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TUCIDIDE LA SPEDIZIONE ATENIESE CONTRO SIRACUSA POLACCO MIRISOLA
documentazione pdf
INTRODUZIONE
LA FORMA
Plutarco, nel raccontare la disavventura siciliana di Nicia, ha per principale modello Tucidide che egli definisce tra tutti i narratori di quegli eventi il più drammatico, il più evidente, il più colorito1. E più avanti, nel descrivere la comparsa davanti ai porti di Siracusa dell'armata navale di Demostene, splendida e terribile, lucente d'armi e d'insegne, piena di capivoga e di flautisti che davano la voce e il ritmo alla remata, non trova da usare altra espressione che quella di un "esercizio teatrale"2. Dove "teatrale" non vale tanto per la volontà dei protagonisti quanto per l'efficacia del modello narrativo tucididèo. E infatti il racconto della spedizione ateniese in Sicilia, quale leggiamo nei due libri di Tucidide, si svolge secondo un ritmo che sembra ripetere anche nella forma quello di un testo tragico. Non che Tucidide abbia voluto imitare questa o quella tragèdia del suo tempo (anche se analogie, come vedremo, non mancano), ma certo al genere tragico, quale sulle scene ateniesi aveva trovato corpo sostanzioso come espressione paradigmatica di un ordine (o disordine) delle cose umane, a quello sembra ispirarsi e uniformarsi. Il racconto infatti si scandisce in tre parti ben distinguibili, quasi tre drammi, aventi ciascuno un tema preciso, e tutti insieme, in un ritmo serrato e incalzante, volti ad un'unica situazione finale catastrofica. Inoltre dà risalto e vitalità al racconto lo studiato e pressoché regolare inserimento nella narrazione dei vari momenti, in cui l'azione si scandisce, di discorsi esposti direttamente o di episodi apparentemente estranei al diretto svolgersi degli avvenimenti o di pause riflessive dello stesso autore, elementi tutti questi atti a creare una alternanza drammatica di chiaroscuri; allo stesso modo che nella consuetudine formale dei drammi letterari si alternano momenti drammatici e lirici. I. Nella prima parte, dopo un prologo introduttivo (la Sicilia com'era all'aprirsi di quegli eventi, VI, 7-
L'isolamento inatteso delle forze ateniesi lungo la rotta dal Pirèo a Reggio si costituisce come nota premonitrice di lirico contrappunto, a cui dà particolare spicco la sconcertante scoperta della beffa segestana (42-
Il terzo episodio ci fa assistere al consiglio di guerra degli Ateniesi fermi a Reggio; quindi al conseguente incerto passaggio dell'armata in Sicilia e si conclude con il perentorio richiamo di Alcibiade in patria per rispondere dell'affare" delle erme e dei misteri(47-
Il racconto assai colorito dell'uccisione di Ipparco, fratello del tiranno Ippia, avvenuta per opera di due cittadini, Armodio e Aristogìtone circa un secolo prima, episodio apparentemente del tutto estraneo ai fatti precedentemente narrati, serve invece allo storico per esporre in modo significativo e simbolico quello stato di turbamento e di tensione esistente nella democrazia ateniese, che sta alle radici del richiamo di Alcibiade (54-
Quindi appunto il drammatico epilogo del ritorno di Alcibiade, la sua fuga, l'esilio e la condanna in contumacia a morte (60-
II. -
L'apertura ci parla, con apparente lentezza, di fatti d'arme digressivi compiuti dagli Ateniesi in giro per la Sicilia (62).
Quindi con il primo episodio ci si avvia al contatto diretto dei due contendenti: lo stratagemma ateniese per giungere di sorpresa nel Porto Grande di Siracusa e lo sbarco sulla costa dell'Olimpièo (63-
Un discorso di Nicia alle truppe schierate interrompe il filo degli avvenimenti e dà l'intonazione al racconto dei fatti che seguono (68).
Segue appunto la prima vittoria degli Ateniesi, nei pressi dell'Olimpièo (69-
Si entra quindi nel vivo dello scontro armato, scandito, come si è detto, dalla costruzione di successive e contrapposte opere di fortificazione attorno a Siracusa. Gli Ateniesi sono ormai sopra l'Epìpole e si adoperano per erigervi un muro di circonvallazione attorno alla città, mentre i Siracusani cercano di contrastarlo conducendo per parte loro un muro trasverso a quello (94-
La conclusione di queste operazioni vede gli Ateniesi ben attestati tanto sull'Epìpole quanto nel Porto Grande; ciò porta come contrappeso e inevitabile cesura drammatica un diffuso scoramento dentro la città di Siracusa (103). L'ultimo episodio di questa seconda parte svela, quasi in una sequenza cinematografica, come inevitabilmente si arrivi ad un rivolgimento di situazioni e di atmosfera:
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III. -
E a Siracusa la scena si è a sua volta spostata al mare: la prima battaglia navale vede ancora una prevalenza ateniese, ma una astuta manovra di Gilippo porta alla caduta dei forti ateniesi sul Plemmìrio. Ora gli Ateniesi sono definitivamente tagliati fuori, mentre indugiano i richiesti aiuti da Atene (21-
Il racconto, per inevitabile contrappunto, si arresta per tornare a coinvolgere la Grecia: il truce episodio della barbarie tracia a Micalèsso stende un velo cupo sul teatro di guerra (27-
Ora (2° episodio) è la Sicilia greca che quasi tutta sta con Siracusa, mentre lento e tormentato è il viaggio della seconda armata ateniese, guidata da Demostene, in soccorso a quella di Nicia (31-
Un'altra scena dello stesso episodio proietta, dentro la serie di battaglie navali, il disperato e inutile assalto, questa volta terrestre, degli Ateniesi all'Epìpole: al chiarore della luna, mentre nessuno riconosce nessuno, si mescolano non compresi ordini e canti e infine i soldati in disordine si gettano nudi dalle rupi del colle (42-
La prosa di Tucidide, altrove ferma e compassata, tocca qui punti di intensa e lirica pateticità, a cui segue una pausa di riflessione sgomenta: nel consiglio di guerra tosto tenutosi al campo ateniese si alternano, ripetuti due volte, gli angosciati giudizi contrastanti di Demostene e Nicia (47-
A questo punto il racconto si interrompe con deliberato distacco. È giunto il momento per un intervento diretto e severamente critico dello storico sulla situazione politica e militare di Atene (55-
L'ultimo e quarto episodio ci prepara alla catastrofe con due discorsi di segno opposto ma volti allo stesso fine, uno di Nicia direttamente ai suoi soldati, l'altro di Gilippo a quelli siracusani (61-
Così si giunge all'epilogo, la miserevole ed errabonda ritirata degli Ateniesi in cerca di scampo verso le terre iblèe dei barbari Sìceli: incalzati, circuiti, continuamente battuti dalle truppe e soprattutto dalla cavalleria siracusana (72-
L'idea
La struttura del racconto tucidideo nel susseguirsi serrato ma altrettanto preciso di quadri, ognuno dei quali si presenta con una prospettiva e un colore dominante, mentre si intercalano pause di riflessione espresse personalmente dal¬l'autore o più frequentemente attraverso opportuni discorsi altrui oppure proiet¬tando sulla scena, a mo' di contrappunto, immagini di fatti diversi e di luoghi lon¬tani, tutto ciò rende, a mio avviso, nel conseguente chiaroscuro evidente e giusti¬ficato il riferimento letterario al genere teatrale in voga.
