Catania storia
Catania
L'archeologia a Catania tra le due guerre. Le occasioni perdute
di Maria Grazia Branciforti
tratto da: Archeologia_in_Sicilia_fra_le_due_Guerre
Il tema di questo convegno, utilmente promosso ed egregiamente coordinato da Rosalba Panvini, ha suscitato notevole interesse come si evince dalle numerose adesioni e come ho avuto modo di constatare nella sessione odierna, ascoltando le interessanti relazioni dei colleghi che mi hanno preceduta. Si tratta di un periodo ricco di luci e di ombre anche per Catania, città per la quale ritengo si possa partire da un lasso di tempo di poco anteriore, che consente un migliore inquadramento del periodo oggetto delle nostre riflessioni. La storia e il futuro della ricerca archeologica in città furono determinati già nei primi anni successivi l'Unità d'Italia, quando ebbe inizio un processo di malinteso "sviluppo" che condizionerà irrimediabilmente gli anni a venire, rendendo inevitabile ciò che poi avverrà nei decenni tra i due conflitti mondiali. E se, da una parte, le ricerche archeologiche porteranno alla scoperta di importanti pagine della sua storia antica, eseguite da personalità di spessore pur sempre grande, seppure di diversi o opposti caratteri, dall'altra personaggi di importanza certo non nazionale, e meno che mai internazionale, saranno quelli che maggiormente incideranno sullo sviluppo urbanistico e sociale e di conseguenza sul destino delle antichità catanesi. Non si può che partire dal barone Bernardo Gentile Cusa, figura appunto nota solo a livello locale, e dai concetti di ammodernamento e di risanamento che stanno alla base della sua Relazione al Piano Regolatore, dai quali da lì a poco verrà fuori l'idea di una Catania come "la Milano del Sud" che periodicamente verrà riproposta dalla stampa locale1.
«La poca o nessuna influenza che la topografia della Catania antica ha nei concetti che hanno suggerito lo studio dell'odierno piano regolatore mi dispensa da una minuziosa ricerca storica sugli avvenimenti politici e sulle vicissitudini materiali che per opera d'uomini e per forza di cataclismi, Catania ebbe a soffrire in tempi molto lontani».Un incipit che, in maniera lapidaria, annulla con poche frasi quella lunga tradizione di studi delle antichità catanesi, documentata sin dal XVI secolo e che ha, nel Settecento, la sua massima espressione in Ignazio Paternò Castello principe di Biscari.
Nel secolo dei lumi e della "ricostruzione" del Val di Noto dopo il disastroso terremoto del 1693, la sua incessante opera, volta alla tutela e, prima ancora, alla scoperta di un passato illustre, si inquadra, come ricorderà D. Scinà2, in quel contesto culturale di grande rinnovamento ed implemento degli studi antiquari che caratterizza il secolo. La sua azione si intensifica, come è noto nell'ultimo trentennio allorché ricopre la carica di Regio Custode per il Val Demone e il Val di Noto, carica che svolge coadiuvato da numerosi "corrispondenti locali", alcuni dei quali sono personalità di grande spicco, come Cesare Gaetani della Torre per Siracusa, o don Ignazio Cartella per Taormina3. Per Catania il Principe prepara un intero volume, con un ricco corredo di incisioni di Antonio Zacco ricavate dai disegni e dagli acquerelli dei numerosi collaboratori di cui si circondò nel ventennio di preparazione dell'opera che, comunque, non vide la luce per la sua sopravvenuta morte nel 17864. Tra questi, Luigi Mayer e Stefano Ittar cui Giuseppe Pagnano attribuisce la grande tavola del Teatro, Odeio e Rotonda che mostro (fig. 1), da lui rinvenuta alla Biblioteca nazionale di Parigi e pubblicata nel 20005, probabilmente eseguita nel 1771 in occasione degli scavi di liberazione della scena. Il manoscritto e le illustrazioni furono smembrati e variamente dispersi nel mercato antiquario, ad eccezione del gruppo rimasto in possesso della famiglia e poi transitato nel Museo Civico di Castello Ursino, e il gruppo conservato a Parigi dove arrivò per l'acquisto, da parte del ministero francese, delle carte di Leon Dufourny che lo aveva ricevuto, in dono o in prestito, di figli del principe durante il suo soggiorno a Catania nel 17896.
La ricerca archeologica e soprattutto la tutela delle antichità già scoperte seguiranno la sorte del manoscritto e della stessa Regia Custodia, che nel 1827 cambierà volto con l'istituzione della Commissione di Antichità e Belle Arti, con sede in Palermo.
