico, senza valutare nella cor- retta prospettiva una realtà monumentale che sembra invocare una dina- mica di sviluppo interna meno concitata. Per soddisfare questa richiesta occorre necessariamente scorporare la datazione dell'epigrafe da quella del sarcofago, attraverso un itinerario che trasferisca l'identità del comes Balerius da Proculus ad un nuovo personaggio. A questo invitano del resto anche le evidenti - e, per l'epoca in cui il sarcofago fu costruito, sconcertanti - esitazioni ortografìche riflesse in ic Adelfìa e conpar Boleri, incertezze che troverebbero una migliore giustificazione in un periodo posteriore, come è stato talora sottolineato da quanti si sono occupati dell'iscrizione. Se si esclude che il marito di Adelfìa sia vissuto nella prima metà del IV secolo, considerando la lista dei Valerii conosciuti per tutta la seconda metà del secolo e per il successivo, e ritornando sulle orme di quanti, prima della tesi di Garana, avevano convcrtito i loro sforzi in questa dirczione, il cerchio dei candidati si allarga notevolmente. Fra le ipotesi avanzate un criterio selettivo impone di considerarne solo due. L'identificazione di Balerius con il comes Syracusanae civitatis Valerianus, dell'età di Teodorico, già proposta dal Carini, il primo editore dell'iscrizione, e ripresa in tempi recenti da Manganare, non appare sostenibile sia per la difformità nell'indicazione onomastica, sia perché dispositivi scenografici come quello adottato per Adelfìa non troverebbero alcun termine di confronto in quest'e- poca. Si peccherebbe invece di ingratitudine non riconoscendo a G. B. Grassi Privitera, uno dei primi editori del sarcofago, il merito di aver pensato per primo al comes Valerius cui Agostino dedica nel 419 i libri del trattato De nuptiis et concupiscientia. L'amicizia fra Agostino e Valerius si ali- mentava della lotta contro il pelagianesimo, eresia che aveva trovato un terreno particolarmente ricettivo nella Sicilia orientale. Nell'isola la diffusio- ne del movimento pelagiano si configura come una diretta conseguenza del sacco di Roma del 410 e della diaspora di quella nobiltà romana di cui Pelagio e Celestio erano ritenuti i dirigenti spirituali; la breve permanenza dei due in Sicilia non fu indolore per l'ortodossia cristiana, e in particolarè a Siracusa, come dimostrano alcuni cimiteri nell'area soprastante il tea- tro greco, destinati a servire comunità ereticali per tutto l'arco del V seco- lo. Alla luce di ciò, nulla vieta di ipotizzare che Agostino si sia potuto ser- vire della presenza fìsica di Valerius nell'isola per combattere l'eredità lasciata in Sicilia dal suo maggiore antagonista. Quali sono i motivi che rendono plausibile questa identificazione? Per la prima volta Valerius ci appare nella veste di comes senza che il titolo neces- siti di ulteriori qualifiche, e di vir inlustris et religiosus senza che l'iconografia del sarcofago contrasti con la fede del committente. Ma soprattutto per la prima volta la vita del nuovo personaggio, che le epistole di Simmaco (Vili, 47, 57) e di Agostino Ep. 200, 206; Retr. II, 88) racchiudono - almeno per una parte - fra gli ultimi anni del IV e il primo ventincin- quennio del V secolo, sembra sciogliere i principali nodi della questione: quello religioso, perché Valerius è ricordato come un campione di castità coniugale perfettamente in linea con i dettami della Chiesa, e ciò spiegherebbe il tipo di sepoltura per la moglie e l'impegno dimostrato nel monu- memalizzarla senza renderla visibile; quello cronologico, perché la data del 421 relativa alla carica di comes m Occidente si addice perfettamente all'allestimento monumentale del nicchione della rotonda di Adelfìa, ispirato ai modelli creati dagli architetti di Papa Damaso per le catacombe romane, lezione attecchita con comprensibile ritardo in Sicilia. Per convalidare la diversa identificazione del marito di Adelfìa e rispettare la datazione del sarcofago in età costantiniana è necessario accettare l'idea del reimpiego, vale a dire che il comes Balerius - secondo una pratica larga- mente diffusa in antico, che non dobbiamo giudicare applicando categorie che sono soltanto nostre - si sia servito di due pezzi di spoglio per la sepoltura di Adelfìa. Va detto che non mancano indizi in questo senso: le minori dimensioni del coperchio, la presenza di un doppio ritratto per una deposizione unica, il ripetersi della raffigurazione dei Magi nella cassa e nel coperchio secondo schemi diversi e - quel che più conta - con una diversa indicazione dei doni, i danni presentati dai rilievi, incomprensibili in un sarcofago tornato alla luce inviolato, costituiscono tutti elementi che invitano a considerare sotto questa luce il manufatto. Particolarmente significativo è il diverso stato di conservazione delle cassa e del coperchio, una discrepanza alla quale si cercò di porre rimedio sia intervenendo con cemento per saldare le parti danneggiate e non combaciami - nelle prime relazioni si insiste sulla sovrabbondanza di questo cemento bianco «tenacissimo» - sia rivestendo l'intero manufatto di una policromia tanto rude quanto vistosa, che mortifica la qualità dei rilievi e che deve essere attribuita con ogni probabilità a maestranze locali. Conforme al gusto dei siracusani dell'epoca sembra infatti l'esuberante decorazione floreale ancora leggibile tra le figure del fregio superiore, che trova numerosi e significati- vi termini di confronto nelle pitture murali delle catacombe della città. Nella ricostruzione presentata rimane necessariamente in ombra la personalità della protagonista, Adelfia. Se per l'identità del marito è infatti possibile avanzare più di un'ipotesi, il riconoscimento del ruolo svolto dalla donna nella vita sociale del suo tempo comporta maggiori difficoltà. La scelta di una sepoltura così sontuosa è solo specchio del prestigio del marito o Adelfìa non viveva solo di luce riflessa? In ogni caso la deposizione della clarissima femina rappresenta un evento straordinario all'interno della catacomba di S. Giovanni, il cimitero che rimane a tutt'oggi campo d'indagine privilegiato per fornire un quadro generale della Siracusa cristiana.

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