Se poi ci volgiamo ad analizzare lo spirito e i sentimenti che danno vita a quel racconto, se ne ricava una ulteriore conferma. Il senso del tragico, che appa-
Il quadro che primo ci presenta Tucidide è quello della potenza, del benessere, della fortuna di Atene, di fronte a cui si fronteggiano le preveggenti ammoni¬zioni dell'esperto (potremmo dire "sapiente") Nicia e la palese follia del giovane Alcibiade, il quale sogna un impero ateniese sul mondo intero. Il primo, che "vede", è destinato nel voto a soccombere, il secondo, che "non vede", a prevalere. In realtà la sorte è fallace: grava su tutto una atmosfera di sospetti ("l'affare" delle erme e dei misteri e l'apologo illuminante dei Tirannicidi). Alcibiade parte, sì, generale della spedizione assieme al prudente Nicia, ma in attesa di giudizio davanti al popolo per gravi colpe di cui viene, non si sa se a ragione, accusato.
Il primo segnale dell'insipienza colpevole, determinante causa della spedi¬zione -
In questa atmosfera anche il richiamo in giudizio e la fuga di Alcibiade avrebbero ben dovuto "aprire gli occhi" ai comandanti ateniesi. Nicia sarebbe, sì, d'avviso di far vela anche subito sulla via del ritorno, ma resta indeciso tra il sen¬so del dovere che gli impone di portare avanti la missione dalla città affidatagli e la consapevolezza di essere sul punto di compiere un dovere sbagliato. Così tra esitazioni, diversivi, lungaggini trascorrono l'autunno 415 e l'inverno seguente. La stessa impresa dell'Olimpièo, apparentemente vittoriosa, è in realtà inefficace e inutile se non nelle intenzioni temporeggiatrici di Nicia.
Quando, tratto finalmente il dado, nella primavera del 414 si decide lo scon¬tro diretto con Siracusa, forse è tardi rispetto ad altre soluzioni possibili: comun¬que la valentia strategica di Nicia appare in gran forma. L'attacco avviene dalla parte giusta, l'Epìpole, e l'assedio si concretizza nella costruzione, militarmente assai valida, di un contromuro di circonvallazione alla città. Ma restava aperta ai Siracusani la via del mare. Ed ecco un altro, forse inevitabile, errore di Nicia: al fine di chiudere l'assedio di Siracusa la flotta viene da Tapso, ove era all'inizio delle operazioni ancorata, trasferita ora al Porto Grande. Il blocco di Siracusa dalla parte del mare si sarebbe certo potuto effettuare con un organico program-
Il possesso dell'Epìpole -
Scorre l'inverno 414/413 e dentro la valle dell'Ànapo e sulle rive del Porto Grande è per gli Ateniesi come chiudersi in trappola. Nicia se ne rende conto (o forse era proprio questo che egli voleva? "da assediami siamo divenuti assediati") e altro ora non ritiene di poter fare che chiedere ad Atene l'invio di quella secon¬da armata (della cui necessità avrebbe dovuto accorgersi già prima di scendere al Porto Grande), oltre che il suo personale esonero dal comando per ragioni di salu¬te, certo aggravata dallo stesso malessere psicologico. Riconquistare con questa seconda armata l'Epìpole e al tempo stesso restare dominatori del Porto Grande e del mare: la vittoria così poteva essere sicura. Certo destinata a questa strategia (come indica la riconferma al comando di Nicia), arriva la seconda armata, sotto la guida di Demostene, in piena estate del 413; ingente sforzo militare e finanzia¬rio di Atene che intanto si vede impegnata in un secondo fronte nella Grecia stes¬sa contro Sparta. Ma la riconquista dell'Epìpole avviene nei modi sbagliati, da S, con truppe in gran parte nuove ed inesperte, e si conclude con un pieno insucces¬so. Allora il dramma di Nicia esplode in tutta la sua disperata inesorabilità. Egli sa che non ha scampo, ma si illude di trovarlo. L'Epìpole è perduta, perduto è anche il Plemmìrio; sul mare i Siracusani tengono ora testa e vantaggiosamente. Si fida di una situazione interna di Siracusa che crede critica (e non è), capisce che l'uni¬ca via ancora aperta è quella del mare e senza indugio; esita, tergiversa, dubita, trova pretesto dovunque possa trovarlo: gli fanno buon giuoco una eclisse di luna e i conseguenti scrupoli religiosi.
Invece è chiaro e lo confessa lui stesso: Nicia in realtà vuole una cosa sola, non ritornare più ad Atene, dove sa che lo aspettano inimicizie e condanne. Meglio restare e morire per mano del nemico. Così d'ora in poi, ma solo in que¬sta direzione, tutte le sue azioni si fanno coraggiose, direi temerarie. E egli stesso che cerca di affrettare la fine, se non lo trattenessero il senso dell'onore e della sua ben nota eticità militare, quella che i Greci chiamano appunto aretè: assiste più che non vi partecipi alla lenta inesorabile distruzione di se stesso.
Gli errori altrui, lui, li aveva visti, del suo popolo, del collega Alcibiade, ma aveva anche visto che, una volta accettati quegli errori, essi diventavano soprat¬tutto suoi: bisognava, con una caparbietà e una dirittura che non ha pari, portarli a compimento, fino ad una totale espiazione.