I documenti, che più specificatamente riguardano Catania, scarseggiano per i primi anni 1827-1845. Oltre a qualche nota del Fondo Prefettura dell'Archivio di Stato di Catania, vengono in nostro soccorso le "Tavole di Conto", pubblicate da Giuseppe Lojacono e Clemente Marconi tra il 1998 ed il 2002, veri e propri resoconti economici delle spese che il Ministero borbonico affronta per i Custodi locali e per lavori di scavo e di manutenzione7. Tra il 1830 ed il 1845 i Custodi sono diventati di fatto dei "sorveglianti". Per la pericolosità del lavoro furono dotati di armi e fu loro concesso l'alloggio nelle stesse aree archeologiche o monumentali. La ricerca archeologica continua, sulle orme di Biscari, con un intervento di scavo nel Teatro, eseguito, sotto la direzione di Saverio Francesco Cavallari e dello stesso Serradifalco, tra giugno e settembre del 1841 (fig. 2). Ancora nel 1842 ci si occupò dell'esproprio delle case costruite sul Teatro, per demolirle, e dei danni causati dalle intense piogge invernali. Nel febbraio del 1844 la Commissione chiedeva ai Corrispondenti locali un progetto di restauro del Teatro e dell'Anfiteatro ed ancora nel gennaio del 1845 si chiedevano notizie sulla progressione dei lavori.
Negli anni '50 dell'Ottocento, per quel che riguarda Catania, si registrano frequenti contrasti tra i privati che hanno edificato sul Teatro ed il governo. Con un atto, inconcepibile al tempo di Biscari, i privati si spingono a richiedere un risarcimento per i danni causati alle loro case dagli scavi governativi (ci si riferisce a quelli diretti nel 1841 da Mario Musumeci); la Commissione impone di continuare e valuta l'ipotesi di risarcimenti pecuniari. Si evidenzia pure un contrasto con l'Intendenza locale che ritiene non si possa procedere alla demolizione delle casette per la difficoltà di trovare alloggi alternativi per gli abitanti nella cattiva stagione.
Confermata la Commissione dal nuovo Regno d'Italia (Patricolo dal 1884 rivestirà il ruolo di Direttore dell'Ufficio regionale dei Monumenti di Sicilia), si continua a ricordare alle Prefetture locali i propri compiti e poteri, quali la facoltà di impedire "usurpazioni, guasti e innovazioni" sia nei monumenti espressamente detti pubblici che di pertinenza privata, ricorrendo all'occorrenza all'intervento diretto del Ministero. A Catania aumenta il contrasto con i privati per le devastazioni dei monumenti come quella operata sull'Odeo, quando il proprietario del palazzo limitrofo, barone Sigona Villarmosa, costruito sull'edificio scenico, per ingrandire la propria fabbrica fece saltare con la dinamite l'ultimo fornice occidentale (fig. 3).
Inizia una procedura «contro i rei» che avrebbe dovuto portare a termine la Prefettura di Catania. La richiesta sarà reiterata nel 1870 sino a pervenire, nel 1871, alla deliberazione di scrivere al Ministro per chiedere la demolizione delle case costruite sul monumento. Ma le amministrazioni locali, rese forti, in alcuni casi, da figure emergenti di amministratori, quale quella di Giuseppe De Felice, tendono ad agire rimanendo fuori dall'orbita della Commissione regionale. La controversia tra i Sigona Villarmosa e il Demanio finì con l'essere trattata direttamente dal Ministero, e si giunse alla sentenza della Corte sull'appartenenza al Demanio pubblico del Teatro greco e dell'Odeon in parte "abusivamente" occupati da privati.
La Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, guidata in quegli anni da Giuseppe Fiorelli, interverrà ancora una volta nella questione della lottizzazione dei terreni confiscati ai francescani di Santa Maria di Gesù. In una lettera del 1886, Fiorelli informa il Prefetto di Catania dell'impossibilità del Ministero, per fondi insufficienti, a partecipare alla gara di "subasta" per l'esproprio del terreno, diviso in lotti, nell'area di S. Maria di Gesù in cui si trovano gli antichi ipogei, terreno "venduto nel 1871 dal Demanio al sig. Messina e poi caduto in subasta per fallenza dell'acquisitore". Auspica tuttavia che Comune e Provincia, in stretto accordo, "vogliano rivendicare quei monumenti che potranno concorrere, nella sistemazione edilizia, al miglior lustro cittadino". Con sentenza 13 maggio 1885, il Tribunale Civile di Catania ordinò la stima giudiziale del lotto in questione, sottoposto ad espropriazione a danno del sig. Messina, per mancato pagamento del prezzo e degli interessi, lasciando libero il perito di suddividerlo in più lotti o sub lotti. L'Ipogeo fu compreso nel lotto V e, messo all'asta, fu aggiudicato al Demanio con sentenza del 27 febbraio 1889 per £.854,68.
