morte della lingua siciliana - cosa ho fatto

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
Cosa ho fatto
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morte della lingua siciliana

scrittore

Morte della lingua siciliana


Non c’era più tempo, la lunga malattia aveva consumato la paziente e stava conducendola irrimediabilmente alla morte, solo un miracolo avrebbe potuto fermare quell’agonia.
Tanti avevano tentato invano e senza risultati apprezzabili.
Uno dei figli, che per tutta la vita si era sforzato di esserle vicino non aveva voce e, nonostante gli sforzi, non riusciva a farsi ascoltare dai fratelli, distratti da tante altre cose.
Era il più piccolo, nonostante l’età, tra i tanti figli che manifestavano di essere attaccati a lei, ma che nulla avevano fatto perché sopravvivesse.
Scienziati, filologi, storici ed illustri personaggi erano stati chiamati al capezzale, persino stregoni e ciarlatani, per scoprire l’origine recondita del micidiale morbo.
Qualcuno sospettava che un complotto ne avesse minate le radici, un tempo rigogliose e orgogliosamente attaccate alla terra, dalla quale traeva linfa e alimento vitale.
Come spesso avviene, rimaneva un sottilissimo filo di speranza ed il tenace figlio vi si attacco morbosamente, mentre fervevano i preparativi per il funerale solenne.
Nella zona, modestamente ritiratisi a vita privata, vivevano saggi e dotti conoscitori delle radici della malata, ed a questi pensò di rivolgersi, in un ultimo accorato appello. Per esperienza sapeva che quando la scienza ufficiale è impotente, sperando nel miracolo, i parenti si rivolgono pregando l’Onnipotente, ed a volte, anche a sconosciuti santoni depositari di antiche ricette.
Non c’era più tempo, il figlio, prendendo il coraggio a due mani, pensò di lanciare un appello per tutte le contrade, tramite i quotidiani e le TV locali.
Così potrebbe iniziare una campagna di stampa per cercare di salvare il salvabile della nostra lingua che, anche storpiata dalla lunga inedia, potrebbe sopravvivere.
Carissimo direttore, questo è l’appello che io, Antonio Randazzo, illuso figlio di questa nostra amata terra, le faccio.
Spesso si occupa spazio nel vostro quotidiano scimmiottando la stampa nazionale, credo convenga che il suo intento era quello di essere letto dai più.
I più, siamo quelli che vorremmo che le nostre radici sopravvivessero all’attacco concentrico dei vari modelli d’oltre oceano che stanno completando la colonizzazione.
Perché non iniziate una campagna di stampa seria, dedicando la pagina della cultura alla nostra lingua, servendovi di persone che conoscono profondamente la cultura popolare della nostra gente, prima che questa, la nostra tradizione, il nostro essere unici, muoia completamente e nulla rimanga? Credo sia dovere di tutti e specialmente degli intellettuali,
rovare le soluzioni più idonee.
Mi sono chiesto cosa andassi a cercare in altre località, nei viaggi anche all’estero, ed ho convenuto che cercavo la singolarità dei luoghi e le tradizioni culturali di quei popoli.
Oltre al già eccezionale patrimonio archeologico, monumentale, culturale, artistico, intellettuale, perché non offrire al visitatore, ma anche ai nostri giovani l’opportunità di incuriosirsi con il nostro patrimonio linguistico? Molto semplicemente aggiungendo alla indicazione attuale delle vie, il musicale toponimo in lingua siciliana.
Perché nei negozi, invece delle brutte insegne in lingua inglese o francese, simbolo evidente di colonizzazione, non aggiungere il toponimo?
Tutto questo, supportato da adeguati opuscoli illustrativi editi dall’ente turismo e, da una vostra intensa campagna stampa, potrebbe far rivivere, o almeno non far morire, ma, anzi, potrebbe far riscoprire la nostra vera storia, quella della gente comune, una volta tanto.
Cosa potrebbe costare l’investimento in tale direzione? Non vi sono sponsor che amano veramente quello che siamo stati e quello che potremmo essere?
Quanti conoscono o sanno il significato dei toponimi: a vanedda a nivi, a calata guvinnaturi, facci rispirata, a spidduta, a masciarrò, a santa cruci, o liuneddu, u cuttigghiu e pocci, a jureca, a jancia, o spiazzettu, scalareca, o taliu, a l’acqua e palummi, o vadduni, nti regina, ecc.. ?
In un’Europa di eguali, la singolarità, la storia, la lingua e le tradizioni, sono ricchezze che vanno salvaguardate e tramandate, o vogliamo omologarci?
Grazie di avermi letto e, anticipatamente, molto di più se mi ascoltate.


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