Val la pena di ricordare l'amaro epitaffio con cui Tucidide quasi conclude il suo racconto: "... tra i Greci del suo tempo egli era il meno degno di giungere ad una fine così infelice: in tutta la sua vita aveva esercitato virtù e giustizia e servi¬to le leggi".6
Come Èdipo, come Aiàce: è l'uomo l'artefice del suo destino, nel bene e nel male. In questa luce anche la figura di Nicia, quale emerge dal forte racconto tucididèo, giganteggia alla pari di quegli altri personaggi nello sfondo tragico dell'Atene postpericlèa, predestinata nonostante tutto essa stessa alla rovina.
ILUOGHI
Premessa bibliografica
Uno dei pregi maggiori di Tucidide scrittore è senza dubbio la sua capacità di dare lucido risalto a ciò che narra; proprio nel racconto della spedizione ate¬niese in Sicilia questa virtù sembra emergere con la profondità e la vivezza di un quadro teatrale, sì che chi conosce i luoghi ha l'impressione di ripercorrerli passo passo, chi non li conosce (anche, come si vedrà, per le mutate situazioni ambien¬tali), può comunque ricrearne l'immagine con la massima nitidezza. La terrazza dell'Epìpole, le balze del Fusco, la valle dell'Ànapo, le paludi e le coste del Porto Grande, ogni luogo nel racconto tucidideo vive di una luce propria. Ciononostan¬te dagli studiosi un po' per inveterato vizio un po' per necessità di mestiere molte asserzioni dello storico sono messe in dubbio o per lo meno sono state sottoposte ad una varietà di interpretazioni7. Ci adopereremo ora pertanto di esprimere una opinione la più fondata possibile a proposito di alcuni dei punti più controversi e al tempo stesso importanti per la localizzazione dei fatti. Il criterio che si intende seguire è quello di capirne le ragioni, quali emergono dallo stesso racconto in armonia con i dati offerti dalla diretta osservazione topografica, non ignorando ovviamente il confronto con altre eventuali fonti storiche dei medesimi avveni¬menti. Importanti infatti sono anche quelle fonti, sopra tutto di storici come Antioco di Siracusa, Timeo di Taormina, Filisto siracusano, Eforo di Cuma, vis¬suti (meno il primo) dopo Tucidide, le opere dei quali, ora perdute, erano tuttavia ben conosciute da altri, come Diodòro di Agirà e Plutarco, che invece oggi noi possiamo leggere ancora. Ma in ogni caso va tenuto presente che ognuno di que¬sti autori vedeva una situazione topografica di Siracusa e del Siracusano diversa nel tempo e per tutti diversissima da quella attuale.8
Lo studio capitale sulla topografia siracusana rimane quella di F.S. e C. CAVALLARI, A. HOLM, Topografia archeologica di Siracusa, Palermo 1883. Ma un secolo, e più, pesa e si sente. Bisogna comunque riconoscere che l'opera, come tale, non fu mai sostituita. Alcuni contributi tuttavia si sono succeduti nel tempo e sono determinanti, sia pure per argomenti più limitati.
Nel suo Das antike Syrakus, Leipzig 1932 (rist. anast. 1963), K. FABRICIUS ha messo fine all'inveterato ed erroneo giudizio che vedeva l'Epìpole per metà fit-
Un altro decisivo chiarimento alla topografìa di Siracusa è venuto da H.P. DRÒGEMULLER, Syrakus. Zur Topographie und Geschichte einer griechischen
Stadt, Heidelberg 1969. Con specifico riferimento a Tucidide il Drògemuller dimostra, in modo si direbbe definitivo, che il kyklos, l'opera fortificata costruita dagli Ateniesi nel loro primo arrivo sull'Epìpole e di cui parla spesso lo storico, non era, come si credeva, un edificio di forma circolare ma lo stesso "cerchio" del muro di circonvallazione che nelle intenzioni di Nicia avrebbe dovuto estendersi da un mare all'altro e bloccare dalla parte di terra l'intera città di Siracusa.9 Inoltre quel Tròghilo, dato come uno degli estremi del muro, non va collocato a N sotto la cosiddetta "Scala Greca", ma, sempre a giudizio del Drògemuller, ad E presso un piccolo approdo davanti agli scogli detti "dei due fratelli".10
Un terzo importante contributo è venuto da G. KAPITÀN, Sul Lakkios, porto piccolo di Siracusa del periodo greco, in "Arch. st. sirac." 13/14 1967/68, pp. 176-
Un altro determinante contributo, sulla scia del precedente, è venuto da S.L. AGNELLO, Osservazioni sul primo impianto urbanistico di Siracusa, in "Cronache di Archeologia" 17 1978, pp. 152-
Infine ci permettiamo -
Naturalmente varia altra luce è venuta ancora via via da scavi effettuati pro-
I. Le mura arcaiche di Siracusa
II.
Premettiamo che le fortificazioni arcaiche di Siracusa, sia nell'isola sia e in maggior grado in terraferma, devono essersi formate via via nel lungo periodo che va dalla fondazione all'età diomenidèa. È a quest'ultima che riteniamo risalga un organico sistema difensivo; ma, pur riconoscendo l'esistenza di difese preceden¬ti, definirne consistenza e fasi costituisce, nella scarsità dei dati archeologici e sto¬rici, una impresa basata soprattutto su argomenti induttivi.
Tuttavia, prendendo come base quanto accertato dalle ricerche geologiche, geografiche, archeologiche e da noi proposto con la tav. IV16, riteniamo di poter sostanzialmente dare per valido e attendibile quanto segue e proponiamo con la tav. Vili.
A N e a NW Ortigia era in origine separata dalla terraferma mediante un braccio di mare più ampio dell'attuale canale. Da una parte scavi e sondaggi effet¬tuati presso il palazzo delle Poste e nella vicina piazza C. Battisti (sondaggi ese¬guiti per il Piano particolareggiato di Ortigia, 1984, e collegati al Piano regolato¬re del Comune di Siracusa) e ancora nella angolazione tra Riva Garibaldi -
Su tutto il lato occidentale dell'isola la costa doveva essere di poco più avan¬zata rispetto all'attuale17, mentre invece l'area della città era notevolmente più estesa su tutto il lato orientale18.