La custodia del Monumento fu affidata al custode del Teatro Antico di Catania. Era del 1888 l'emblematica asserzione del barone Bernardo Gentile Cusa, ed è pure del 1888 l'insediamento del napoletano Vincenzo Casagrandi nella facoltà di lettere dell'Università di Catania. Siamo in quel particolare clima politico e sociale che si determinò a Catania durante l'amministrazione De Felice che, caratterizzato fin dall'inizio da una forte spinta innovativa e da una notevole spregiudicatezza, ma poi entrata in piena crisi dopo il primo conflitto mondiale, facilitò indubbiamente il declino delle vecchie classi aristocratiche. Siamo negli anni che precedono le riforme considerate indispensabili per l'incertezza e la transitorietà delle leggi di tutela e per un conseguente riordino delle strutture preposte, riordino che avverrà dapprima con la legge del 12 giugno 1902, n. 185 (Legge Nasi), che si dimostrò comunque deficiente in alcune parti, nella tutela dei monumenti, nel regime degli scavi, nelle guarentigie contro l'esportazione e soprattutto nella istituzione di un "catalogo giuridico" (il nostro attuale "Inventario") delle opere d'arte. Si procederà quindi con il nuovo disegno di legge di cui sarà relatore Rosadi, sotto il cui nome ricordiamo ancora la legge del 20 giugno 1909, n. 364 che è di fatto considerata la prima vera legge di tutela dello Stato Italiano. Sono gli anni in cui Il giovane Paolo Orsi è nominato Ispettore di terza classe degli Scavi, Musei e gallerie del Regno con residenza a Siracusa (1888), sarà da lì a poco nominato Direttore del Museo nazionale di Siracusa (19 settembre 1907) e Sovrintendente agli scavi e ai musei archeologici di Siracusa (21 novembre 1907). Nel 1889 aveva presentato all'Università domanda per la libera docenza in Archeologia; di essa fu nominato relatore professore di Storia Vincenzo Casagrandi, altra figura di spicco nel periodo tra le due guerre (nato a Lugo di Ravenna morirà a Catania nel 1920)8.
Con Paolo Orsi questi percorsi paralleli, costituiti da trasformazione e sviluppo della tutela archeologica da un lato, e figure dominanti e/o presenti nell'archeologia catanese dall'altra, finiranno con il coesistere senza incontrarsi.
Inizia un altro mondo. I numerosi monumenti antichi scoperti e descritti da Ignazio Biscari sono tornati via via nell'oblio. Alcuni perché già al momento della loro scoperta furono ricoperti di nuove fabbriche, come nel caso del bagno di Casa Sapuppo, di recente parzialmente riscoperto in piazza Sant'Antonio9, o del prospetto orientale del Teatro, obliterato sotto palazzo Gravina e pure di recente rimesso in luce10; altri semplicemente perché dimenticati o abbandonati. Adolf Holm, nella sua Des Alte Catania, pubblicata a Lubeck nel 1873, aveva già descritto un numero "ridotto" di Antichità e i verbali della Commissione palermitana avevano indicato interesse ed attenzione solo per alcuni grandi monumenti in documenti che numericamente sono andati via via scemando. Se nei primi si parlava di Teatro, Anfiteatro e Terme, alla fine tutta l'attività della Commissione sembra incentrata sul problema delle case da demolire nel Teatro e sui danni che la villa del Principe di Cerami continuava a provocare nell'Anfiteatro. Entrambi i problemi comunque non trovarono soluzione. Sul Teatro si continuerà a costruire, anzi al posto delle casupole più antiche verranno erette ben più pesanti fabbriche. I monumenti assumeranno sempre più l'insano aspetto di grandi cloache, recettori di tutti gli scoli fognari dei palazzi sovrapposti, o, come nel caso delle Terme Achilliane, furono in parte travolti dalla rete fognaria comunale ancora in corso di realizzazione agli inizi del Novecento.
Nel 1916, in occasione della realizzazione di un tratto della rete fognaria, si registrò la scoperta di resti antichi in via Vittorio Emanuele, davanti al giardinetto che costeggia la Cattedrale. I lavori furono sorvegliati dall'Orsi con la collaborazione di Salvatore Sciuto Patti, figlio di quel Carmelo che molto si era adoperato quale corrispondente della Commissione palermitana11.
In senso più generale si può affermare che le nuove scoperte, pure numerose, non derivano da una programmata ricerca scientifica ma sono piuttosto occasionali e fortuite.
E ritorniamo all'inizio: la vocazione della città di Catania sono l'ampliamento, il risanamento e l'ammodernamento. È del 1915 la dura affermazione dell'Orsi in merito ai numerosi ritrovamenti che lo portarono spesso a Catania, derivati dai «vastissimi movimenti edilizi» e dal sorgere dei nuovi quartieri periferici che gli consigliarono «di intensificare la vigilanza su tutti i cavi di fondazioni e di alzati; vigilanza, che per l'angustia dei mezzi pecuniari non si poté talvolta esercitare colla dovuta continuità, e che d'altro canto era resa sempre difficile dal partito, preso da costruttori ed appaltatori di celare le scoperte, distruggere ed interrare i ruderi, sottrarre gli oggetti». Ci si riferisce ai radicali cambiamenti della contrada Orto del Re che, «già proprietà del marchese Toscano, venne suddivisa in lotti per erigervi un nuovo quartiere urbano con strade e villini». Nell'estate 1913, nella proprietà del prof. Francesco Guglielmino del R. Liceo l'Orsi rinvenne una camera ipogeica che presenta in sezione ed in pianta (fig. 4); nelle immediate vicinanze riconobbe 15 sepolcri, che descrive classificandoli a seconda delle loro forme. Nello scavo per la costruzione di un altro villino (proprietà Caniglia in Giudice) «vennero alla luce altre 10 sepp., di cui 2 a cappuccina di tegole, 7 a fossa in nuda terra, ed uno formato di mattoni a cassetta, contenente ossa cremate». Sottolinea la singolarità delle statuette fittili, contenute nella tomba a cremazione (ora esposte al Museo regionale di Siracusa), da lui ritenute indubbiamente dei giocattoli della defunta; una tipologia di terrecotte sino a quel momento mai trovata in sepolcri sicelioti e che invece egli trovava fin dal sec. V abbastanza frequenti nelle necropoli di Locri e di Medma.12
Sebbene l'Orsi fosse intervenuto a Catania già nei primi anni del suo insediamento a Siracusa, per il rinvenimento di un sepolcreto «del basso impero» sulla collina di Cibali, nelle vicinanze di Santa Maria di Gesù, in occasione della costruzione di un villino privato, intervento di cui ricevette una segnalazione dal Casagrandi13, o per l'individuazione di un'altra area cimiteriale nel centro urbano, in via Lincoln ora via di Sangiuliano, in occasione della costruzione della Birreria Sangiorgi14, il maggiore impegno è proprio negli anni 1912-1917, per i continui lavori di ammodernamento e per i nuovi quartieri che vi vanno realizzando in città, come indicano le sue serrate comunicazioni nel periodico nazionale, istituito nel 1873, «Giornale delle Notizie degli Scavi di Antichità». Oltre ai ritrovamenti in contrada Orto del Re, già accennati, ed alla di poco precedente notizia (1912) di un edificio con pavimento in mosaico ed ambienti riscaldati, occasionalmente messo in luce nel cortile di palazzo Asmundo della Gisira ai Quattro canti (fig. 5)15, sono proprio i massicci lavori per la realizzazione di un tratto della rete fognaria che lo impegnano con una presenza costante nella primavera del 1916, coadiuvato dall'ispettore onorario Salvatore Sciuto Patti. Nel tratto orientale di via Vittorio Emanuele, fra la piazza del Duomo ed il mare, davanti al giardinetto che fiancheggia a settentrione la cattedrale, alla profondità di m. 0,40 sotto il piano stradale venne in luce un rudere absidato ma, date le esigenze della viabilità e gli ostacoli frapposti dagli appaltatori, non fu possibile ampliare il cavo, e quindi l'area dei ruderi. L'edificio rimase di dubbia interpretazione tra «una basilichetta primitiva, o il corpo absidato di qualche edifizio termale, di cui, come è noto, sotto la cattedrale si conservano altri avanzi non indifferenti» (si riferisce alle note terme Achilliane). Davanti alla vicina chiesa del convento di Sant'Agata si avvistarono due poderose strutture senza paramento (dello spessore di m 3 l'una e di m 2 l'altra). «Il carattere di queste poderose opere di fondazione è cotanto incerto, chè io nemmeno oso pronunziare giudizio, se trattisi di costruzioni classiche, ovverossia molto più recenti; procedendo verso levante, gli avanzi murari toccati ed in parte messi a nudo nella grande trincea della fognatura diventano più numerosi ma anche più complicati, essendo evidente la successione di strutture diverse per tecnica, destinazione ed età, alcune delle quali hanno soppiantate le precedenti» (fig. 6)16.
L'Orsi si misura coi problemi dell'archeologia urbana e bene valuta come «A voler ben venir a capo di qualche cosa avrebbesi dovuto interamente sospendere la circolazione nel cuore della città per molti giorni, svellere l'intero basolato di selcioni lavici in gran tratto della via, denudando il corrispondente suolo antico sottostante.