In terraferma una lunga e relativamente stretta area paludosa (la Syrakò) e una seconda molto più ampia (la Lisimelìa) occupavano la fascia costiera, lasciando al loro interno scoperta una zona, ovviamente più elevata, che corri¬spondeva all'incirca a Piazza Marconi, a buona parte del cosiddetto Foro Siracusano e del promontorio proteso a SE verso Ortigia tra via Bengasi -
Un altro dosso divideva il settore occidentale della Syrakò dalla palude Lisimelìa. Esso partiva da piazza Marconi -
In corrispondenza dei due dossi, cioè su uno all'altezza del piazzale della Stazione e sull'altro all'incrocio tra via Po e corso Gelóne dovevano stare delle porte. Ivi infatti e non oltre, come diremo più avanti, dovevano passare le mura. Importante particolarmente la prima porta, perché da essa si dipartiva la strada per la pianura e in direzione delle due subcolonie di Siracusa: Elòro e Acre19.
Quando giunge a Siracusa la notizia della grande spedizione ateniese tra l'e¬state e l'autunno del 415 a. C., la città, la vera e propria polis, comprendeva l'iso¬la di Ortigia e un quartiere, ali'incirca altrettanto vasto, nella immediata terrafer¬ma, chiamato Acràdina. Apprendiamo da Tucidide (6.3,2) che al suo tempo Ortigia non poteva più chiamarsi "isola" (in dialetto siracusano Nasos). Un istmo infatti -
L"Acràdina (che Tucidide però non nomina mai tale; il toponimo ci viene da fonti posteriori), diciamo la parte terrafermicola della città, fu appunto in un secondo tempo fornita di mura proprie (Tue. 6.3,2). Ciò può spiegare il fatto (ma altre ragioni storiche intervengono a suffragarlo) che l'intera isola di Ortigia restò sempre circondata da mura, anche in quei lati W e NW che, da un punto di vista militare, quando tutta l'area di terraferma, compreso il Porto Piccolo, fu fornita di mura, avrebbero potuto farne a meno21 (v. foto 4 a, b).
Contrariamente ad una diffusa opinione, che ritiene di vedere nell'attuale promontorio (tra via Bengasi -
Solo una parte limitata del promontorio roccioso, corrispondente all'attuale ponte umbertino e alla Dàrsena (con una maggiore estensione, come si è detto, sul lato di Ortigia) era fornita, almeno in superficie, di sabbia e qui doveva correre 1'"argine" ricordato da Ibico (17), atto ad assicurare il passaggio tra le due parti della città. Almeno in età ciceroniana (Cic. Verr. IIIV 117), il braccio di mare tra Ortigia e la terraferma era aperto e superato da un lungo ponte verosimilmente di legno. Di qui in direzione NW dovevano correre le mura a protezione del pro-
La città di terraferma, la polis he exò23, non poteva estendersi, per noti moti¬vi religiosi, oltre la linea dei cimiteri arcaici24, documentati a partire dal piazzale della Stazione fino a poco sotto l'inizio di viale P. Orsi (sotto l'attuale anfiteatro romano) quindi nell'area dell'ospedale civile (ex giardino Spagna), piazza della Vittoria per piegare a SE fin sopra la linea passante per l'incrocio di via Trapani con via Monte Grappa25.
Direttrice di questa città esterna era necessariamente il dosso sopra ricorda¬to e oggi seguito da corso Gelone, integrando con bonifiche anche l'area solida, emergente sulla palude e corrispondente, come si è detto, all'attuale piazza Marconi e Foro Siracusano. Qui si costituì un'agora, centro commerciale, politi¬co, religioso, in parallelo o in sostituzione dell'agora primamente collocata sul lato opposto di Ortigia26.
La palude Syrakó dovette essere presto bonificata anche per buona parte del suo settore orientale per dar luogo e forma ad un bacino detto Lakkios21, agli arse¬nali ivi costituiti28 e al relativo quartiere abitativo sulla riva di esso, cioè l'area cosiddetta Borgata (v. tav. IV). Più o meno quindi la polis he exó restava deli-
A N infine il limite era dato dalle sopra ricordate aree cimiteriali, mentre a S dalle rive del Porto Grande.
Risponde ad una logica elementare che il muro arcaico della città procedes¬se a proteggere, partendo dal ricordato incrocio di via Trapani con via Monte Grappa sino al suo punto estremo, tutta la riva settentrionale del Porto Piccolo. D'altra parte tracce portuali, si sono trovate nei pressi di via Cimone, tracce di mura e di scali di alaggio in via Icèta e poco sotto in via Privitèra30.
L'identificazione sopra ricordata del Lakkios come bacino chiuso (sul tipo probabilmente del kothon punico) rende ben comprensibile il lungo passo di Cicerone (Verr. II V 95-
Di tutta quest'opera arcaica, attorno sia ad Ortigia sia ad Acràdina, nessun resto monumentale sicuro è stato trovato31. Ma della sua esistenza (e della sua consistenza almeno nelle linee essenziali secondo gli argomenti da noi portati) non è possibile dubitare. Ne fa comunque fede il passo citato di Tucidide e inoltre sappiamo da Diodòro (XI 72-
Allora i cittadini, per così dire, legittimisti si attestarono nella parte restante della città e sbarrarono questa con un muro in modo da difendersi essi stessi e impedire ai ribelli di uscire per rifornirsi di vettovaglie.
Ripetute volte vennero alle mani, attaccando sia Acràdina sia l'Isola, anzi vinsero i ribelli in una battaglia navale; ciononostante non riuscivano a scacciarli "perché i luoghi erano fortificati"34.
Da questo racconto si evince:
che Acràdina e Ortigia erano due città collegate ma distinte e completa¬mente fortificate, si direbbe, nel modo che abbiamo sopra descritto;
che la "città" vera e propria, cioè la polis delimitata dalle mura originarie, era appunto Ortigia con Acràdina; ma in realtà anche una notevole parte esterna, cioè almeno quella occupata dai legittimisti, era, nonostante la presenza di nume¬rosi cimiteri, tale da essere considerata polis da Diodòro;
che in questa parte esterna fu costruito dai legittimisti un muro sia per sicurezza propria sia a scopo di blocco nei riguardi della parte più interna;
che ambedue i belligeranti erano forniti di navi e, poiché il Lakkios e con-
che lo scontro decisivo avvenne in terraferma.
Anche di questo secondo muro, fuori e attorno ad Acràdina, nessun resto è mai stato scoperto. Comunque, poiché risultò efficace strumento di assedio, esso doveva andare a sua volta da un punto del Porto Grande fino alla costa orientale e doveva trovarsi ad una considerevole distanza dall'altro, se, come dice Diodòro, esso dava "sicurezza" a quella parte della città. Possiamo pensare che, sul Porto Grande, partisse all'altezza dell'attuale stabilimento militare dell'Aeronautica, inglobasse parte del settore occidentale della Syrakó fin sotto il Temenìte, quindi percorresse una linea più o meno corrispondente a quella delle attuali latomie per finire all'incirca al monumento del Lavoratore italiano in Africa oltre il convento dei Cappuccini. Cioè in altre parole inglobasse quelle parti della città che poi si sarebbero chiamate Neapolis e Tyche, lasciando fuori, per ragioni che tosto dire¬mo, l'area del Temenìte.
Questa linea doveva essere continua, se lo scopo era quello di creare un bloc¬co e la frase di Diodòro to pros tas Epipolas tetrammenon36intesa (espressioni analoghe si trovano anche in Tucidide per i fatti sostanzialmente simili dell'inver¬no 415/414 a.C.) come riferita a tutta la parte di città in terraferma rimasta in mano ai legittimisti. Un blocco limitato al margine settentrionale non avrebbe avuto senso, se lasciava libero il lato occidentale aperto sulla pianura dell'Anapo, dove stavano le maggiori e migliori possibilità di approvvigionamento. Forse invece restava aperto il lato sulla costa orientale sia per la totale mancanza di approdi agevoli sulle sue rive alte e scoscese sia per la minore o nessuna eventua¬lità di aggressioni pericolose da quel lato.
Le paludi per parte loro dovevano costituire un ostacolo alla realizzazione in esse di un muro vero e proprio. E molto probabile che l'opera legittimista, molto lunga e tutta improvvisata, si presentasse con forme discontinue e diverse, cioè anche con semplici fossati e palizzate, secondo i luoghi che attraversava; il che è quanto, per esempio, accadrà più avanti, quando gli Ateniesi scenderanno dalle Epìpole sulla pianura dell'Ànapo e si troveranno di fronte alle aree paludose del¬la Lisimelìa37.
II. Il muro avanzato siracusano nell'inverno 415-
Dunque durante l'inverno 415-
Si deve intendere tutta la parte settentrionale della città stesa tra Ortigia e l'Epìpole. La ragione di questo muro, dice Tucidide (ibid.), era di portare avanti la linea difensiva in modo da crearsi un maggiore spazio di arroccamento alle spalle. Tucidide non parla affatto del muro 463/461. Evidentemente si trattava, questa, di un'opera, come si è detto prima, frettolosa e inorganica, destinata ad essere, alla prima necessità, sostituita dal muro avanzato di cui stiamo parlando. E infatti ben comprensibile che, dovendosi spostare avanti le difese di Acràdina -
In più però nell'inverno 415-
Ancora una volta non siamo in grado di conoscere la consistenza della nuo¬va linea nelle paludi. Probabilmente fu consolidata appunto quella precedente del 463/461, di pali e fosse, ma è anche molto probabile che il caposaldo del Temenìte venisse collegato con il muro vecchio primitivo mediante un solido raccordo giù per viale Agnello e poi lungo via Basento, in modo da costeggiare dall'alto la zona qui corrispondente della palude Syrakó38.
Di questo muro avanzato siracusano noi stessi abbiamo, durante i nostri lavori al teatro del 1986, trovato una buona traccia e precisamente un breve tratto N-
E probabile (sarebbe stata lo soluzione ottimale) che all'incirca nel punto dove terminano le sue tracce, esattamente sopra il cosiddetto orecchio di Dionigi, il muro si divaricasse e da una parte continuasse verso S in modo da chiudere completamente Temenìte e temenos (che in realtà coincidono)40, dall'altra parte si rivolgesse in direzione ENE, seguendo il costone dell'Epìpole all'incirca lungo la linea delle latomie, quante più o meno allora esistessero.
Se si fosse trattato solo delle latomie, sarebbe logico pensare che esse fosse¬ro state lasciate esterne alle mura, come grandi fossati a integrazione dello stesso sistema difensivo. Ma queste cave, almeno nella fase iniziale, erano ricavate sul pendio roccioso delle Epìpole e pertanto a monte di esse si presentava una parete ripida, che doveva necessariamente essere superata dal muro di cinta41.
Nessuna traccia in corrispondenza dei cosiddetti Grotticelli. Ma, se osser¬viamo l'andamento di una stretta e tortuosa via tra viale Teracati e largo Nedo Na-
Lunghe tracce di piani di posa, appartenenti ad un muro di difesa e simili a quelle da noi trovate sul Temenìte, ritornano invece nel largo spazio rimasto per fortuna inedificato al di sopra della balza rocciosa, ove ora sale la via delle Olimpiadi, fino all'incirca alla latomia dei Cappuccini. Recentemente resti cospi¬cui di una muraglia con andamento SE-
È da chiedersi perché la grande latomia del Cappuccini, la più vasta e forse la più antica delle latomie siracusane, sia rimasta all'interno della cinta muraria di cui parliamo, e si direbbe appunto, dato il suo aspetto di enorme voragine, contro il buon senso. Una così ampia e profonda infossatura all'esterno si integrava come elemento poderoso di difesa, all'interno di ingombro ai difensori. O quei resti di muraglia recentemente rinvenuti a N della latomia appartengono ad un'o¬pera diversa dal muro 415/414 o, a nostro avviso più probabilmente, in analogia al caposaldo del Temenìte creato all'estremo occidentale della fronte difensiva, anche all'estremo opposto, presso la costa marina, fu installato un altro caposal-
La terminologia usata da Tucidide nel narrare di queste (e le successive)ope-
Allo stato attuale dei fatti in tutta la zona ad W del teatro tracce del muro 415/414 non sembrano note. Quante si vedono o appartengono al grande com-
III. Leone ed Enrielo
Dunque all'inizio dell'estate 414 gli Ateniesi sono con la flotta aTapso, l'at¬tuale penisoletta Magnisi, e con l'esercito attestato kata ton Leonia kaloumenon, "al cosiddetto Leone" (Tue. 6.97,1), sotto il versante settentrionale dell'Epìpole. Su far del mattino la truppa si dirige di corsa su all'Eurìelo (Tue. 6.97,2). Dov'è esattamente il c.d. Leone e che cosa intende Tucidide con Eurìelo (Eurìalo nella forma dorica siracusana)45 (tav. VII)? Le due questioni hanno fatto scrivere agli studiosi molte pagine.