Ma la Soprintendenza dovette accontentarsi di un programma minimo; i lavori vennero in taluni punti per qualche giorno sospesi ed allargato il cavo, rilevando e fotografando quanto conveniva; ma molto rimane ancora oscuro, come si vedrà dall'esposizione riassuntiva dei fatti osservati». Ed ancora, «Davanti il gran portone dell'arcivescovado, spuntò poderoso muraglione cementizio, che segue un po' obliquamente l'asse del collettore centrale. Ne ho preso uno schizzo ad 1/200, che qui allego alla fig. 2. Detto muro di opus incertum con grossi massi lavici informi e banchina di fondazione, è, come in genere tutte le fabbriche romane di Catania, di ottima tecnica cementizia. Sul lato di mezzogiorno di esso vengono a cadere normalmente due braccia di altri robusti muri che si protendono sotto le fabbriche circostanti, delimitando degli ambienti rettangolari, la cui esplorazione interna, è superfluo il dirlo, non poté essere nemmeno inizialmente tentata». Procedendo verso levante tutto il suolo stradale, subito sotto la pavimentazione di basole laviche, apparve invaso da un reticolato di fabbriche di difficile rilevamento; tanto più difficile, in quanto sopra ed in mezzo a ruderi di fabbriche preesistenti venne innestato nella bassa romanità tutto un sistema di cellule sepolcrali a formae, talvolta a più ordini sovrapposti, e delle stesse caratteristiche delle «belle strutture cemeteriali riconosciute a Santa Maria di Gesù ed in via Lincoln (fabbrica Sangiorgi), e che io a suo tempo divulgai». Furono raccolti numerosi titoli funerari che lo studioso si premura immediatamente a pubblicare e che sono stati di recente ripresi da
Korhonen17. La presenza di tombe più recenti installate dentro fabbricati molto più antichi è acutamente valutata dal Nostro come un utile elemento per la conoscenza della topografia di questa parte dell'antica Catina. Sottolinea ancora una volta le condizioni penose e difficili in cui si operava: «Da un lato gli appaltatori, che per ogni breve sospensione di lavoro chiedevano indennità esorbitanti; dall'altra turbe di curiosi che si affacciavano al cavo intralciando seriamente il lavoro. Curiosità che si accrebbe quando si diffuse la voce della scoperta di tesori. Si trattava della cella ipogeica di forma rettangolare, le cui pareti interne erano affrescate e ricoperte da iscrizioni e graffiti (fig. 7). «Del grande graffito racchiuso dalla targa esibisco a fig. 7 un facsimile fotografico, ottenuto con grandi stenti. Prima della fotografia ne avevo fatto un accurato apografo; da questo e da quella ho tentata la lettura, ricavandone molti elementi». L'Orsi interpretò il rudere come uno di quegli ambienti sotterranei di una casa «che nelle abitazioni signorili servivano come luogo di rinfresco e di refrigerio così per derrate, come per le persone». E che poi, quando la casa era ormai in rovina, sia divenuto sede di convegni amorosi della peggiore specie (come indurrebbe a credere il contenuto dei graffiti), si spiegherebbe agevolmente.
Ma ciò su cui l'Orsi insiste è l'importanza del ritrovamento sia per la rarità di graffiti siffatti fuori da Pompei, ma anche per la storia dei costumi. Sembra proprio che via sia una certa soddisfazione, che lascerebbe sottintendere contrasti da lui vinti, quando scrive «Per la storia dei monumenti di Catania ... questo ipogeo, debitamente coperto di sabbia compressa, venne rinchiuso nel sottosuolo dove era stato costruito un 19 o 20 secoli addietro. Ricordiamo che era coincidente coll'asse preciso del grande collettore e che quindi la sua conservazione dovette determinare una variante del tracciato originale. Data l'urgenza con cui procedevano i lavori della fognatura, mancò il tempo per richiamare da Pompei un operaio specialista, abile nel distacco dei graffiti».
Un bene salvato e una grande occasione perduta.
La stesso orgoglioso sentimento di diremmo "successo", pur contenuto nella compostezza delle sua severa e asciutta enunciazione, è nel riferire come «Col novembre 1917 è stato condotto a termine lo scavo dell'Odeo di Catania, mettendo allo scoperto tutto intero il tratto espropriato dallo Stato». Si chiude così l'annosa questione su cui si era impegnata la Regia Commissione delle Antichità e Belle Arti già a partire dall'aprile 1868. Sebbene in quegli anni si ottenesse un decreto di pubblica utilità, le procedure espropriative abortirono quasi subito per essere riprese proprio in questi anni dalla Regia Soprintendenza di
Siracusa, e, come annuncia l'Orsi, «ne sortirono buon effetto perché gran parte dell'Odeo è ora proprietà dello Stato e perché compiute le demolizioni si è vista la chiara forma dell'edificio» che di seguito Egli descrive. Le notizie si susseguono quasi incalzanti con il ritrovamento della tomba monumentale in occasione della costruzione dell'Istituto di Fisiologia in via Androne e del tratto di necropoli arcaica della Katane calcidese in occasione della realizzazione del nuovo Istituto Botanico di via Etnea. In quest'ultimo caso, ebbe la segnalazione dal dott. Ottorino De Fiore, geologo e vulcanologo, che si occupava «con nobili intendimenti» e per passione delle scoperte archeologiche di Catania, Ma l'Orsi trova veramente deplorevole «che da parte dell' Università non sia stata avvertita della scoperta la competente Soprintendenza; gli operai infatti distrussero e trafugarono ogni cosa mentre sarebbe stato di grande giovamento alla scienza conoscere forma, struttura, contenuto dei sepolcri ed istituire nel luogo stesso assaggi di scavo». Dai vasetti salvati dal De Fiore (fig. 8) e da altri recuperati dall'ispettore onorario S. Sciuto Patti, provenienti dalla area di Cibali (e detenuti da privati), e dal ritrovamento, anch'esso rimasto misterioso, della grande anfora nella zona dell'Indirizzo, quindi vicino al Porto, detenuta dalla famiglia Zappalà Gemelli, ed ora al Museo regionale di Siracusa, Orsi trae alcune brevi considerazioni sulle necropoli greche e con un tono quasi rassegnato conclude: «In attesa di più ampie scoperte prendiamo frattanto buona nota del poco, che la fortuna ci fornisce»18.
Dopo le notizie pubblicate nel 1918, Orsi non riferirà più di scavi catanesi. Si dedicherà ad altre ricerche e ad altri luoghi.
Venne ancora a Catania, come si legge nei suoi taccuini, per esempio nel 1923 (tacc. 126, pp. 86-88) dove riferisce di una escursione sul tavoliere di Santa Sofia con Libertini: «il Libertini ha fatto degli schizzi di pianta raccogliendo tutta la letteratura, il Pigonati fece rilievi più antichi da tenere in conto perché una parte dei fabbricati sono scomparsi. Si parla di un monastero dei tempi di Gregorio Magno, rifatto dai normanni e nel secolo XIV trasportato in città. La cosa è possibilissima. Il suolo è cosparso di migliaia di vasellami, tegoloni, coppi, anse a gomito di anfore certo greche, rarissimi frammenti a scadente vernice, un coccio forse tipo Stentinello. Vi è un po' di tutto».
Notizia questa che quasi con le stesse parole riferirà G. Libertini, figura ora emergente a Catania, in un suo breve contributo sulle ultime acquisizioni archeologiche, non facendo comunque cenno alla segnalazione avuta da Orsi.Venne ancora nel 1924, come egli stesso riferisce: «Passo da Casagrandi (prof. all'Università), si discorre di molte cose ma egli mi rivolge sue fervide preghiere: 1) occuparmi di scavi e delle scoperte di Monte Po; 2) idem della grotta sottostante alla chiesa di S. Gaetano dove vi sarebbe una cripta bizantina. Tale grotta si chiama di Betlemme e ne fu iniziato lo scavo per suggerimento del Casagrandi e col consenso di Sciuto Patti»19.
A parte il volumetto, redatto in collaborazione con Sebastiano Agati, sui monumenti di Catania, dove egli cura personalmente la bibliografia e la prefazione, nella quale sono tracciati gli aspetti dell'arte catanese dai tempi più antichi al XVIII secolo (l'elenco è di S. Agati e di S. Sciuto Patti) per gli anni a venire abbiamo solo una breve notizia sulle demolizioni per la liberazione del teatro di Catania (1931 notiziario).