Il Leone, dice prima Tucidide (6.97,1), è a sei/sette stadi (circa 1.065/1.243 m)46daU'Epìpole, si intende dalla scarpata che, come oggi, fa capo a via Scala Gre¬ca; dunque molto dappresso. Ma Tito Livio (24, 39.13), a proposito dell'assedio romano del 213/212 a.C., dà una misura del tutto diversa e cioè cinque miglia (cir¬ca 7.5 Km) dal Leone all'Esàpilo, che è appunto da collocarsi in cima a Scala Greca47. Su tale misura il Leone di Livio si sposterebbe oltre Tapso fino a Priòlo.
Evidentemente T. Livio ha fatto confusione con le distanze. Poiché racconta (loc. cit.) che Marcello, il generale romano, ha spostato l'accampamento dal-
A tal fine bisogna tener presente che la strada percorsa dalle truppe romane per giungere al Leone dall'Olimpièo non passava direttamente attraverso la pia¬nura e l'Epìpole, ma, facendo un lungo giro attorno alle paludi, scavalcava la sel¬la del Belvedere, cioè appunto per una distanza di circa cinque miglia. Perciò o T. Livio fa collocare da Marcello l'accampamento oltre Tapso (e in tal caso è erro¬neo il riferimento al Leone) o, meglio, come si è detto, confonde la distanza Leone-
Situato dunque il Leone all'incirca sulla costa tra Stentinello e Stentino, cioè nel territorio dell'ex-
Naturalmente, come sempre, i toponimi vanno presi con una certa elasticità. Non è da pensare che un grosso esercito come l'ateniese51 potesse agevolmente sbarcare tutto assieme in uno spazio relativamente limitato; questo doveva costi-
Resta ora da spiegare come mai per salire dal Leone all'Epìpole gli Ateniesi vadano a finire all'Eurìelo cioè all'estremo opposto. Il Drògemuller52 ritiene che il toponimo "Eurìelo" non si riferisca solo alla punta estrema, ove poi sorse il for¬te famoso, ma si estenda ad un'area più vasta e pertanto egli fa salire gli Ateniesi molto più dappresso, cioè per il varco di Torre Targetta. Ma, a nostro avviso, sia il significato del toponimo (eurys halos, -
Inoltre il varco di Torre Targetta è strettissimo e impervio e non è per niente adatto a farvi passare un esercito, tanto meno di corsa. Se osserviamo tutto il pen¬dio dell'Epìpole, dall'Eurìelo a Scala Greca (cioè dal castello fino a dove passa oggi la strada statale 114 per Catania), è agevole osservare che i punti di accesso più facilmente praticabili sono solo due: la conca appunto di Scala Greca e la con¬ca dove più tardi Dionigi farà costruire la cosiddetta opera a tenaglia, subito sotto il grande castello. Ci sono poi qua e là passaggi, come appunto quello di Torre Targetta o quello messo ben in luce dall'Orsi poco a W dell'Artemisio54, passaggi del tutto inadatti per assalire in forze l'Epìpole.
Ma anche le due conche sopra ricordate devono essere state scartate dagli Ateniesi, quella di Scala Greca, perché presumibilmente ritenuta (anche se a tor¬to) ben difesa55 e quell'altra sotto il castello, perché subito sopra si presenta la bal¬za rocciosa del colmo dell'Epìpole e poi perché a W, proprio a poca distanza da essa, il pendio si fa dolce e dà comodo accesso (anche oggi) alla località Belvedere, cioè al vero e proprio "eurìelo"56.
Ancora una volta tuttavia la questione va risolta realisticamente. Non è asso-
In tal caso era quanto mai logico (e conseguente a tutta la tattica militare antica), volendo impossessarsi dell'intera terrazza, partire dal suo punto più alto, sia per la minore pendenza del percorso necessario a raggiungerla (anche se più lungo ma al tempo stesso più defilato) sia per la maggiore accessibilità di esso. Il luogo allora non era fortificato e neanche difeso (come invece era o si poteva pre¬sumere che fosse quello di Scala Greca) e fu probabilmente proprio l'esperienza ateniese a mettere in luce più tardi la necessità di renderlo tale57.
La conclusione dunque non poteva essere che sul punto più alto, dove l'e¬sercito ateniese si raccolse, si ordinò e donde si preparò all'attacco in discesa ver¬so est. Qui il dislivello non era forte ma abbastanza sensibile, trattandosi di un centinaio di metri su una lunghezza complessiva di circa quattro chilometri, di cui i primi due più erti. Tutto ciò favoriva la sorpresa e rendeva il tragitto scelto più lungo ma da un punto di vista tattico il più felice.
IV. Il Làbdalo
Gli Ateniesi sono, almeno per ora, saldamente attestati sull'Epìpole. Pongono un campo fortificato al Làbdalo e raccolgono a Sykè (v. appresso) il grosso dell'esercito (6.98,2).
Il caposaldo del Làbdalo stava sicuramente, per tutti i motivi emersi finora, sul margine settentrionale dell'Epìpole58: era la garanzia della strada del nord e dei collegamenti con la flotta di Tapso. Lì pongono 1'"intendenza" e i magazzini. Ovviamente non presso l'Eurìelo ormai fuori strada ma appunto sul capo di quel¬la che è ancor oggi -
C'è tra gli studiosi chi puntualizza il forte e quindi la località del Làbdalo a occidente della attuale strada statale60 in corrispondenza del ricordato varco di Torre Targetta o addirittura più in là ancora, sopra Casa Tàrgia, chi invece ad oriente61. E si direbbe questi ultimi più convincentemente, perché in situazione più razionale ai fini di difesa e di sorveglianza onde il forte fu costituito. Qui infatti, come si è detto, era uno dei maggiori accessi all'Epìpole, presso l'appro¬do del Leone, su un promontorio che permetteva di controllare d'infilata tutta la costa N dell'Epìpole e spaziava su un'ampia zona sia di terra fino ai monti Clìmiti e all'attuale paese di Melilli sia di mare fino ad Augusta.
Di questo forte non resta nulla (o non ne è stata ancora trovata traccia). Nella costa ad oriente della strada statale fin quasi alla cala di S. Panagia furono fatti ampi scavi ad opera della Soprintendenza, come è facile constatare da diverse strutture anche rilevanti che si vedono qua e là emergere. Ma nessuna notizia ne è stata mai data in sede scientifica e del resto il luogo (nonostante una recente buo¬na recinzione) è ritornato selvaggio e soggetto a manomissioni.