Altri ormai si occupano delle antichità catanesi, come Salvatore Sciuto Patti che riferirà dei restauri nel teatro, nell'odeon e nell'anfiteatro (Sciuto patti 1929) e, soprattutto, Guido Libertini che affida le sue notizie all'Archivio Storico della Sicilia Orientale, rivista della Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale fondata nel 1903 da Vincenzo Casagrandi e da lui presieduta dal 1924 al 1928.Ma inizialmente, siamo nel 1922, esordisce con un breve saggio sull'antiquaria catanese del XVI secolo il cui principale merito è quello di avere riportato i frammenti del Chronicon Urbis di Lorenzo Bolano, medio erudito vissuto in tono alla metà del Cinquecento, oggi considerata una delle fonti più utili per la conoscenza dello stato delle antichità in quel secolo e per le eventuali trasformazioni dei luoghi di cui lo stesso Bolano fu testimone oculare. Libertini trascrive i frammenti (sull'attendibilità della trascrizione di recente è stato sollevato qualche dubbio) e nel commento iniziale confuta molte delle affermazioni dell'Autore con giudizi negativi che si estendono ad altri eruditi dal D'Arcangelo al De Grossis sino a toccare lo stesso Biscari20. L'anno successivo affronta un tema importante, quello della topografia di Catania antica che egli ritiene «da rivedere» rispetto alla pubblicazione dell'Holm alla luce delle scoperte dell'ultimo cinquantennio. Anche qui una ripresa di notizie dalla bibliografia archeologica e soprattutto da Orsi. Un contributo nuovo è la notizia del muro greco individuato al di al di sotto del II e del III ambulacro del Teatro che egli dice rinvenuto nel 1919 e non pubblicato, muro, di fatto rivisto nel corso dei lavori eseguiti tra il 2004 ed il 2008. La struttura in realtà era stata già individuata nel 1884 (e ne dà notizia il Fiorelli)21, e messa in luce da C. Sciuto Patti che attribuisce ad una generica età arcaica «le estese sostruzioni da me scoperte e fatte discavare sotto l'antico teatro»22.
Libertini ne riferirà brevemente nel '23, più estesamente nel '29, nella rivista del Comune Catania23. Il muro oggi è visibile solo per un'altezza massima di m. 5 e per una lunghezza di m. 11 a causa dell'interro eseguito, forse, in occasione dei restauri effettuati tra il 1965 ed il 1972 allorché si sistemò collocando sotto il piano di calpestio del II ambulacro una botola per eventuali ispezioni. Su alcuni blocchi sono incise le lettere KAT in alfabeto milesio, che, insieme alla tecnica costruttiva impiegata, costituiscono un importante elemento per l'inquadramento cronologico della struttura ad epoca successiva alla riforma licurghea del 403 a.C.24. Libertini avanza diverse ipotesi circa l'identificazione della struttura da intendersi come elemento «..di recinzione...» di un più antico Teatro greco, ma anche come argine per il contenimento del terreno, o come pertinenza di un edificio preesistente al Teatro25.
Di questa interessante struttura, alcuni decenni dopo si occuperà C. Anti che ne darà un'accurata descrizione auspicando che futuri scavi possano individuare altre parti di questo che egli definisce uno degli edifici teatrali più singolari del V sec. a.C.26
Nel 1923, nel '29 e nel '31 le notizie di G. Libertini si susseguono (ritrovamento di un frammento di iscrizione vicino all'odeo, che una foto di quegli anni rappresenta liberato dalle fabbriche sovrapposte, la scoperta di una necropoli di età tardo antica in occasione della costruzione del nuovo Palazzo delle Poste, realizzato in via Etnea su progetto dell'arch. Francesco Fichera, necropoli di cui l'A. dà una breve descrizione e una planimetria, un epigrafe giudaica e, nel 1927, il gruppo marmoreo di Ercole e Anteo nel porto di Catania, oggetto di un recente studio di A. Pautasso27. Segue una miscellanea epigrafica di titoli che in quegli anni si vanno trovando nei pressi di Santa Maria di Gesù continuando l'incremento edilizio e la saturazione dei lotti per la costruzione di numerosi villini lungo il nuovo viale Regina Margherita.Le numerose trasformazioni urbanistiche della zona continueranno a determinare nei decenni a seguire il decremento delle grandi aree verdi. Di tale processo le conseguenze ricaddero anche sull'edificio funerario che il Demanio aveva acquisito nel 1889, tanto che, con nota del 17 apr. 1933, la Direzione Tecnica Catastale di Catania si trovò nella necessità di chiedere alla Soprintendenza ai Monumenti e agli Scavi di Siracusa un «appuramento» delle proprietà demaniali; in particolare si chiedeva la copia conforme della planimetria relativa alla superficie espropriata intorno al cosiddetto "ipogeo di S. Maria di Gesù" per controllare l'esattezza delle risultanze mappali che erano difformi da quelle emergenti dal cessato catasto borbonico descrittivo28.
Tracciata la nuova via che dal viale Regina Margherita avrebbe condotto nella piazza del Nuovo Carcere di Catania (oggi rispettivamente via Ipogeo e piazza Lanza), (fig. 9) si era mantenuto su di essa l'accesso alla piccola area demaniale dell'ipogeo che ancora nel 1955 risulterà ubicato in via Ipogeo 8, con un'area di rispetto all'intorno piuttosto decurtata sino a quando, nel 1959 i proprietari del terreno circostante, di pertinenza del villino del barone Cutore Recupero, non otterranno una trasformazione sostanziale dei luoghi. A seguito di un atto di permuta (n. 21682 notaio G. Di Salvo) stilato tra l'Ufficio del Demanio dello Stato ed il barone Recupero Cutore, l'accesso al monumento non sarà più dalla via Ipogeo bensì dalla nuova via Gaetano Sanfilippo, tracciata a sud del monumento; nel lotto prospiciente la via Ipogeo, dove era l'originaria stradina di accesso, dopo poco tempo fu costruito un edificio per alloggi privati in condominio.
Oggi della grande necropoli romana rimangono questo monumento funerario, chiuso in un piccolo recinto, un altro, che sopravvive nel giardino di un altro villino poco distante del viale Regina Margherita, noto come "Ipogeo Modica" dal nome dei proprietari, ed un colombario riutilizzato come cripta nella chiesa di San Gerolamo alla Mecca divenuta pertinenza dell'ospedale realizzato, all'inizio del Novecento in quest'area periferica ed immersa nel verde sui resti del più antico Ospedale di Santa Maria di Gesù, per colmare il vuoto assistenziale che le nuove discipline psichiatriche richiedevano. Vi si collocò, infatti, la Clinica delle malattie nervose e mentali (1914). Dall'altro lato della piazza sorse la clinica privata di Gesualdo Clementi (fig. 10). Trasformazioni ancora più imponenti riguardarono l'area più a sud, tra Santa Maria di Gesù ed il giardino Bellini dove un reticolo di nuove strade fu tracciato nell'area degli antichi horti. Tra queste quella via dottor Consoli che dà il nome alla vasta area cimiteriale individuata nel 1937. Sebbene lo stesso Libertini sottolinei la particolare considerazione che andava data a questa necropoli, che rientrerebbe nella tipologia dei cimiteri "privati", cioè costruiti in aree comprate da famiglie, collegia e da corporazioni, e sebbene gli scavi successivi al secondo conflitto mondiale, ripresi dallo stesso Libertini nel 1950 e seguiti poi da Giovanni Rizza, abbiano confermato l'importanza del luogo per la presenza di sepolcri monumentali e di edifici di culto tra cui la basilichetta da cui fu strappato il famoso mosaico figurato di cui darà notizia lo stesso Rizza, tuttavia non fu possibile salvare quasi nulla29. Oggi rimane un tratto dell'abside di una delle due chiese nel garage di un palazzetto di quegli anni e naturalmente il mosaico che si spera di potere ripresentare nella sede del museo regionale interdisciplinare di Catania nell'ex manifattura Tabacchi. Faccio solo un cenno all'ultima opera che impegnò maggiormente G. Libertini, cioè la realizzazione del Museo civico di Castello Ursino. Nel 1931 lo stesso Orsi "si compiace" di annunciare che la secolare questione del museo Biscari, di cui abbiamo sentito riferire con dovizia di particolari in questa sede, è stata risolta con il contributo del Comune di Catania, ora gestito dal podestà Carnazza, dell'Università, di cui G. Libertini è rettore, della Soprintendenza ora diretta dal Cultrera. Il castello viene restauro con molti rifacimenti in stile ed il nuovo allestimento accoglierà gli oggetti delle settecentesche collezioni dei Padri benedettini di San Nicolò l'Arena e del principe di Biscari. Libertini chiude la storia del museo Biscari con la sua omonima pubblicazione che lo stesso Orsi elogia per concludere tuttavia che l'edizione è di 500 esemplari ma «disgraziatamente di L. 500!» (e mette un punto esclamativo)30.
Le collezioni vengono mescolate e si sceglie, come criterio espositivo, un ordinamento cronologico e tipologico degli oggetti di cui, oggi è piuttosto difficile, riconoscere la provenienza da scavi o da acquisti nel mercato antiquario.
Sono molte le occasioni perdute come si può dedurre da quanto si qui esposto ma di due in particolare credo che la città debba dolersi: la realizzazione di un grande parco archeologico nella zona di nord ovest del centro urbano, dove il mantenimento degli horti dei Frati Minori Riformati di Santa Maria di Gesù, di quelli dei frati domenicani del convento di Novaluce e di quelli privati ancora esistenti sino agli anni trenta del secolo scorso, che oggi costituirebbe un grande polmone verde in una città oppressa del traffico e priva di parchi. Tra la vegetazione sarebbero rimaste a vista le vestigia di una grande area di necropoli con edifici di culto e mosaici.
L'altra è quella di avere perso il vanto di due magnifici musei settecenteschi da ammirare negli splendidi edifici settecenteschi che furono a tal scopo costruiti impegnando i migliori architetti del tempo (figg. 11-12).