V. -
Quanto alla località detta Syke va senz'altro esclusa, d'accordo con il Drògemiiller e con altri62, una sua identificazione con il quartiere di Tychè. Sia paleograficamente sia topograficamente si tratta di due toponimi affatto diversi. Il nome Sykè non è soltanto siracusano63 e, come tanti toponimi antichi che sono in rapporto a qualche pianta mediterranea, esso può facilmente confrontarsi con il fico, detto appunto sykèM.
La sua localizzazione, una volta respinta quella erronea e tradizionale rela¬tiva ad Acràdina e Tychè, di cui sopra abbiamo parlato, può essere determinata con sufficiente attendibilità, tenuto conto di tutte le puntualizzazioni tucididèe. Ma a tal fine occorre esaminare preliminarmente il quadro della situazione sull'Epìpole dopo l'arrivo degli Ateniesi. Cosa che risulterà alla fine del para¬grafo seguente.
VI. Il kyklos
Consideriamo anzitutto gli Ateniesi, posto il campo-
Quasi tutti gli studiosi hanno visto in questo kyklos un forte di forma circo¬lare. A parte la stranezza dell'edificio e la sua totale inutilità ai fini della guerra in corso, è il contesto degli avvenimenti che porta a interpretare quel termine in sen¬so analogico e non strettamente architettonico. Si tratta di un "cerchio", di un "giro" di mura che era destinato a "chiudere" la città, bloccandola dall'uno all'al¬tro mare (tav. VIII).
Si ripete insomma, in scala certo più grande e impegnativa, la situazione del 463/461. L'uso del termine in tale significato e l'uso di assediare una città crean¬dole attorno una contromuraglia sono largamente documentati dalla storia; delle varie notizie in merito si serve il Drògemiiller per sfatare, a nostro avviso, una vol¬ta per tutte l'assurda interpretazione corrente66. E quando Tucidide dice (6,99.1): kai tè hysteraia hoi men eteichizon tón Athenaión to pros borean tou kyklou tei-
Quanto al percorso del kyklos mancano sul terreno testimonianze archeolo¬giche sufficientemente organiche. Tuttavia da fonte bene informata e attendibile ci è stato riferito che durante uno scavo -
Inoltre (e questa volta vale la nostra diretta testimonianza) subito ad ovest del terzo tornante, venendo dal basso, di viale G. Agnello (detto anche "via pano-
Seguendo verso il basso la direzione del muro di viale Agnello, si giunge sul margine della scarpata di faglia che segna il limite tra l'Epìpole (calcari biancastri miocenici) e la sottostante pianura del Fusco (calcareniti giallastre pleistoceni-
Potrebbe essere stata questa la sede dell'ammorsamento di un altro muro parallelo al primo, che insieme a questo andava a costituire l'inizio di un "doppio muro", steso dagli Ateniesi nell'ultimo tratto del kyklos dalla scarpata dell'Epìpole fino al mare69.
Risalendo più in alto, 250 m circa a NW di piazzale Mauceri, si nota, questa volta quasi perpendicolarmente alla direzione del muro passante per il tornante di viale Agnello, un lungo taglio rettilineo nella roccia (circa 200 m), che potrebbe aver fatto parte della recinzione meridionale del campo ateniese di Syke. Qua e là ai piedi del taglio si notano degli spianamenti per piani di posa. Naturalmente tutti questi elementi (ed altri ancora) andrebbero vagliati in modo unitario dopo una ac¬curata pulizia dell'area e un preciso rilievo topografico di essa (v. foto 5 a, b, 6 e 7).
È presumibile -
Poiché il kyklos restò interrotto a metà nella parte superiore dell'Epìpole (Tue. 7,2.4), diventa ancor più problematico delinearne qui il progettato percorso.
Sappiamo che finiva al Tròghilo (se ne parlerà nel paragrafo seguente), quin¬di, valutando il variare delle quote e l'inevitabile rapporto con il dirimpettaio muro avanzato siracusano, possiamo supporre che dal ricordato incrocio di viale Epìpoli con via Forlanini scendesse a quello di viale Teracàti con viale S. Panagia, di lì tirasse diritto verso il mare di E, passando più o meno per viale Tica (forse qui si arrestò l'effettiva costruzione del muro) largo Dicone, piazza Matila e scenden¬do infine a via Grotta Santa e quindi verso SE fino al Tròghilo.
Nella parte opposta di occidente si ripete il problema già affacciatosi a pro¬posito del muro 463/461. Il kyklos ateniese arrivava effettivamente fino alla riva del Porto Grande? Due volte Tucidide (6,101.2; 103.1) usa l'espressione mechri tès thalasses, "fino al mare", ed esplicitamente afferma (101.1) che l'opera atenie¬se guadagnava il porto attraverso la pianura e la palude (dia tou homalou kai tou helous). D'altra parte altrettanto chiaramente il racconto tucidideo mostra che la palude non era praticabile, se non gettandovi travi e tavole (6, 101.3). Per cui ci sembra lecito dedurre che il muro doppio lapideo si fermasse al margine della pa¬lude, ma che il tratto dell'opera condotto entro questa fosse realizzato solo o pre¬valentemente con strutture miste. Come del resto erano quelle opere trasversali che i Siracusani si erano affrettati a gettare (palizzata e fossato, stauroma kai taph-
Verso est, sul terrazzo dell'Epìpole, il muro vero e proprio non doveva, come si è già detto, andare molto più in là delle alture sovrastanti il Temenìte, perché bloccato da un muro trasversale, da Tucidide denominato hypoteichisma oppure egkarsion teichos, costruito in più riprese appunto a tal fine dai Siracusani72, par-
Il campo-
E qui stava Syke.
A questo proposito Tucidide (7.3,4) ci dice che dal campo-
Ma sulla posizione di Syke nell'area sopra indicata crediamo si possa arriva¬re ad una maggiore precisione. In questa zona, presso il Temenìte, confluivano i tre maggiori acquedotti della città, a NW il Galermi e l'acquedotto del Ninfeo, poco ad E quello del Paradiso (tav. IX). Sembra logico, anzi necessario, che il campo ateniese se ne assicurasse il possesso, sia per averne diretto rifornimento d'acqua sia per controllarne e impedirne l'uso da parte della città. Quindi Syke e il campo relativo (non è detto però, anzi è probabile che Syke, come località, fos¬se più estesa) dovevano occupare un'area all'incirca a S e SW tra gli attuali viale Epìpoli, via Mauceri, via dell'acquedotto e il grande serbatoio relativo, giusto nel punto in cui il kyklos cambiava nettamente direzione, da E-
VII. -
Il kyklos ateniese era dunque previsto a partire dal Porto Grande fino alla costa orientale dell'Epìpole, in un luogo detto Tròghilo (Tue. 6.99,1). Poiché, secondo il quadro da noi prospettato, il kyklos o apoteichisma o anche peritei-
Tale localizzazione, che a noi sembra ineccepibile, contrasta ancora una volta con il testo di Tito Livio e precisamente con i dati da lui offerti a proposito dell'assedio romano nel suo esito finale del 212 a.C. Ne discute largamente il Drògemuller76 e, poiché sostanzialmente ci sentiamo d'accordo con lui, non ci resta che riassumere brevemente i suoi argomenti.
T. Livio, nel fare la storia dell'assedio romano a Siracusa, racconta (25,23.10) che, dovendosi trattare la sorte di uno spartano fatto prigioniero dai Romani, ad colloquium de redemptione eius missis medius maxime atque utri-
Collocata dunque a ovest dell'Esàpilo, la posizione della torre risponde bene alle ulteriori indicazioni di Livio come medius atque opportunus locusBi. I Romani infatti erano accampati nella piana sottostante82.
Occupata finalmente dai Romani l'Epìpole tutta fino alle mura della città83, dove tenevano rigida guardia i disertori del campo romano sì da non permettere nè che alcuno attraversasse le porte nè che tanto meno si potessero avere abboc-
difesa muraria cittadina (a parte il caso a sé stante delle mura dionigiane)86.
11 toponimo di questo luogo a tali segreti fini usato potè essere da Livio, facile ad equivoci del genere, adoperato anche per l'altro incontro alla torre Galeàgra87.
In conclusione: o Livio ha fatto confusione tra il vero Tròghilo sulla costa orientale, approdo facile con tutte le sue caverne per abboccamenti nascosti, e il luogo dell'incontro segreto presso Scala Greca, oppure -
VIII. -
Tre furono i tentativi fatti dai Siracusani per fermare i lavori del kyklos ate¬niese (tav. Vili). Il primo, poco dopo l'occupazione dell'Epìpole da parte atenie¬se nell'estate 414, il loro impianto a Sykee il conseguente inizio della costruzione del kyklos, più che in un'opera compatta doveva consistere in una struttura preva¬lentemente di legno (stauroma), per la quale utilizzarono gli ulivi che numerosi crescevano nel temenos-
Riteniamo perciò che questo muro trasverso siracusano dovesse partire dal¬la porta NW del Temenìte (6,99.3). Questa palizzata ebbe vita breve e gli Ateniesi riuscirono presto a distruggerla; allora i soldati siracusani, che stavano di guardia ad essa, si rifugiarono attraverso la porta dentro il santuario stesso (6,100.1 -
E inoltre probabile che, com'era consuetudine in siffatte circostanze, i lavo¬ri non procedessero da ambo le parti in linea continua ma per cantieri separati. Perciò gli Ateniesi nell'opporvisi dividono le loro forze: trecento opliti furono mandati contro la parte dell'opera trasversa oramai più vicina; del restante eserci¬to una parte fu spedita in direzione del muro avanzato, il proteichisma siracusano, aggirando evidentemente l'opera trasversa, un'altra parte invece puntò alla strut¬tura più fortificata presso il Temenìte, che distruggono, ma dove non riescono a insediarsi (6,99.3 3-
Il giorno appresso gli Ateniesi, forse persuasi di un loro definitivo successo sul lato nord o forse preferendo non dividere le forze (la flotta stava per trasferir¬si da Tapso al Porto Grande), passarono a realizzare la parte ovest del kyklos, cioè dal ciglio sud dell'Epìpole fino alla pianura e al Porto Grande (6, 100.1). Anche qui i Siracusani ripetono la stessa tattica: un'opera trasversale che impedisca al nemico di arrivare al mare. Anche qui si trattava di uno stauroma e, in più, di una taphros, una palizzata e una fossa (6, 101). E anche questa volta gli Ateniesi riescono a distruggere e l'una e l'altra opera (6,101.3)89.
Vedendo gli Ateniesi impegnati in basso, con una rapida manovra i Siracusani si portarono nuovamente in alto e distruggono quella parte del kyklos che si dirigeva ad est, lunga dieci pletri (c.a 300 m), disposta davanti al campo Ateniese di Syke, dove gli Ateniesi avevano ammucchiato materiali e legname. Per caso lì c'era ancora Nicia, il quale, vista la mala parata a causa della poca trup¬pa di cui poteva disporre, fa incendiare tutto il legname, creando così una barrie¬ra di fuoco tra sé e i Siracusani e arrestandone l'attacco fintantoché giungessero rinforzi dal basso (6, 102.3). Così gli Ateniesi poterono portare a termine l'opera occidentale, anzi vi costituirono il "muro doppio" (6,102.4 -
Con l'arrivo dello spartano Gilippo i Siracusani riprendono ordine e corag¬gio e muovono nuovamente all'assalto degli Ateniesi sull'Epìpole. I quali invece non si muovono e allora Gilippo e i suoi si acquartierano per la notte nella parte alta del Temenìte (7, 3.3). Ancora una volta si fa riferimento a questo caposaldo, non lungi dal quale deve essersi svolta l'azione or ora narrata. L'indomani i Siracusani ritornano in campo: si impadroniscono del forte ateniese al Làbdalo (7,3.4) e riprendono per la terza volta con tutte le forze disponibili la costruzione del muro trasversale (7,7.1). Ma ora si tratta di un vero e proprio muro, sia pure "semplice" (teichos aploun, 7,4.1)90, che finalmente riesce a sorpassare l'opera ateniese ed aggirarla (7, 4.2 -
Dove sull'Epìpole fossero esattamente collocati il primo e il terzo muro tras¬verso siracusano (il secondo è quello steso nella pianura paludosa di W) non è possibile dire, mancando di essi adeguate testimonianze archeologiche91. Tuttavia la situazione generale è chiarissima. Dal discorso finora svolto risulta, ripetiamo, che nella costruzione del kyklos sono state tenute dagli Ateniesi ben presenti e distinte due direzioni, una pros borean (6,99.1), cioè il tratto settentrionale sull'Epìpole, grosso modo in direzione E-